MERCOLEDI 5 NOVEMBRE  Ore 21,00





Un film di Kaouther Ben Hania

Tunisia/Francia - 89 minuti



Il cinema al servizio degli esseri umani.

Un'opera importante che tiene viva
la fiamma dell'indignazione.

 

HIND RAJAB ha segnato l’82esima Mostra del Cinema di Venezia, accolto in Sala Grande con una commossa standing ovation di oltre 24 minuti – la più lunga che si sia mai registrata alla Mostra del Cinema – e vincitore del Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria.
T
ratto da una sconcertante storia vera, il film è stato definito dalla stampa nazionale e internazionale come "un capolavoro", "il film più importante della Mostra", "potente, urgente, vitale". Oltre al Gran Premio della Giuria, a Venezia ha fatto incetta di premi secondari, tra cui il prestigioso Leoncino d’Oro Agiscuola, la Segnalazione Cinema For UNICEF e il Premio Arca Cinemagiovani.

29 gennaio 2024. I volontari della Mezzaluna Rossa ricevono una chiamata d’emergenza: una bambina di sei anni, intrappolata in un’auto sotto il fuoco di una sparatoria a Gaza, implora di essere soccorsa. In costante contatto con lei, aggrappati alla sua voce disperata, faranno tutto il possibile per salvarla. Dalla celebrata regista Kaouther Ben Hania, un film potente e ineludibile, vincitore del Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia e tratto da una sconcertante storia vera. I protagonisti in scena sono tutti interpretati da attori professionisti. Ma la voce che sentiamo al di là del telefono è la registrazione originale della voce di quella bambina. Il suo nome era Hind Rajab.


LA RECENSIONE : Striscia di Gaza 2024. Un'auto con a bordo una famiglia viene colpita dalle forze dell'Idf. Sopravvive solo una bambina di 6 anni che la Mezzaluna Rossa palestinese riesce a contattare telefonicamente. Seguiamo quindi i colloqui con Hindi di cui ci viene restituita la voce registrata dal centralino del pronto soccorso. Il suo destino sarà analogo a quello degli altri occupanti dell'auto anche a causa delle molteplici barriere che ostacolano l'intervento dell'ambulanza che si troverebbe a poca distanza da lei.
Quando il cinema si mette al servizio degli esseri umani (ancor più se si tratta di bambini) assolve ad una delle sue funzioni primordiali.
Kaouther Ben Hania, con il supporto produttivo di nomi come Brad Pitt e Alfonso Cuarón, mette al centro di questo film quanto di più anticinematografico si potrebbe pensare: una voce. È quella di Hindi Rajab che la regista ha ascoltato mentre era indirizzata verso tutt'altro progetto e che ha sentito come non eludibile, riflettendo su come si potesse evidenziare lo strazio di una vita sbocciata da poco che non si è potuta salvare.
Togliamo subito dal campo delle valutazioni il sospetto che questo film abbia un contenuto che travalica la forma. Che cioè possa essere apprezzato per ciò che espone più che per come lo fa. Non è così. Siamo di fronte a un cinema che mette la finzione (ricostruita su basi reali) al servizio di una presa di coscienza che non vuole banalmente 'commuovere' quanto piuttosto far pensare. Lo fa attraverso riprese che conservano l'unità di luogo e di azione senza però mai cadere (neanche per un istante) nel teatro su schermo grazie a una camera che costruisce, insieme a gli straordinari interpreti, una tensione continua.
Qualcuno lo bollerà come un film di propaganda in cui nulla è vero. Ci pensano le immagini finali a smentire clamorosamente questa prevedibile accusa. Si tratta invece di un film in cui, oltre alla voce reale della bambina che per ore è stata sostenuta psicologicamente con la speranza di poterla salvare, ci viene presentata anche l'impotenza di chi non solo non ha potuto intervenire a tempo debito con i mezzi di soccorso a causa della burocrazia della morte, imposta dagli occupanti, sotto le mentite spoglie dei percorsi protetti, ma poi vi ha trovato a sua volta la morte.
Per decenni ci siamo giustamente e doverosamente commossi dinanzi alle sofferenze patite dagli ebrei a causa del nazismo e dell'antisemitismo. Ora qualcuno vorrebbe però impedirci di fare altrettanto nei confronti di questa strage degli innocenti compiuta in nome della caccia ai terroristi di Hamas, pena l'accusa di diventare a nostra volta antisemiti.
Continueremo a commuoverci davanti alle immagini della bambina col cappottino rosso di Schindler's List ma piangeremo anche per Hindi perché quando un bambino muore poco importa se ciò accade per mano di un genocida o di un massacratore criminale. È morto e tanto deve bastare per suscitare un senso di repulsione per chi lo ha ucciso e chi gli ha ordinato di farlo così come di pietà (nel senso più alto del termine) per lui. Questo film ci aiuta a tenere viva la fiamma dell'indignazione.  (di Giancarlo Zappoli - MyMovies)



