La
RECENSIONE di Internazionale :
Vermiglio è un film
dell’incanto, anche quando
veicola esattamente l’opposto. È
forse questo l’aspetto più
sorprendente ed affascinante del
secondo, notevole lungometraggio
della trentina Maura Delpero,
fresco vincitrice
del Leone d’argento – Gran
premio della giuria all’ultima
Mostra del cinema di Venezia, il
secondo premio per importanza
nella gerarchia del palmarès, da
oggi nelle sale italiane.
Siamo alla fine della seconda
guerra mondiale a Vermiglio,
villaggio di montagna in
Trentino-Alto Adige, ultimo
comune della val di Sole,
storicamente zona di frontiera.
In questo villaggio è nato il
padre della cineasta e
attraverso l’omaggio alla figura
paterna e al luogo di nascita,
emerge chiaro il ritratto di una
comunità, delle sue gioie,
piccole e grandi ma sempre
momentanee, e delle sue grandi
fatiche, amarezze, speranze
troppo spesso deluse. E anche,
con la stessa amorevole onestà,
delle sue ipocrisie, omertà,
ottusità.
Film sul confine e dunque sul
crinale. Sempre. Tra pace e
guerra, quiete e tempesta,
angoscia e serenità, inconscio e
presa di coscienza, valli e
vette, realtà e onirismo. Al
centro c’è una famiglia dominata
da Cesare, maestro di scuola,
figura fondamentale della
comunità e padre di una figlia e
un figlio grandi, di due figlie
e un figlio piccoli, di un
neonato e due piccoli che non ce
l’hanno fatta, Flavio e
Giovanni.
Cesare impera, austero, severo,
ma non tirannico o violento, e
tuttavia la regista è di una
finezza micidiale nel farci
cogliere per intero, senza alcun
manicheismo, la dinamica dei
meccanismi psicologici e sociali
che si esprimono in primo luogo
in famiglia, i quali – come in
un orologio dal meccanismo
perfetto – creano una condizione
di prigionia sistematica, fisica
e psicologica, per le donne, che
non lascia praticamente spazio
alla loro volontà.
Si sussurra tanto, si parla
molto pacatamente, non si urla
praticamente mai e Delpero, tra
i vari miracoli che compie nel
film, riesce a essere cruda
sulla condizione della donna,
senza togliere nulla alla
delicatezza, a una dolcezza
sommessa, che tuttavia non è mai
sottomessa. E riesce, appunto, a
non infrangere il fragile
cristallo dell’incanto, che in
tutta evidenza ha creato con
grande cura e fatica, e che
resta intatto fino alla fine,
anche quando tristi e crude
verità emergono sconvolgendo le
vite, anche quando le piccole
grandi guerre del quotidiano che
sottotraccia si agitano sempre
più deflagrano come una granata,
se non come un colpo di cannone,
in quell’ambiente innevato e
raggelato.
Con modalità un po’ buzzatiana,
il film mette la guerra fuori
campo per meglio metterla in
campo. Nel senso che il nemico
che incombe sempre come
terribile minaccia ma non arriva
mai del Deserto dei Tartari,
chiaramente un’entità astratta e
metafisica, è un concetto che si
presta a molte varianti.
Un’altra recente è quella che
Roberto Minervini ha messo in
scena nel suo ultimo film,
I dannati,
una delle sorprese dell’ultimo
Cannes: ambientato durante la
guerra di secessione americana,
il nemico resta sempre
invisibile, anche quando affiora
tra gli alberi con uno o più
spari, per poi scomparire, come
un’entità imprendibile. E
incomprensibile.
Anche in Vermiglio la
guerra sembra un’entità
invisibile e incomprensibile.
Questa tendenza all’astrazione
di quello che è concreto in
un’altra realtà è evidente fin
dall’inizio. Uno dei bambini è
profondamente affascinato dalla
cartina geografica pieghevole
che si distende quasi
magicamente aprendo un libro e
facendo apparire la Sicilia –
allora lontanissima nella testa
delle persone – e sulla quale
sono disegnate le sue
particolarità, come le arance:
un luogo lontano, mitico, un po’
terra incognita del sogno, tanto
che il bambino la confonde con
l’Africa, vedendo dei leoni
disegnati.
È una forma di altrove, ingenua
e coloniale. E che tornerà più
avanti, quando la figlia piccola
entra più volte nello studio del
padre. La celebre porta proibita
delle fiabe da non aprire mai e
che invece lei varcherà fino al
punto di aprire il cassetto
della scrivania paterna, ovvero
la cosa più proibita di tutte.
