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Dopo Ida (premio Oscar 2015), Pawlikowski torna a girare in un magnifico bianco e nero, raccontando la storia struggente di un amore impossibile. Un musicista in cerca di libertà e una giovane cantante, fatalmente destinati ad appartenersi, vivono un amore tormentato in un’epoca difficile. Sulle note di una splendida colonna sonora, la guerra fredda della Polonia staliniana lascia il passo a quella sentimentale che vivono i due protagonisti, interpretati da Joanna Kulig e Tomasz Kot (due attori in stato di grazia).  Europa dell’Est, Yugoslavia, Parigi: queste le tappe di un viaggio intenso ed elegantissimo, un immaginario perduto che prende vita sul grande schermo e ci offre un nuovo classico senza tempo.

Osannato dalla Critica di tutto il mondo!

 *  Premio per la Miglior Regia al Festival di Cannes
 *  Candidato della Polonia per la corsa agli Oscar
 *  Ha triofato ai Premi EFA, gli Oscar del Cinema Europeo :    
    Miglior Film - Miglior Regia - Miglior Sceneggiatura  
    Miglior Interprete Femminile - Miglior Montaggio

Polonia/Francia/Gran Bretagna - Drammatico - 90’

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TramaNella Polonia alle soglie degli anni Cinquanta, la giovanissima Zula viene scelta per far parte di una compagnia di danze e canti popolari. Tra lei e Wiktor, il direttore del coro, nasce un grande amore, ma nel '52, nel corso di un'esibizione nella Berlino orientale, lui sconfina e lei non ha il coraggio di seguirlo. S'incontreranno di nuovo, nella Parigi della scena artistica, diversamente accompagnati , ancora innamorati. Ma stare insieme è impossibile, perché la loro felicità è perennemente ostacolata da una barriera di qualche tipo, politica o psicologica ...

RECENSIONI

Dopo l’Oscar per Ida, Pawel Pawlikowski firma un altro grande film in bianco e nero, ancora una volta adottando l’aspect ratio 1:1.37.
E torna alla Polonia dell’immediato dopoguerra, nel 1949, quando dal nulla di villaggi rurali seminascosti dal bianco inghiottente della neve e del cielo, iniziò il reclutamento di quello che da lì a poco divenne il “Mazowsze”, corpo di balli e canti popolari nato per volontà del governo filosovietico, che venne poi esportato in tutto il blocco orientale nell’arco degli anni ’50.
È in questo contesto che prende forma l’incredibile storia d’amore tra Wiktor (Tomasz Kot), musicista e direttore della compagnia, e l’allieva Zula (Joanna Kulig), ragazza su cui grava il sospetto di aver ucciso il proprio padre.
Arrivati a Berlino Est per un’esibizione, Wiktor organizza la fuga dall’altra parte del blocco per vivere finalmente in libertà quella storia d’amore. Ma Zula, contro ogni previsione, non si presenta all’appuntamento concordato.

È l’inizio di uno straordinario melodramma al di qua e al di là della cortina di ferro. Che il regista polacco costruisce per frammenti, balzando in avanti negli anni (fino ad arrivare a metà anni ’60), tra una dissolvenza in nero e un’altra, facendo perdere e incontrare i due protagonisti più volte. 
Dal suggestivo e trascinante folk tradizionale si arriva alle contaminazioni jazz parigine di fine anni ’50, e lo sviluppo dei due personaggi (interpretati con una classe rara, e Joanna Kulig – già vista in Ida – farà parlare di sé) è inscritto nei cambiamenti emotivi che un mutamento così repentino e cruciale di quell’epoca portava con sé.
Forma e racconto si amalgamano per un’operazione che vagamente potrebbe ricordare il Frantz di Ozon, anche se qui l’asticella si alza in favore di una portata romantica maggiore: basti pensare alla dedica finale di Pawlikowski, “ai miei genitori”, che con i due protagonisti condividono il nome di battesimo (Wiktor e Zula) e gran parte di una storia d’amore travagliata: “Erano entrambi due persone forti e meravigliose, ma come coppia un infinito disastro”, ha detto lo stesso regista.
Che in Cold War li riporta in vita (sono entrambi morti nel 1989, poco prima che venisse abbattuto il Muro di Berlino) per farli tornare a suonare, cantare e danzare quell’amore così travolgente e impossibile, tra la natia Polonia, la Berlino divisa, la Jugoslavia e la Parigi bohémien dove ogni cosa sembrava possibile, ma la purezza del primo incontro sembrava perduta.
E allora meglio rimettere in discussione ogni cosa, ogni occasione di soddisfazione artistica e personale, e riassaporare la nostalgia di quella chiesetta diroccata nel fango. Per poi osservare l’orizzonte da una panchina. E spostarsi di nuovo: “Andiamo dall’altra parte, la vista è migliore da lì”.  
(Cinematografo)

