Gennaio/Febbraio - ore 21,00

   
 
Mercoledì 22 Gennaio
  Mercoledì 29 Gennaio
   
 
Mercoledì 5 Febbraio
  Mercoledì 12 Febbraio

 


 

Mercoledì 22 Gennaio ore 21,00




Un film di EMMANUEL COURCOL

Francia - Commedia - 103'


 

Due fratelli divisi dalla vita scoprono l'esistenza
l'uno dell'altro e imparano a volersi bene
attraverso la musica.

Un film che conferma la salute del cinema francese,
mischiando toni, argomenti e registri diversi.

 

Celebre direttore d'orchestra, il quarantenne Thibaut scopre di essere malato di leucemia e di avere bisogno di un donatore di midollo osseo. Facendo indagini sulla compatibilità dei familiari viene a sapere di essere stato adottato e di avere un fratello di sangue, Jimmy, più giovane e proveniente dal nord della Francia. Diversi per carattere ed estrazione sociale, i due impareranno a conoscersi e a volersi bene, uniti dalla passione per la musica. E quando Thibaut scopre che Jimmy ha l'orecchio assoluto, lo spinge a diventare il direttore della banda musicale nella quale suona il trombone...
Una commedia drammatica semplice ed efficace, che mescola con abilità lacrima e risata, melodramma e realismo sociale.
La dote principale del cinema francese - quando scritto, recitato, confezionato con impeccabile abilità come nel caso di En fanfare - è quella di saper gestire con apparente naturalezza elementi eterogenei. Emmanuel Courcol, in passato autore dell'ottimo Weekend, parte dal dramma medico, passa alla vicenda famigliare dell'incontro tra i due fratelli adottati, poi allo scontro sociale fra i due protagonisti (uno borghese, l'altro proletario, uno realizzato, l'altro fallito) e infine arriva addirittura al racconto militante e sociale, con l'accenno alla crisi economica del nord e alle proteste operaie per la chiusura delle fabbriche... A fare da trait-d'union è naturalmente la musica, anch'essa connotata in modo duplice, raffinata e orchestrale nel caso di Thibaut, immediata e grezza, da fanfara per l'appunto, in quello di Jimmy, ma capace di avvicinare i due fratelli.
Grazie anche all'opposta, perfetta interpretazione di Benjamin Lavernhe (Thibaut) e Pierre Lottin (Jimmy), il primo sensibile e un po' supponente nella scoperta di un mondo infinitamente distante dal suo, il secondo istintivo e umorale, desideroso di riscatto ma troppo orgoglioso per ammetterlo, il film alterna vari registri senza perdere il controllo della materia. Mai patetico o all'opposto manipolatorio (nonostante ci siano tutti gli elementi del caso, dalla relazione di Jimmy con una collega alla simpatia di un ragazzo down membro dell'orchestra), En fanfare dimostra limiti proprio in una scrittura fin troppo controllata. Le tante deviazioni della trama aiutano a evitare la trappola del risaputo (a un certo punto, ad esempio, il film potrebbe diventare una sorta di nuovo Grazie, Signora Thatcher...), ma rischiano anche di trasformare molti passaggi in piste narrative vuote: eppure Courcol sa giocare di dettagli, crea piccole, splendide scene rivelatrici (il furto della foto della madre in una palestra, l'incontro con la figlia di Jimmy, il ruolo della sorella acquisita di Thibaut...) e dà al suo film un passo da cinema popolare che arriva con naturalezza al finale corale, in cui le opposte idee di musica rappresentate dall'orchestra e dalla banda trovano un terreno d'intesa nel ritmo travolgente del Bolero di Ravel.
A quel punto gli argini dello spettatore di fronte al fiume di lacrime sono già crollati, e ci si può abbandonare al pianto liberatorio, sapendo bene che per uno spettatore a volte non c'è niente di più bello, e per un regista niente di più facile da costruire. Bastano - si fa per dire - un pugno d'attori in stato di grazia, una scrittura attenta, una regia invisibile, una musica indimenticabile...  (Roberto Manassero - MyMovies)

 

 

Mercoledì 29 Gennaio ore 21,00




Un film di PEDRO ALMODOVAR

'Leone d'Oro' al Festival di Venezia


Spagna - Drammatico - 110'


 

Esorcizzare la morte con la bellezza
Il nuovo poetico film di Pedro Almodovar.

