La TRAMA :
La stanza accanto di Pedro Almodóvar è
un racconto intenso e profondamente
umano che esplora il tema della morte e
del lascito che ciascuno lascia dietro
di sé, senza indulgere in malinconia, ma
celebrando la bellezza della vita.
Attraverso la storia di Martha (Tilda
Swinton), una reporter di guerra malata
terminale, e Ingrid (Julianne Moore),
una scrittrice che l’accompagna nei suoi
ultimi giorni, il film riflette su temi
universali come l’amore, il coraggio, la
memoria e l’eredità personale.
La narrazione affronta con delicatezza e
sensibilità la complessità delle scelte
di fine vita, incluso il tema
dell’eutanasia, portando il pubblico a
interrogarsi sul significato
dell’esistenza. Con un’estetica
raffinata e le straordinarie
interpretazioni delle protagoniste,
Almodóvar intreccia poesia e
riflessione, trasformando il percorso
verso l’addio in un inno alla ricchezza
imprevedibile della vita stessa. Alla parete c’è appeso un Hopper. Una
copia, ovviamente. È quello con la gente
seduta al sole, sulle sdraio. Aspettano,
forse. Sono veri, sono fantasmi. “All
the living and the dead”. È il
finale del racconto più famoso di Joyce,
già meraviglioso film di John Huston.
Nell’ultimo film di Pedro Almodóvar ci
sono entrambi, il racconto e il film.
Sono, quelle parole, la chiave per
capire il dolor y gloria di
queste due vite, di queste due donne:
Tilda Swinton e Julianne Moore. The Room Next Door, Leone d’oro a
Venezia 81 ora nelle sale col titolo La stanza accanto, è un vitalissimo
film sulla morte. Leggevo, e lo sentivo
dire anche dopo la proiezione stampa al
Lido, che è cupo, qualcuno diceva
addirittura senile. A me pare tutto il
contrario. Da qualche tempo, Almodóvar
ha evidentemente avviato una riflessione
– artistica e personale, si vedano i
bellissimi dispacci dalla pandemia su
El Diario – sulla fine. Sulle
separazioni: dalle persone, dalla vita.
Su quello che lasciamo indietro, e
quello che forse non troviamo davanti. I
corti The Human Voice (sempre a
Venezia, sempre con Tilda Swinton) e Strange Way of Life. E
Madres
paralelas. E, prima di tutti, il
citato, magnifico Dolor y gloria.
The Room Next Door è la
prosecuzione obbligata, precisa,
dolorosa e gloriosa su quella strada. È
tratto da una storia non sua (il romanzo
Attraverso la vita di Sigrid
Nunez). È il suo primo lungometraggio
girato in inglese, dopo un progetto
abortito con Cate Blanchett dall’opera
di Lucia Berlin. È un film doloroso, sì,
ma mai dolente. Ingrid (Julianne Moore), scrittrice che
non riesce a fare i conti con la sua e
nostra mortalità, viene a sapere che
Martha (Tilda Swinton), una vecchia
amica che non vede più da anni, ha un
grave cancro. Va a trovarla in ospedale.
Nasce un nuovo patto, tra due donne che
amiche erano rimaste pure a distanza, e
che si ritrovano ancora più vicine nella
maturità, e nelle scelte che essa
comporta. Avrete letto in giro alcune
parole chiave della trama: non le
ripeterò qui. Perché The Room Next Door non è
un giallo, ma un po’ sì. È un noir
verniciato di melodramma alla maniera
anni ’40 che ad Almodóvar piace da
sempre moltissimo. Qui anche di più,
perché per la prima volta ha girato in
America (ma gli interni sono ovviamente
a Madrid), e sembra voler risagomare
ancor più esattamente quel modo, quel
mondo. C’è tanto cinema classico, da
Buster Keaton a Lettera da una
sconosciuta. Ci sono scale che
portano a stanze segrete come in Vertigine di Preminger. Vestiti
eleganti e lettere misteriose per
davvero. Poliziotti impiccioni e
travestimenti (letteralmente: e il
finale volutamente kitsch ha spiazzato
alcuni). Ma, al cuore, questo film rimane
un’indagine sulla fine, o su un nuovo
inizio. Il centro di The Room Next
Door resta l’amicizia tra due donne
come raramente si è vista sullo schermo
ultimamente. Non la sisterhood
alla moda corrente: del resto, un paio
di battute lasciano intendere che tante
istanze di oggi, spesso solo di
superficie, a Pedro non piacciono, o
quantomeno non interessano; ma la
relazione piena, rotonda, adulta fra due
donne, e tutto quello che resta e che
cambia. Tilda Swinton e Julianne Moore sono due
giganti (ma dai), soprattutto nel
lasciarsi spazio a vicenda,
nell’ascoltarsi, nel non divorarsi
facendo a gara di gigionismi (entrambe
sono, anzi, molto “tenute”). Non è, per
intenderci, un “film di donne” nello
stile dei melodrammi alla Eva contro
Eva rieditati in chiave camp anche
recente (da Diario di uno scandalo
a May December i primi che mi
vengono in mente). E, nel suo umanesimo anche
ambientalista, politico e morale, il
dolorosissimo The Room Next Door
riesce a restare un film pieno di
luce. Quella di Hopper, e dei colori
sempre accesi di Pedro, e della neve
che, quando cade in questo film, è
sempre rosa. E quello di una giacca
gialla e di un rossetto rosso, per
stendersi al sole ad aspettare. (Mattia Carzaniga - RollingStone) |