SINOSSI
: Montréal. Il giorno di Natale Maia
e la figlia Alex ricevono un misterioso
pacco proveniente da Beirut. Contiene
quaderni, cassette e fotografie,
un'intera corrispondenza che Maia, dai
13 ai 18 anni, ha spedito da Beirut alla
sua migliore amica rifugiatasi a Parigi
per fuggire dalla guerra civile. Maia
rifiuta di affrontare quel passato, ma
Alex vi si immerge di nascosto. Scopre
così, tra fantasmi e realtà,
l'adolescenza tumultuosa e appassionata
della madre durante gli anni Ottanta e
dei segreti ben custoditi.
“Incredibile. Hanno ricostruito tutto”.
È un viaggio per riportare a galla il
rimosso di ricordi dolorosi,
Memory Box, film diretto
da Joana Hadjithomas e Khalil Joreige,
in concorso alla 71ma Berlinale.
Maia (Rim Turki) è una madre single,
vive a Montreal con la figlia
adolescente, Alex (Paloma Vauthier).
Durante le festività natalizie le viene
recapitato uno scatolone che raccoglie
frammenti del suo passato, della sua
giovinezza nella Beirut degli anni ’80:
contrariamente alla volontà della madre,
Alex inizia segretamente a rovistare in
quegli oggetti. Tra fantasia e realtà,
l’adolescenza tumultuosa e appassionata
di Maia riprende vita, sullo sfondo
della lacerante guerra civile libanese.
Fotografie, collage, audiocassette, la
new wave (One Way or Another
dei Blondie, tanto per citarne una)
diventano l’ancoraggio non solo emotivo
ma anche linguistico-visivo con cui far
dialogare due generazioni, due realtà,
due epoche – analogica vs. digitale –
tentando così di colmare un gap,
favorire un riallineamento che il
silenzio, il represso, rendevano fino a
quel momento impossibile.
“Ai nostri figli”, la dedica non casuale
che i registi-coniugi Hadjithomas e
Joreige lasciano a futura memoria a fine
film. Che nasce – realmente – dai
taccuini e dalle cassette che Joana
spediva ad una carissima amica
trasferitasi in Francia da Libano in
quel periodo: dal 1982 al 1988 “ci
scrivevamo ogni giorno, spedendoci foto
e nastri registrati”, racconta.
Memory Box non è il semplice
resoconto di “fatti realmente accaduti”,
la finzione prende le mosse dal gesto ma
il film ha il grande merito di
restituirne l’ampiezza di una
situazione, di un periodo così
fortemente drammatico, in maniera certo
dissimile ma altrettanto efficace di
Valzer con
Bashir (2008), film con
cui Ari Folman – attraverso l’animazione
– riportava in superficie lo straziante
massacro di Sabra e Shatila.
Lì era il subconscio, gli incubi, qui a
smuovere le acque di un passato non
vissuto in prima persona è l’adolescente
tenuta al riparo dai ricordi materni
dolorosi: fotoromanzi artigianali,
collage di una giovinezza dove
l’amicizia e gli amori dovevano fare i
conti con le bombe e gli omicidi,
immagini di repertorio e voci registrate
si distendono sullo schermo,
ricompongono i frammenti di un “film”
vissuto ma mai restituito, che la fuga
di allora mise idealmente in un
ripostiglio che lo scorrere del tempo ha
finito per ostruirne e negarne qualsiasi
accesso.
Alex – costretta a casa da una tempesta
di neve, non per questo “isolata” dagli
amici grazie agli smartphone – impara
così a conoscere davvero sua madre, a
comprendere quanto fosse completamente
diverso “tenersi in contatto” nell’epoca
predigitale, come fosse più facile,
altresì, perdersi per sempre in seguito
ad un allontanamento “fisico”.
Maia, a sua volta – dopo l’ostinato
rifiuto iniziale – può finalmente
tentare di “ricostruire tutto”. Anche un
presente che le consenta di ritornare lì
dove non era rimasto più nulla. Perché
anche quelle macerie polverose, nel
corso degli anni, si sono trasformate in
altro. E riabbracciare luoghi e
sensazioni che dovevano essere tirate
fuori da un ingombrante scatolone.
Lasciando alla figlia, alla tecnologia,
la possibilità di imprigionare nuovi
ricordi. In time lapse.
(Valerio Sammarco - Cinematografo) |