La stanza accanto è un film che unisce bellezza e dolore, invitando a riflettere sulla propria eredità,
con la delicatezza e l'intensità di Almodóvar.

 

La TRAMA : La stanza accanto di Pedro Almodóvar è un racconto intenso e profondamente umano che esplora il tema della morte e del lascito che ciascuno lascia dietro di sé, senza indulgere in malinconia, ma celebrando la bellezza della vita. Attraverso la storia di Martha (Tilda Swinton), una reporter di guerra malata terminale, e Ingrid (Julianne Moore), una scrittrice che l’accompagna nei suoi ultimi giorni, il film riflette su temi universali come l’amore, il coraggio, la memoria e l’eredità personale.

La narrazione affronta con delicatezza e sensibilità la complessità delle scelte di fine vita, incluso il tema dell’eutanasia, portando il pubblico a interrogarsi sul significato dell’esistenza. Con un’estetica raffinata e le straordinarie interpretazioni delle protagoniste, Almodóvar intreccia poesia e riflessione, trasformando il percorso verso l’addio in un inno alla ricchezza imprevedibile della vita stessa.
Alla parete c’è appeso un Hopper. Una copia, ovviamente. È quello con la gente seduta al sole, sulle sdraio. Aspettano, forse. Sono veri, sono fantasmi. “All the living and the dead”. È il finale del racconto più famoso di Joyce, già meraviglioso film di John Huston. Nell’ultimo film di Pedro Almodóvar ci sono entrambi, il racconto e il film. Sono, quelle parole, la chiave per capire il dolor y gloria di queste due vite, di queste due donne: Tilda Swinton e Julianne Moore.
The Room Next Door
, Leone d’oro a Venezia 81 ora nelle sale col titolo La stanza accanto, è un vitalissimo film sulla morte. Leggevo, e lo sentivo dire anche dopo la proiezione stampa al Lido, che è cupo, qualcuno diceva addirittura senile. A me pare tutto il contrario. Da qualche tempo, Almodóvar ha evidentemente avviato una riflessione – artistica e personale, si vedano i bellissimi dispacci dalla pandemia su El Diario – sulla fine. Sulle separazioni: dalle persone, dalla vita. Su quello che lasciamo indietro, e quello che forse non troviamo davanti. I corti The Human Voice (sempre a Venezia, sempre con Tilda Swinton) e Strange Way of Life. E Madres paralelas. E, prima di tutti, il citato, magnifico Dolor y gloria.
The Room Next Door è la prosecuzione obbligata, precisa, dolorosa e gloriosa su quella strada. È tratto da una storia non sua (il romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez). È il suo primo lungometraggio girato in inglese, dopo un progetto abortito con Cate Blanchett dall’opera di Lucia Berlin. È un film doloroso, sì, ma mai dolente.
Ingrid (Julianne Moore), scrittrice che non riesce a fare i conti con la sua e nostra mortalità, viene a sapere che Martha (Tilda Swinton), una vecchia amica che non vede più da anni, ha un grave cancro. Va a trovarla in ospedale. Nasce un nuovo patto, tra due donne che amiche erano rimaste pure a distanza, e che si ritrovano ancora più vicine nella maturità, e nelle scelte che essa comporta. Avrete letto in giro alcune parole chiave della trama: non le ripeterò qui.
Perché The Room Next Door non è un giallo, ma un po’ sì. È un noir verniciato di melodramma alla maniera anni ’40 che ad Almodóvar piace da sempre moltissimo. Qui anche di più, perché per la prima volta ha girato in America (ma gli interni sono ovviamente a Madrid), e sembra voler risagomare ancor più esattamente quel modo, quel mondo. C’è tanto cinema classico, da Buster Keaton a Lettera da una sconosciuta. Ci sono scale che portano a stanze segrete come in Vertigine di Preminger. Vestiti eleganti e lettere misteriose per davvero. Poliziotti impiccioni e travestimenti (letteralmente: e il finale volutamente kitsch ha spiazzato alcuni).
Ma, al cuore, questo film rimane un’indagine sulla fine, o su un nuovo inizio. Il centro di The Room Next Door resta l’amicizia tra due donne come raramente si è vista sullo schermo ultimamente. Non la sisterhood alla moda corrente: del resto, un paio di battute lasciano intendere che tante istanze di oggi, spesso solo di superficie, a Pedro non piacciono, o quantomeno non interessano; ma la relazione piena, rotonda, adulta fra due donne, e tutto quello che resta e che cambia.
Tilda Swinton e Julianne Moore sono due giganti (ma dai), soprattutto nel lasciarsi spazio a vicenda, nell’ascoltarsi, nel non divorarsi facendo a gara di gigionismi (entrambe sono, anzi, molto “tenute”). Non è, per intenderci, un “film di donne” nello stile dei melodrammi alla Eva contro Eva rieditati in chiave camp anche recente (da Diario di uno scandalo a May December i primi che mi vengono in mente).
E, nel suo umanesimo anche ambientalista, politico e morale, il dolorosissimo The Room Next Door riesce a restare un film pieno di luce. Quella di Hopper, e dei colori sempre accesi di Pedro, e della neve che, quando cade in questo film, è sempre rosa. E quello di una giacca gialla e di un rossetto rosso, per stendersi al sole ad aspettare.  (Mattia Carzaniga - RollingStone)

