In collaborazione con la CINETECA di
BOLOGNA
IL CINEMA RITROVATO
"Classici restaurati in Prima
Visione"
Scopri i nuovi Film 2024-2025
*** I
CLASSICI DEL CINEMA TORNANO IN SALA ***
Prosegue
l'iniziativa della CINETECA di BOLOGNA
con tanti splendidi film
che hanno fatto la storia del Cinema
In Versione ORIGINALE Sottotitolati in ITALIANO
MARTEDI 4 Febbraio - ore 21,00
PICNIC
AT HANGING ROCK
di Peter Weir
(Picnic at Hanging Rock, Australia/1975, 109
minuti)
Il film uscì il 2 febbraio 1975, quindi con
la data di uscita (3 febbraio 2025)
si celebra il 50° anniversario con la
versione Director's cut restaurata in
4K, disponibile solo
in versione originale sottotitolata.
Estetica vittoriana, tensioni quasi horror,
un plot misterioso come pochi altri, un mix
unico di fiaba e modernità, memorie
ancestrali e sfida alle convenzioni
sociali. Picnic ad Hanging Rock è il
film che che ha lanciato Peter Weir e ha
fatto scoprire al mondo il cinema
australiano: un film fatto di atmosfere
sospese e perturbanti, di una natura
abbagliante e misteriosa, di un’inquietudine
indicibile sapientemente costruita
attraverso immagini e colonna sonora.
Soggetto: dal romanzo omonimo (1967)
di Joan Lindsay. Sceneggiatura: Cliff
Green. Fotografia: Russell Boyd. Montaggio:
Max Lemon. Scenografia: David Copping. Interpreti:
Rachel Roberts (Mrs. Appleyard), Vivean Gray
(Miss McCraw), Helen Morse (Mlle. de
Poitiers), Kirsty Child (Miss Lumley), Tony
Llewellyn-Jones (Tom), Jacki Weaver
(Minnie), Frank Gunnell (Mr. Whitehead)
Anne-Louise Lambert (Miranda), Karen Robson
(Irma). Produzione: Hal McElroy, Jim
McElroy per McElroy & McElroy, British
Empire Films Australia, The South Australian
Film Corporation, The Australian Film
Commission, Picnic Productions Pty. Ltd.
Restaurato in 4K nel 2022 da Acid Pictures
in collaborazione con Second Sight Films
presso il laboratorio The Grainery, a
partire dal negativo camera originale
conservato presso Australian National Film
and Sound Archive.
“Abbiamo lavorato molto duramente per creare
un ritmo allucinato e ipnotico, così da far
perdere la consapevolezza degli eventi. Ci
si ferma per fare il punto e si piomba in
quell’atmosfera così chiusa. Ho fatto tutto
quello che potevo per ipnotizzare lo
spettatore e tenerlo lontano da ogni
possibile spiegazione.”
(Peter Weir, in Jan Dawson, Picnic Under Capricorn,
“Sight and Sound”, 1976)
Picnic at Hanging Rock occupa un
posto speciale in un’ideale storia della
globalizzazione della cultura
cinematografica. Come Roma, città aperta (1945), Rashomon (1950)
o Il lamento sul sentiero (1955) fa
parte della ristretta cerchia di film che
hanno segnato un riconoscimento
internazionale senza precedenti per le
cinematografie dei propri paesi d’origine,
contribuendo più in generale a diffonderne
all’estero il patrimonio artistico e
culturale.
Da questo punto di vista l’eredità di Hanging
Rock è stata almeno triplice: fu il caso
critico e commerciale che lanciò il cinema
australiano nel mondo, tracciando la via per
la new wave degli anni Settanta e
Ottanta; segnò l’esordio di quello che a
tutt’oggi ne resta l’autore più
significativo, Peter Weir; e allargò ai
paesi non anglofoni la fama dell’opera
omonima (1967) da cui era tratto, lo “strano
romanzo” in cui Joan Lindsay prendeva
d’assalto la rigidità dei costumi vittoriani
applicando al mystery la
sperimentazione modernista e l’archetipo
fiabesco.