 

 


MERCOLEDI 12 NOVEMBRE  Ore 21,00




 

Un film di Francesco Sossai

Italia/Germania - Commedia/Drammatico - 100'



 

Un road movie che riesce a raccontare
un'Italia vera con una sua energia lenta
e sul finale commovente

Il film di Francesco Sossai è una canzone
triste, stonata e meravigliosa

Scapigliato e avvinazzato,
tra Bukowski e la pianura Veneta.
Un atto d'amore in cui funziona tutto

 

Un giro di chitarra scordata, una birra calda, una smorfia sul viso. Dietro Le città di pianura, opera seconda di Francesco Sossai, c'è un cinema gigantesco eppure modellato secondo l'intimità di un primo piano che racchiude un mondo intero. In mezzo i dettagli, le parole, i silenzi. È il cinema italiano che vorremmo, quello ideato e poi strutturato secondo il cuore dei personaggi, scritti in modo perfetto.

Le città di pianura è una ballata beffarda, un on-the-road ironico, un buddy-movie in salsa veneta; uno sguardo aperto sulla geografia umana portata fuori i confini, e per questo resa verace, vivida, coinvolgente. C'è la scrittura (a firmare lo script Sossai insieme ad Adriano Candiago), c'è la tecnica, c'è il cuore che comanda e continua ad avere ragione, portando il film ad un'elevazione popolare di straordinario impatto emotivo.

Le città di pianura re-inventa l'immaginario veneto attraverso un on-the-road avvinazzato e sgualcito, che vive e si evolve grazie alla scrittura, ai personaggi, alla messa in scena applicata ad una geografia umana dalle forte emotività. Il film di Francesco Sossai è il cinema italiano al suo meglio, legato ad un immaginario ben definito eppure costantemente nuovo e sorprendente. Da non perdere.
(Damiano Panattoni - da MoviePlayer.it)


La TRAMA : Le Città di Pianura
, il film diretto da Francesco Sossai, si svolge in Veneto e segue la storia di Carlobianchi e Doriano (Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla), due amici che hanno passato i cinquanta ma che si sentono ancora ragazzini, ostinatamente aggrappati a un’eterna adolescenza.
La loro vita è fatta di bevute e di notti interminabili in cui fanno immancabilmente le ore piccole, inseguendo sogni sfocati. Senza un soldo e senza una meta precisa, hanno un solo rituale sacro: l’ultimo giro da un bar all’altro, come se nel fondo di un bicchiere potessero ancora trovare un senso. Durante una di queste serate storte, incrociano per caso
Giulio (Filippo Scotti), un giovane studente di architettura dall’animo gentile e lo sguardo sognatore.
Quello che doveva essere solo un incontro bizzarro si trasforma in un viaggio surreale attraverso la piatta vastità della pianura veneta, tra rotonde deserte, luci al neon e silenzi interrotti dal rombo del motore. A bordo di un’auto sgangherata e con due compagni improbabili al fianco, Giulio si ritrova a scoprire un altro modo di guardare al mondo, all’amore e al suo futuro. Un road movie malinconico e ironico, che si muove al ritmo lento di una sbornia che passa, lasciando il retrogusto dolceamaro della verità...