 

 

Mercoledì 5 Febbraio ore 21,00




Un film di Stéphane Brizé

Con : Guillaume Canet, Alba Rohrwacher

Francia - Commedia/Sentimentale - 115'


 

‘Le occasioni dell’amore’ è il più bel mélo
che vedrete quest’anno

Stéphane Brizé dirge un film che riecheggia il vecchio cinema francese, ma con cui mantiene il suo occhio preciso sulle relazioni di oggi. E Guillaume Canet e Alba Rohrwacher sono semplicemente magnifici

Questo straordinario romanticismo non ha bisogno
del dramma dei conflitti o di troppe parole.
Sa raccontare un’atmosfera.

 

La TRAMA : Mathieu e Alice un tempo erano innamorati, una storia intensa e appassionata finita bruscamente. Oggi, quindici anni dopo, lui è un attore famoso che cerca rifugio dalle sue insicurezze, lei un’insegnante di pianoforte che ha bisogno di una nuova luce. Si ritrovano casualmente nell’hotel di lusso di una località balneare semideserta, un incontro fuori stagione. Sarà una seconda occasione dolce e imperdibile per fare i conti con la loro relazione e trasformare le incomprensioni in complicità. Dal maestro Stéphane Brizé, una commedia romantica tenera e invernale sulle occasioni perse e ritrovate con Alba Rohrwacher (L’amica geniale) e Guillaume Canet (La Belle Époque).


