* O R A R I *

  Giovedì 06/11  ore 21,00
     
  Sabato 08/11  ore 21,00
     
  Domenica 09/11  ore 15,30 - 17,30
     
  Martedì 11/11 ore 21,00




 

 




 

 

Un film di JAFAR PANAHI

'Palma d'Oro'
Festival di Cannes 2025

Iran/Francia - Drammatico - 101'



 

Il più coraggioso dei registi contemporanei, che si ostina a fare cinema pur rischiando la vita, realizza un grande racconto sulla vendetta

Un film in cui la denuncia si fa durissima anche quando sceglie la strada dell'ironia

Un film secco, essenziale, teso come una corda, che delinea una parabola limpida sulla repressione e l’orrore - Di una potenza reale, agghiacciante

 

La SINOSSI : Il film prende avvio da un incidente notturno: Rashid, in auto con la moglie incinta e la figlia, investe un cane. Si ferma, scende, verifica le condizioni dell'animale, lo abbatte e riparte. Poco dopo, l'auto si guasta. Una sosta presso un'officina gli fa incontrare Vahid, un meccanico che riconosce in lui un dettaglio inquietante: il passo claudicante dell’uomo e il suono metallico della sua protesi. Quel suono lo riporta a un trauma mai elaborato.
 Anni prima, Vahid era stato incarcerato per aver chiesto di essere pagato. In prigione era stato torturato da un uomo noto come "Gamba di Legno". Ora, convinto che Rashid sia quel torturatore, Vahid lo segue, lo aggredisce e lo rinchiude nel retro del suo furgoncino. Parte verso il deserto, deciso a seppellirlo vivo. Ma Rashid nega, e i dubbi iniziano a insinuarsi.
 Per ottenere conferme, Vahid si mette in viaggio verso la città, coinvolgendo altri ex detenuti che, come lui, hanno subito torture. A bordo del furgone salgono un libraio, una fotografa, una sposa, il suo promesso e un operaio: tutti convinti di poter riconoscere il torturatore. Ma i pareri divergono, le certezze vacillano. Il deserto diventa il teatro di una resa dei conti incerta, dove il confine tra giustizia e vendetta si fa sottile, e la memoria si rivela un terreno instabile...


La RECENSIONE :
Un simple accident è un film secco, essenziale, teso come una corda, in cui Jafar Panahi rinuncia a mostrarsi in prima persona, come aveva fatto in tutti gli ultimi lavori. Resistendo così alla tentazione di far della propria vicenda di oppositore un esempio di martirio. Così come mette da parte l’evidenza teorica del suo cinema. Per ritornare, invece, a quella linea del cinema iraniano che lui stesso ha contribuito a tracciare a costruire, quella capace di costruire il discorso politico a partire dal caso minimo, di risalire dall’accidente al generale. E così delinea una parabola limpida che ragiona sulle conseguenze della repressione politica, sulle sofferenze che non si alleviano, sull’inestinguibile sensazione di terrore che nasce dalla violenza subita. E sul confine tra vittime e carnefici che rischia di diventare troppo sottile per colpa dell’odio. In fondo, Un simple accident risponde a una duplice esigenza. Da un lato istituisce un processo inappellabile alle pratiche feroci del regime iraniano e alle follie dell’applicazione della sharia. In cui non c’è spazio per prove a discarico o attenuanti. L’orrore rimane tale. E chiunque lo compia, non può nascondersi dietro l’obbedienza all’autorità, la fede in uno Stato o in una religione. D’altro canto, sembra raccontare una specie di analisi di gruppo, tutte le incertezze e i tormenti di un processo di catarsi dal terrore e dal risentimento. Perché la liberazione possa davvero compiersi.
Se l’approccio di Jafar Panahi sembra perdere in complessità e in stratificazione, mantiene intatta la sua urgenza. Anzi acquista in nettezza e definizione. E seppure nei suoi eterni, irrequieti movimenti da road movie, che sia un’auto o un furgone poco importa, riesce a trovare momenti ironici, di distensione, di tenerezza (tutta la scena in ospedale), anche se a tratti suggerisce accenti teatrali, sprigiona una potenza reale, agghiacciante. Quella che, ad esempio, manca all’ultimo Mohammad Rasoulof, troppo concentrato sul funzionamento dei meccanismi narrativi e sull’esplicitazione della metafora. In questo cinema, invece, è tutto concreto, anche ciò che non si vede e non si riconosce. E, forse, non c’è mai davvero possibilità di pace o riconciliazione. L’eco della paura non si estingue. Anche se non ha forma e non ha volta, basta un suono di passi a farla risuonare.           (di Aldo Spiniello - Sentieri.Selvaggi.com)