La RECENSIONE : 
Pensavo spesso, guardandolo, che Le città di pianura è l’unica parafrasi italiana possibile di uno dei film sull’uso e abuso di alcool più belli di sempre, Withnail & I, uscito in Italia con l’improbabile titolo di Shakespeare a colazione. Lo intendo come un grande complimento, avendo una venerazione per quel film diretto da Bruce Robinson, e rimanendo commosso ogni volta dalla malinconia struggente che sta sotto alle vicende esilaranti dei suoi protagonisti.
Certo,
Le città di pianura è solo in parte assimilabile a Withnail & I, perché Francesco Sossai - che lo ha scritto con Adriano Candiago e l’ha diretto - dentro ci ha messo tanto altro. E però, è proprio in virtù del divertimento, ancora più della malinconia mai nichilista ma sempre vitale (e certo, anche della sbronza perenne che qui dura una notte e un giorno e un’altra notte ancora) che emerge dal film, che ho sentito molto questa vicinanza.
Sossai
, nel suo film, in questa storia che vede protagonisti due cinquantenni in bisboccia perenne e in perenne rimpianto del passato, che poi trascinano con loro un ventenne ingenuo e inesperto , ha messo dentro tanto, dicevamo. Ha messo dentro, appunto, una sorta di coming of age tardivo, tanto per dirne una. Girovagando di bar in bar a bordo della loro Jaguar attraverso la provincia veneta, Carlobianchi e Dori (Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla del Teatro degli Orrori) individuano per caso Giulio (Filippo Scotti), classico bravo ragazzo con gli occhiali, di quelli che si sta facendo soffiare la ragazza di cui è chiaramente innamorato perché è tardi e deve andare a dormire; e senza dirselo, e forse nemmeno pensarlo, decidono che è ora di iniziare il ragazzo a un modo diverso di vivere la vita. Il loro, appunto. Non sono Lucignoli, o cattivi maestri, ma due adulti mai cresciuti che aiutano un ragazzo che non sa vivere la capire come si fa; ma non per questo il candore di Giulio non avrà un qualche effetto su di loro.
Da Giulio, come viene detto in qualche modo verso la fine del film, quando i tre finiscono a visitare la
Tomba Brion progettata da Carlo Scarpa, impareranno forse a avere una diversa visione della pianura, e quindi della loro vita. Di certo Giulio l’ha imparato da loro.
Ma nelle Città di pianura Sossai parla anche della sua terra, del nord-est, del Veneto, delle sue trasformazioni. Della crisi economica e della cementificazione nel nome della sacra infrastruttura, ma tratteggia anche un’antropologia più profonda, che è quella della provincia, la cui geografia - come insegnava Carlo Mazzacurati, che di certo per Sossai è stato un riferimento inevitabile - ha una profonda influenza sulle psicologie umane. E allora il film attraversa strade, autostrade, rotonde. Fa pause in bar scalcinati, bacari veneziani, pub in stile western, aeroporti di provincia. Osserva villette a schiera, palazzine di cemento, case infestate da alluminio anodizzato e ville settecentesche in mano a nobili decaduti che - non a torto - rimpiangono la devastazione di una terra (mica di un territorio). Racconta esseri umani che non sembrano più in grado di avere un’identità, una vista su un futuro, nemmeno prossimo, prossimissimo, e galleggiano in un presente eterno e inevitabilmente alcolico.
Withnail & I e Mazzacurati
, dicevamo, ma nella risata e nel vitalismo che cercano di reprimere amarezze e malinconie Sossai prende qualcosa dalla migliore commedia all’italiana così come da personaggi come Jarmusch e Kaurismaki. Le città di pianura è un film imbevuto di ribellismo rock - e in questo senso la scelta azzeccatissima di Capovilla non pare casuale - e di irriverenza quasi punk, senza però spigoli, senza ritmi indiavolati. Perché i ritmi e lo spirito, semmai, sono quelli delle ballate folk, delle struggenti canzoni del primo Tom Waits, o di certo cantautorato di casa nostra.
Grazie a questi umori e a queste sensibilità spesso così diverse, grazie alla gestione di
Sossai che non dimentica mai né dove mettere la macchina da presa né come muoverla, che è attentissimo e affettuoso coi suoi attori/personaggi anche nel modo in cui vengono ripresi, alla voglia che questo giovane regista ha di dire senza mai ostentare, Le città di pianura diventa un piccolo grande film.
E
quell’ultimo bicchiere che non è mai davvero l’ultimo il segnale non di una resa o di una sconfitta - l’unico vero sconfitto del film, interpretato da Andrea Pennacchi, non beve mai, nel presente - ma al contrario la ricerca di qualcosa di più, il segnale di chi non rinuncia, ma continua, un bicchiere dopo l’altro, con tutta la testardaggine e la sventatezza di cui si è capaci, a voler vivere una vita il cui segreto, per non parlare del senso, sfuggono costantemente.  (di Federico Gironi - da ComingSoon)