Un giro di chitarra scordata, una birra calda, una smorfia sul viso. Dietro Le città di pianura, opera seconda di Francesco Sossai, c'è un cinema gigantesco eppure modellato secondo l'intimità di un primo piano che racchiude un mondo intero. In mezzo i dettagli, le parole, i silenzi. È il cinema italiano che vorremmo, quello ideato e poi strutturato secondo il cuore dei personaggi, scritti in modo perfetto.
Le città di pianura è una ballata beffarda, un on-the-road ironico, un buddy-movie in salsa veneta; uno sguardo aperto sulla geografia umana portata fuori i confini, e per questo resa verace, vivida, coinvolgente. C'è la scrittura (a firmare lo script Sossai insieme ad Adriano Candiago), c'è la tecnica, c'è il cuore che comanda e continua ad avere ragione, portando il film ad un'elevazione popolare di straordinario impatto emotivo.
Le città di pianura re-inventa l'immaginario veneto attraverso un on-the-road avvinazzato e sgualcito, che vive e si evolve grazie alla scrittura, ai personaggi, alla messa in scena applicata ad una geografia umana dalle forte emotività. Il film di Francesco Sossai è il cinema italiano al suo meglio, legato ad un immaginario ben definito eppure costantemente nuovo e sorprendente. Da non perdere.
(Damiano Panattoni - da MoviePlayer.it)
La TRAMA : Le Città di Pianura, il film diretto da Francesco Sossai, si svolge in Veneto e segue la storia di Carlobianchi e Doriano (Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla), due amici che hanno passato i cinquanta ma che si sentono ancora ragazzini, ostinatamente aggrappati a un’eterna adolescenza.
La loro vita è fatta di bevute e di notti interminabili in cui fanno immancabilmente le ore piccole, inseguendo sogni sfocati. Senza un soldo e senza una meta precisa, hanno un solo rituale sacro: l’ultimo giro da un bar all’altro, come se nel fondo di un bicchiere potessero ancora trovare un senso. Durante una di queste serate storte, incrociano per caso Giulio (Filippo Scotti), un giovane studente di architettura dall’animo gentile e lo sguardo sognatore.
Quello che doveva essere solo un incontro bizzarro si trasforma in un viaggio surreale attraverso la piatta vastità della pianura veneta, tra rotonde deserte, luci al neon e silenzi interrotti dal rombo del motore. A bordo di un’auto sgangherata e con due compagni improbabili al fianco, Giulio si ritrova a scoprire un altro modo di guardare al mondo, all’amore e al suo futuro. Un road movie malinconico e ironico, che si muove al ritmo lento di una sbornia che passa, lasciando il retrogusto dolceamaro della verità...
La RECENSIONE : Pensavo spesso, guardandolo, che Le città di pianura è l’unica parafrasi italiana possibile di uno dei film sull’uso e abuso di alcool più belli di sempre, Withnail & I, uscito in Italia con l’improbabile titolo di Shakespeare a colazione. Lo intendo come un grande complimento, avendo una venerazione per quel film diretto da Bruce Robinson, e rimanendo commosso ogni volta dalla malinconia struggente che sta sotto alle vicende esilaranti dei suoi protagonisti.
Certo, Le città di pianura è solo in parte assimilabile a Withnail & I, perché Francesco Sossai - che lo ha scritto con Adriano Candiago e l’ha diretto - dentro ci ha messo tanto altro. E però, è proprio in virtù del divertimento, ancora più della malinconia mai nichilista ma sempre vitale (e certo, anche della sbronza perenne che qui dura una notte e un giorno e un’altra notte ancora) che emerge dal film, che ho sentito molto questa vicinanza.
Sossai, nel suo film, in questa storia che vede protagonisti due cinquantenni in bisboccia perenne e in perenne rimpianto del passato, che poi trascinano con loro un ventenne ingenuo e inesperto , ha messo dentro tanto, dicevamo. Ha messo dentro, appunto, una sorta di coming of age tardivo, tanto per dirne una. Girovagando di bar in bar a bordo della loro Jaguar attraverso la provincia veneta, Carlobianchi e Dori (Sergio Romano e Pierpaolo Capovilla del Teatro degli Orrori) individuano per caso Giulio (Filippo Scotti), classico bravo ragazzo con gli occhiali, di quelli che si sta facendo soffiare la ragazza di cui è chiaramente innamorato perché è tardi e deve andare a dormire; e senza dirselo, e forse nemmeno pensarlo, decidono che è ora di iniziare il ragazzo a un modo diverso di vivere la vita. Il loro, appunto. Non sono Lucignoli, o cattivi maestri, ma due adulti mai cresciuti che aiutano un ragazzo che non sa vivere la capire come si fa; ma non per questo il candore di Giulio non avrà un qualche effetto su di loro.
Da Giulio, come viene detto in qualche modo verso la fine del film, quando i tre finiscono a visitare la Tomba Brion progettata da Carlo Scarpa, impareranno forse a avere una diversa visione della pianura, e quindi della loro vita. Di certo Giulio l’ha imparato da loro.
Ma nelle Città di pianura Sossai parla anche della sua terra, del nord-est, del Veneto, delle sue trasformazioni. Della crisi economica e della cementificazione nel nome della sacra infrastruttura, ma tratteggia anche un’antropologia più profonda, che è quella della provincia, la cui geografia - come insegnava Carlo Mazzacurati, che di certo per Sossai è stato un riferimento inevitabile - ha una profonda influenza sulle psicologie umane. E allora il film attraversa strade, autostrade, rotonde. Fa pause in bar scalcinati, bacari veneziani, pub in stile western, aeroporti di provincia. Osserva villette a schiera, palazzine di cemento, case infestate da alluminio anodizzato e ville settecentesche in mano a nobili decaduti che - non a torto - rimpiangono la devastazione di una terra (mica di un territorio). Racconta esseri umani che non sembrano più in grado di avere un’identità, una vista su un futuro, nemmeno prossimo, prossimissimo, e galleggiano in un presente eterno e inevitabilmente alcolico.
Withnail & I e Mazzacurati, dicevamo, ma nella risata e nel vitalismo che cercano di reprimere amarezze e malinconie Sossai prende qualcosa dalla migliore commedia all’italiana così come da personaggi come Jarmusch e Kaurismaki. Le città di pianura è un film imbevuto di ribellismo rock - e in questo senso la scelta azzeccatissima di Capovilla non pare casuale - e di irriverenza quasi punk, senza però spigoli, senza ritmi indiavolati. Perché i ritmi e lo spirito, semmai, sono quelli delle ballate folk, delle struggenti canzoni del primo Tom Waits, o di certo cantautorato di casa nostra.
Grazie a questi umori e a queste sensibilità spesso così diverse, grazie alla gestione di Sossai che non dimentica mai né dove mettere la macchina da presa né come muoverla, che è attentissimo e affettuoso coi suoi attori/personaggi anche nel modo in cui vengono ripresi, alla voglia che questo giovane regista ha di dire senza mai ostentare, Le città di pianura diventa un piccolo grande film.
E quell’ultimo bicchiere che non è mai davvero l’ultimo il segnale non di una resa o di una sconfitta - l’unico vero sconfitto del film, interpretato da Andrea Pennacchi, non beve mai, nel presente - ma al contrario la ricerca di qualcosa di più, il segnale di chi non rinuncia, ma continua, un bicchiere dopo l’altro, con tutta la testardaggine e la sventatezza di cui si è capaci, a voler vivere una vita il cui segreto, per non parlare del senso, sfuggono costantemente. (di Federico Gironi - da ComingSoon) |