Proprio all’ammirevole sforzo di Weir nel
restituire in immagini un testo che poteva
apparire infilmabile si deve un equivoco
fondamentale per le successive fortune del
suo esordio: che Picnic at Hanging Rock sia
un horror. Alle atmosfere sospese e
allucinate (in inglese diremmo eerie)
della prosa di Lindsay, il giovane regista
arriva coi mezzi puramente filmici che gli
mette a disposizione la cultura
cinematografica del suo tempo: da un lato
l’esistenzialismo “opaco” e l’abbandono
della narrazione lineare tipici di un certo
modernismo europeo alla Antonioni;
dall’altro l’aggressione sensoriale –
colonna sonora prog/sinfonica, montaggio
forsennato, continue dissolvenze –
dell’horror in voga a metà anni Settanta,
Dario Argento su tutti. Il risultato è arty e
inquietante a sufficienza da aprire al film
sia le porte dei circuiti d’essai che
quelle del culto di genere, suscitando un
boom di turismo intorno alla Hanging Rock e
alimentando leggende popolari sulla
veridicità dei fatti narrati.
Da un punto di vista autoriale Hanging
Rock resta l’espressione più compiuta
del primo periodo di Weir, quello in cui la
sua concezione del coming of age come
metafora di trasformazioni storiche,
spirituali e politiche prende la forma di un
conflitto fra le due anime del continente
australiano: la “moderna” cultura
europea/occidentale – il collegio
vittoriano, i grattacieli di Sydney in L’ultima
onda (1977); e l’eredità arcaica dell’outback,
con le sue seduzioni pulsionali, la natura
indomabile, lo sciamanismo dionisiaco che
emana da lontani tamburi aborigeni.
Nel successivo, straziante Gli anni
spezzati (1981) Weir sancirà l’ingresso
del paese (e del proprio cinema new waver)
nel flusso della Storia occidentale
ritualizzando il bagno di sangue della Prima
guerra mondiale alla stregua di un’ideale
immolazione della sua anima rurale e
innocente. In Hanging Rock,
ambientato quasi vent’anni prima di quello
spartiacque storico, a vincere è invece
ancora quest’ultima, la vecchia-giovane
Australia che come il Dèmone meridiano
inghiotte Miranda e le sue amiche
strappandole a un’idea di civiltà repressiva
e spersonalizzante.
È in questa chiave politica che Weir si
permette gli azzardi maggiori rispetto al
romanzo, esplicitandone ancor più i
sotto-testi omosessuali e la sfida alle
convenzioni sociali che intrappolano le
protagoniste. Se l’elaborazione
postcoloniale del dramma storico degli
Aborigeni resta ancora fuori dal quadro
(bisognerà aspettare L’ultima onda),
ciò che emerge prepotentemente sono proprio
le venature femministe del racconto.
A questo proposito può essere interessante
collocare Hanging Rock in una
costellazione di film contemporanei - da La
notte brava del soldato Jonathan (1971)
a Suspiria (1977) - che pur da
prospettive politiche molto diverse
sfruttavano l’ambientazione tradizionalista
del collegio femminile per far detonare la
forza eversiva della donna “strega”
emancipata dalle lotte degli anni Settanta.
Un tema complicato – Antonioni docet –
dalla riflessione sull’inerzia e il vuoto
esistenziale che si accompagnano al
privilegio altoborghese, di cui anni dopo
farà tesoro la Coppola di Il giardino
delle vergini suicide (1999). Quanto
grande Cinema doveva nascere da quegli
orologi fermi…
(Lorenzo Meloni, Cinefilia Ritrovata)
|
… Classici del cinema
che ritrovano il grande schermo, che
ritrovano l’incontro vivo con il pubblico di
una sala cinematografica. Capolavori di ogni
tempo (e senza tempo) che tornano ad essere
prime visioni. E di prime visioni di
tratterà a pieno titolo, per le generazioni
di oggi: perché è solo la visione collettiva
davanti a un grande schermo che può
recuperare, di questi film, l’autentica
bellezza visiva, l’emozione dirompente, e
tutto il divertimento, il piacere, il
brivido.
La Cineteca di Bologna promuove insieme al
Circuito Cinema la distribuzione di una
serie di dieci grandi film nelle sale del
Circuito Cinema, diffuse sull’intero
territorio nazionale. si tratta, in tutti i
casi, di film restaurati con tecnologia
digitale negli ultimi anni, riportati quindi
a uno splendore e a una nitidezza visiva mai
raggiunti prima: in tutti i sensi, prime
visioni. I film saranno presentati in
versione originale con sottotitoli italiani.
Basta aver assistito una sola volta alla
proiezione di un grande film restaurato in
un festival o rassegna internazionale per
rendersi conto di quanto l’esperienza
risulti coinvolgente per un ampio pubblico.
Le visioni televisive (peraltro sempre più
rare!) o su dvd (peraltro di qualità spesso
modesta) vengono spazzate via dalla presenza
viva delle immagini su un vero schermo. |
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