La RECENSIONE : “Non riesco a far uscire quello che ho dentro”, dice a un certo Alice, in uno dei momenti più dolorosi di Hors-saison. Ha appena fatto ascoltare a Mathieu un brano che ha composto. Ma non sta semplicemente parlando di un’attività creativa in cui dar libero sfogo al suo talento di pianista. È un discorso più generale, che riguarda la possibilità di riconoscere le esigenze di una profondità autentica e di trovarne l’espressione più esatta, una consonanza più piena con le azioni e le scelte che si compiono. Prima ancora che con le parole. È una delle chiavi per entrare nel cuore del film di Stéphane Brizé (che su questo piano sembra dialogare a distanza con Maestro di Bradley Cooper). E non è un caso che Mathieu sia un famoso attore di cinema. Un artista, dunque, ma anche un uomo che mostra continuamente il lato della finzione, costretto a rendere conto del suo personaggio pubblico (è straordinaria la sua reazione quando il trainer sulla spiaggia non lo riconosce…)
Ciò che colpisce in Le occasioni dell’amore è il fatto che, tranne pochi, per altro fantastici e decisivi dialoghi, l’amore è tutto un affare di silenzi, di sguardi, di stati emotivi e di pensieri. E di comportamenti, di gesti concreti. Anche contraddittori, certo. Le rotture minacciate e mai consumate, i ritorni dopo gli addii, i dubbi, i tormenti. Un “non tornare mai più” è un commiato definitivo o un invito segreto? Del resto, le storie vere non sono mai lineari. E sarà per questo che quando Guillame Canet e Alba Rohrwacher passeggiano, molto spesso sembrano allontanarsi e seguire due strade differenti. Come barche che cercano il vento più adatto per arrivare allo stesso punto di destinazione. Ciò che conta è che l’amore si vive, non basta solamente dirlo. Tanto non ci saranno mai parole abbastanza precise (o vaghe) per restituire le sue mille forme. Si vive anche nei suoi alti e bassi, nei vuoti, anche nelle reticenze. Anche nell’affanno di un accordo impossibile con gli obblighi, le scelte già compiute, le responsabilità.
Seguito il solco di un sentiero m’ebbi l’opposto in cuore, col suo invito
. È questo, lo straordinario film di Stéphane Brizé. Una storia di seconde possibilità, certo. Ma soprattutto sullo scollamento dal quotidiano delle proprie vite, sul tempo passato e sul miraggio del futuro, sulla dolorosa malinconia dei ritorni “fuori stagione”. Sul conflitto insanabile tra la tortuosità del sentimento e la pretesa coerenza dei percorsi. Infatti Mathieu viene costantemente richiamato alla responsabilità. Dal regista della pièce teatrale che avrebbe dovuto segnare il suo debutto sul palcoscenico, ma da cui è scappato per paura di non essere all’altezza. Dalla moglie che gli chiede di accettare le sceneggiature che gli vengono proposte, per ripagare i danni dello spettacolo a cui ha rinunciato. E Brizé non manca di lanciare qui le sue stilettate a un’idea comoda del cinema: “la strategia migliore è fare prima il polar e poi la commedia sociale”. Ma, al di là della polemica, conta la sensazione amara di una gabbia da cui è difficile districarsi.
Il punto è questo. In fondo, tra il singolo e il mondo c’è ancora conflitto, ma stavolta Stéphane Brizé non usa l’arma della rabbia. Ma quella della delicatezza e dell’attenzione. La bellezza del suo romanticismo è che non ha bisogno del dramma dei grandi conflitti, del sangue degli scontri. Non è mai urlato, non si gonfia di dichiarazioni roboanti. Più che sulle parole, le emozioni si muovono sulle musiche, sulla partitura praticamente ininterrotta di Vincent Delerm. Brizé sa raccontare un’atmosfera, anche giocando con gli stereotipi: la Bretagna piovosa, il mare d’inverno… Ma non è neanche semplicemente lirico. Nonostante sembri omaggiare apertamente certo cinema di Lelouch, ha sempre ben presente la realtà più prosaica del quotidiano. E sa così esprimere una vena ironica, surreale, che racconta una specie di straniamento, di distanza da una freddezza che è il rumore di fondo del mondo. Mathieu si muove nella lussuosa e asettica Thalasso Spa in cui si è rifugiato come un Tati in rotta con gli oggetti, o un Suleiman incredulo e spaesato. È lui, a conti fatti, il personaggio più in crisi, più fragile e passivo. Alice, invece, nonostante i tormenti, compie tutti i passi decisivi, all’inizio, durante, alla fine. Mathieu si lascia agire. Ma ciò che conta è che, piano piano, tutto riprende calore. Il divertimento diventa sempre più aperto, come in quegli esilaranti esordi al bar e al ristorante. E l’immagine si apre, si libera dalla simmetria dei movimenti, per giocare con la scompostezza dei dispositivi e dei formati. Poco importa come andrà a finire. Poco importa se alla gioia corrispondono un dolore e una malinconia altrettanto intensi.   È la vita.                (di Aldo Spiniello - SentieriSelvaggi.it)

 

 

Mercoledì 12 Febbraio ore 21,00




Un film di MIHARA MITSHUIRO

Miglior Film al Far East Film Festival


Giappone - Drammatico - 110'


 

Tofu in Japan, tra lacrime e risate
(e dalla parti di Perfect days)

Un affresco luminoso e toccante
sul passaggio di testimone,
anagrafico e culturale

 

La TRAMA : Il film racconta il rapporto tra generazioni diverse – tema prediletto dal maestro del cinema nipponico Yasujiro Ozu - attraverso la storia del legame tra un padre e una figlia che gestiscono un piccolo negozio di tofu vicino Hiroshima. Nei panni del padre Takano Tatsuo, artefice dell’impareggiabile tofu, c’è Tatsuya Fuji, l’attore protagonista di Ecco l'impero dei sensi di Nagisa Ôshima. Takano Tatsuo è un artigiano appassionato e il tofu che prepara è considerato il migliore della sua città natale, Onomichi, nella prefettura di Hiroshima, e di tutte le province intorno. Oltre a fornire il suo tofu a un supermercato locale, Takano gestisce un negozio con la figlia Haru (Aso Kumiko) che vive col padre dopo essersi separata dal marito. Takano e i suoi amici decidono che è arrivato il momento di cercarle un nuovo fidanzato e iniziano a vagliare i migliori scapoli della zona in cerca del marito perfetto per Haru. Ma anche Takano farà un incontro inaspettato, conoscerà Fumie, una donna che si rivelerà davvero speciale.

