La SINOSSI :  New York, anni 70. Determinato a uscire dall'ombra del potente padre e a farsi un nome nel settore immobiliare di Manhattan, l’aspirante magnate Donald J. Trump agli inizi della sua carriera incontra l'uomo che diventerà una delle figure più importanti della sua vita: il faccendiere Roy Cohn. Vedendo del potenziale in Trump, il controverso avvocato — che aveva ottenuto le condanne per spionaggio contro Julius ed Ethel Rosenberg e aveva investigato sui sospetti comunisti insieme al senatore McCarthy — insegna al suo nuovo allievo come accumulare ricchezza e potere con l'inganno, l'intimidazione e la manipolazione mediatica. Il resto è storia.

La RECENSIONE di MoviePlayer.it : The Apprentice di Ali Abbasi è una origin story: c'è l'incontro, l'addestramento, l'affermazione, il tradimento. Un film, ed un punto di svolta, o per meglio dire, il turning point degli Stati Uniti d'America (e dunque, del mondo intero). Fuori, dai vetri affacciati sull'Occidente, l'ineluttabilità di una New York che diventa il palcoscenico perfetto e brutale, testimone e artefice di un mutamento ideale e politico. Perché il film, presentato a Cannes 77, non è solo un film su Donald Trump e sul rapporto che aveva con Roy Cohn. Bensì è un'istantanea, strappata in due, di come il sogno americano sia l'emblema del Capitalismo, dell'ossessione, dell'avidità.
È una salita e una discesa, che inizia con Richard Nixon e finisce con uno zircone da quattro soldi, spacciato per un gioiello di Tiffany. La stessa faccia, la stessa menzogna, la verità da negare. Costi quel che costi, anche davanti ad un giudice (e ogni riferimento a fatti contemporanei è assolutamente voluto). Abbasi, iraniano ma naturalizzato danese, ha la sensibilità giusta e il distacco doveroso per raccontare una storia vera che, però, sembra uscita da un romanzo di Tom Wolfe (un regista americano non sarebbe stato tanto concreto). Con una tensione costante, The Apprentice è minuzioso, puntellato, magistralmente scritto (da Gabriel Sherman), e quindi tradotto dalla regia di un autore capace di farci respirare quasi dieci anni di storia americana con una semplicità e un'accessibilità narrativa tutt'altro che scontata.

Essenzialmente, The Apprentice è diviso in tre blocchi, che il regista sovrappone: c'è Donald Trump, interpretato da
Sebastian Stan (che fenomeno); c'è l'avvocato Roy Cohn, con il volto smunto di Jeremy Strong (altro fenomeno); c'è Manhattan, ancora maleducata, violenta, rabbiosa (e che Abassi ricrea con maestria a Toronto), ma anche sexy e spregiudicata. Trump, palazzinaro per conto di suo padre Fred (Martin Donovan), vuole svoltare. Gli appartamenti sudici di Coney Island non gli bastano più. Vuole imporsi. Vuole vincere. Lui, che ripete di avere il killer instinct, arricciando le labbra e preferendo l'acqua fredda ad un buon whiskey americano. Per svoltare, però, serve il trampolino, l'occasione.
Se gli States sono l'emblema delle occasioni, sarà proprio Cohn, fixer e avvocato, che lo inizierà alle regole sociali e finanziarie di
New York City (dopo aver collaborato con McCarthy nella lotta contro il comunismo, ma questa è un'altra storia). Gli spiegherà quanto la pietà sia per i perdenti, e quanto i rapporti umani siano solo il mezzo per raggiungere lo scopo. Uno scopo che, nella mente di Trump, prevede un impero da faraone: una moglie bellissima (Ivana Trump è interpretata da Maria Bakalova), da conquistare e poi umiliare, in risposta ad un'impotenza tanto emotiva quanto finisca, e poi un albergo extra lusso e una torre altissima, che svetta nel cuore della Midtown. Un castello di marmo e di vetro, fortezza e avamposto, da cui osservare e poi guidare l'impero degli Stati Uniti d'America.
Dunque, in The Apprentice, Donald Trump diventa Donald Trump. Un cambiamento che il regista porta avanti dagli Anni Settanta alla metà degli Anni Ottanta. Un cambiamento suggerito dai dettagli e dai colori, e poi avallato dalla colonna sonora (ottimo lavoro quello di David Holmes, Brian Irine e Martin Dirkov) che si mischia con numerosi brani d'epoca inseriti alla perfezione (da Yes Sir, I Can Boogie delle Baccara a Street Man di Brooklyn Dreams), fino alla sensibilità della fotografia di Kasper Tuxen, prima grezza e poi trapelata da un filtro che sembra quello delle betacam (colpo di classe). Quel mondo, epifania di un mutamento ancora in atto, è il principio che avrebbe poi portato all'attuale
crollo dell'America e dei suoi ideali (perché le vere rivoluzioni non avvengono in una notte, ma partono da lontano). Di conseguenza Ali Abbasi ci fa sentire e provare tutto: la puzza delle moquette infeltrite; il tanfo di piscio, ad ogni angolo di Manhattan; l'insistente olezzo di colonia, che avvolge i businessman della Madison Avenue, abbottonati nelle loro giacche troppo grandi.

Un'opera sensoriale, d'impatto, d'importanza narrativa, che non vuole spiegare ma suggerire, e che rifiuta il concetto di biopic, affiancandosi invece a quello ben più interessante dello
storytelling, calcando sulla retorica del vincente e del perdente. Questa è la forza del film, in un momento in cui si parla di immersività scenica, di cinema come esperienza da vivere. Ecco, The Apprentice, granuloso, elettrizzante e teso, non ha effetti visivi, tuttavia riesce a trasportarci all'interno della scena, artigliando la nostra attenzione, appesa alle prove di Sebastian Stan e Jeremy Strong, che non interpretano ma traducono al meglio le complementari figure di Trump e Cohn.
L'allievo che supera il maestro, sfoderando una freddezza da killer (appunto) e una spietatezza ideale per essere trasportata al cinema. E se l'"America è il cliente più importante", secondo il diktat trumpiano, sarà nel diavolo dei dettagli che The Apprentice diventa
grande cinema. Come in quella frase che rimbomba: "Governare è per i perdenti". Lo dice Donald J. Trump, palazzinaro, imprenditore e 45° POTUS, sulla vetta di un mondo di cui oggi non restano che le macerie. Le sue, degli USA e purtroppo anche le nostre.  (Damiano Panattoni)