Il mondo lo si può osservare,
filmare, rasoterra o da un vetro
controluce: sono molte le
inquadrature magiche e raffinate
del film. A tratti il rapporto
tra il fratellino e la sorellina
fa pensare a Fanny e
Alexander (1982), il
capolavoro di Ingmar Bergman,
senza l’elemento soprannaturale,
ma con quello religioso. E la
deambulazione controluce della
ragazzina nello studio paterno
fa pensare ai chiaroscuri della
casa-museo, imbalsamata e
allegoria del franchismo
decadente, in cui si muove la
piccola Ana Torrent, in uno dei
capolavori dello spagnolo Carlos
Saura, Cría cuervos
(1976).
Proprio come nel film ovattato
di Saura, la dimensione intima è
ammaliante e al contempo
claustrofobica, non solo sul
piano genericamente familiare,
ma anche su quello infantile, o
meglio lo sguardo dell’infanzia
è veicolo di qualcosa di magico
e seducente, ma anche di
ripiegato su se stesso, forse
anche per rassicurarsi, per
proteggersi. Metafora, o
specchio, del mondo dei grandi
della comunità. Perché tutto si
salda sempre alla dimensione
collettiva, corale, di una
comunità e delle sue fatiche
quotidiane, talvolta felici,
talvolta laceranti, come le
promozioni a scuola e quello che
comportano, per maschi e
femmine.
Qualcuno ha parlato di un film
da presepe. Ma in Italia la
tradizione del presepe è
altissima, quasi artistica, e
oltretutto nel film – nella
parte invernale siamo vicini al
Natale – è il fulcro della
comunità: il presepe appare alla
fine della prima mezzora per poi
tornare ancora, feticcio
protettivo a cui tiene in
particolare il figlio piccolo di
Cesare.
In quest’opera di complessa
ricostruzione
storico-antropologica, che
Delpero ha scritto e diretto,
non sorprende quindi la scelta
di dialoghi in dialetto, anche
per sottolineare che in Trentino
o in Sicilia l’italiano era una
magnifica lingua straniera.
Quella che Cesare insegna a
grandi e piccoli. Come la
musica, altra sua grande
passione. Personaggio
articolato, contraddittorio,
certamente denso grazie a uno
straordinario Tommaso Ragno,
anche se qui tutti e tutte sono
di eccezionale bravura,
consacrando così Delpero come
grande direttrice di interpreti.
Fuori campo c’è la guerra, e ci
sono due soldati ospiti della
comunità, stranieri in qualche
modo, poiché provengono dalla
Sicilia. Ospitare quelli che di
fatto sono dei disertori è
questione di grande dibattito
tra i membri della comunità,
come quello nella locanda in cui
un anziano afferma “che scappare
dalla guerra è proprio da
vigliacchi”. E Cesare ribatte:
“Forse, se fossero tutti
vigliacchi, non ci sarebbero più
guerre. La vigliaccheria è un
concetto relativo”. Sono
pensieri molto evoluti e
anticonformisti, per l’epoca e
il luogo. “Non sono scappati
dalla guerra. La loro se la sono
fatta. Sono scappati dai
tedeschi”, aggiunge l’oste. Ma
l’altro non demorde: “Vogliono
tornare dalle sottane della
mamma questi qua del sud”. “Mica
solo quelli del sud”, è la nuova
controrisposta di uno dei
presenti. Se in
Campo di battaglia
Amelio mette fuori campo la
guerra, concentrandosi sulle
infermerie – dopo aver aperto
con immagini dai luoghi di
combattimento che richiamano la
pittura di Goya – qui rimane del
tutto vista da fuori. In
Vermiglio, però, la guerra
è anche quella causata dal
pregiudizio e dalle credenze
legate all’onore che in Sicilia
falcidiano un soldato che
rientra, al pari della famiglia
che ha creato e lasciato in
Trentino e del futuro di una
giovane donna.
Ma se le donne sono private
della loro essenza, la comunità
esprime anche valori alti, come
in questo canto religioso:
“Nutri la nostra famiglia, i
fratelli in guerra. Aiuta i più
deboli, e aiutaci a condividere
con loro ciò che possediamo”.
Vermiglio, che più lo
si vede e rivede, e più
risplende di bellezza, è un film
francescano. (Recensione di
Francesco Boille -
www.internazionale.it)