Quello che aveva colpito in quel gioiello di
Ida, poi vincitore dell’oscar, era il ritmo imposto dal suo autore, Pawel Pawlikowski; regia e montaggio tessevano una trama coinvolgente eppure anti spettacolare, con dialoghi ridotti al minimo e uno sviluppo narrativo più suggerito da altri fattori che sbandierato. Nessuna scena madre, quindi. Non può che far piacere riscontrare una pari maestria, addirittura superata da una storia e dei personaggi memorabili, nel suo nuovo film, Cold War. Siamo sempre in Polonia, in anni non troppo lontani: dal 1949 fino alla metà degli anni Sessanta.
Quello che non cambia sono i suoi protagonisti rinchiusi letteralmente nel suo formato 4:3. Se in Ida la giovane novizia aveva la forza per vedere il mondo appena al di là delle mura del suo convento di clausura, per poi tornare indietro, seppure maturata, in
Cold War i protagonisti sono due: un pianista e una cantante, sullo sfondo di una Polonia faticosamente in ricostruzione sulle rovine della Seconda guerra mondiale. Un’altra storia d’amore assoluto, non verso un Dio, ma fra due persone destinate come nei migliori feuilleton ottocenteschi a non stare mai insieme, almeno in questa terra, nonostante il loro sia un amore definitivo e come tale identificato ben presto da entrambi. Come non cedere a un destino che, pur male assortiti e provenienti da esperienze diverse, gli impone sempre di inciampare uno nell’altra?

Cold War
prosegue a ondate, con alcune scene che ci aggiornano sullo stato (anche geograficamente) in cui i due si trovano, dall’innamoramento nel 1949 fino a una conclusione in cui finalmente prendono in mano il loro destino - naturalmente non vi diremo come - nel 1964. Sullo sfondo, mai il tema principale ma sempre incombente, la Guerra fredda, il destino di chi diventò adulto alla fine della guerra, le cui speranze di potersi costruire un futuro finalmente sereno e libero si infransero contro l’irrompere della dittatura comunista, e della Polonia in particolare, con la sua storia maledetta e costantemente incompiuta, così come l’amore fra Zula e Wiktor. Gli anni passano e i luoghi in giro per l’Europa in cui si ritrovano aumentano: dopo Varsavia, Parigi, la Iugoslavia, Berlino.
I due si chiamano come i genitori di
Pawlikowsi, a cui il film è dedicato, morti per un beffardo e definitivo scherzo del destino nel 1989, proprio appena che crollasse quel dannato muro di Berlino che aveva sconvolto le loro vite. Zula ha una personalità in fiamme, un orgoglio che la fa sempre uscire dai binari e una voce che fa sciogliere in lacrime, mentre Wiktor è alto e dinoccolato, instabile ma sempre in piedi, alimentato a nicotina e serate nei jazz club.
La musica ha un ruolo centrale, come in Ida e ancora di più. Dal primo fotogramma, in cui Wiktor gira per il Paese alla ricerca di cantanti e musicisti tradizionali da preservare, fino alle note che fanno vibrare la coppia protagonista. La musica è il motore che alimenta l’amore e rende indivisibili due persone che non lo sarebbero, permettendogli di comunicare.
Inconsciamente il moto perpetuo dei due in giro per l’Europa, che comporta la fuga al di là della cortina di ferro e per Wiktor la perdita di ogni nazionalità, è il tentativo di trovare un luogo in cui il loro amore possa sbocciare veramente, aiutati dall’universalità della loro amata musica. Tanto che
sembrano conciliati solo quando è un’altra colonna sonora a predominare, quella dei suoni della natura, che sia in una toccante nottata in barca lungo la Senna o in autobus inseguendo una ritualità sempre negata, per cementare il loro amore.
Anni apparentemente immobili, ma in cui tutto cambia, sempre più velocemente di quanto possano affannarsi a stargli dietro Wiktor e Zula, in
un film che non spreca una parola o un’inquadratura, dal ritmo irrequieto eppure altèro, che conferma la maestria di Paklowski, ormai uno dei registi di riferimento del cinema europeo.  
(ComingSoon)