La RECENSIONE :
“Senza il nigari – il cloruro di magnesio naturale – il tofu non è tofu. E la produzione di massa non riuscendo a gestire questa variabile, per compensare usa coagulanti artificiali”. Benvenuti nel mini mondo di Tofu in Japan – La ricetta segreta del signor Nakano. Un film deliziosamente piccino, a cavallo tra comico e dramma sul tema della felicità rintracciabile nelle cose semplici ed infinitesimali di ogni giorno (ogni paragone con tante troppe grandi produzioni cinematografiche è voluto e lecito). Drin drin.
Il campanello di
Perfect Days ha suonato. Sembra che filosofia e spirito tra i due film si somiglino. Invece il regista e sceneggiatore nipponico Mihara Mitsuhiro condivide con l’exploit in terra giapponese di Wim Wenders qualcosa che a sua volta Wenders condivideva con Paul Auster di Smoke. Piazzarsi in un angolo leggermente periferico di un paese/città, qui in Giappone, e mostrare lo scorrere della quotidianità di persone qualunque, il meno corrotte da schemi di vita moderni e consumistici. Nel caso del film di Mitsuhiro il plot è ambientato nei primi anni duemila ed è incentrato sulla bottega di tofu di un paese vicino a Hiroshima gestita dal settantenne burbero Takano (Fuji Tatsuja) e da sua figlia quasi cinquantenne Haru (Aso Kumiko), dove i due producono artigianalmente il tofu dalla selezione dei semi di soia alla loro tritatura, passando dalla cottura a vapore alla cagliatura (vegetale), fino alla frittura. Takano e Haru lavorano in armonia da tempo, ma mentre lei vorrebbe innovare mantenendo comunque la tradizione, lui non cambierebbe una virgola dell’abituale processo produttivo casalingo. Quando i medici comunicheranno a Takano che ha bisogno di un intervento chirurgico per un’ostruzione arteriosa, l’uomo cercherà con urgenza un compagno di vita per la figlia, ma non sarà il giovane chef di cucina italiana a prendere la mano di Haru.
Cadenzato sull’evolversi degli accadimenti dei due protagonisti su tre primavere che si susseguono,
Tofu in Japan è un affresco luminoso e toccante sul passaggio di testimone, anagrafico e culturale, tra generazioni che monta minuto dopo minuto, lieve e corposo, proprio come quel tofu migliore di Hiroshima, e forse di tutto il Giappone, che viene decantato dai clienti della bottega e che nel marasma del globalismo artificiale continua ad essere un alimento sano e locale. Mitsuhiro concede spesso respiro al rapporto padre-figlia, sviando su sottotrame che ruotano attorno a Takano: dal tono romantico con la signora single, malata di cuore come lui, e come lui figlia di morti causati dalla bomba atomica, con la quale inizierà una stretta frequentazione; al contrappunto comico di un gruppo di pittoreschi vicini di bottega. Sempiterni interni tra tubi, recipienti e pentoloni per il tofu si alternano ad esterni urbano-naturali in divenire con una grazia encomiabile che si adagia sulla nostalgia degli anziani, nonché sui rintocchi di commento musicale al pianoforte, come fosse uno degli ultimi titoli di Eastwood con Clint in scena.
Del resto
Fuji Tatsuya è un attore strepitoso: capace di modulare il calore della scena con pochi cenni di dialogo e la variazione di gesti o movimenti, già nei panni del classico “vecchio brontolone” per Mitsuhiro Mihara in altri due film (Photo Album of the Village e Flavor of Happiness), nonché protagonista del celebre L’impero dei sensi di Nagisa Oshima del 1976. Le testate giapponesi ricordano che anche Ozu si auto qualificava “produttore di tofu”, sfornando film dopo film tematicamente e stilisticamente simili. E con Tofu in Japan siamo inevitabilmente sulla stessa strada del maestro.    (di Davide Turrini - FQ Magazine)