In collaborazione con la CINETECA di BOLOGNA
IL CINEMA RITROVATO 2022
"Classici restaurati in Prima Visione"
Il
sito ufficiale
***
I CLASSICI DEL CINEMA
TORNANO IN SALA ***
Prosegue l'iniziativa
della CINETECA di BOLOGNA
con tanti
splendidi film
che hanno fatto la storia del Cinema

Il programma 2022/2023
E poi ...
IL GRANDE BUSTER
di PETER BOGDANOVICH
A VENERDI',
ROBINSON di MITRA FARAHANI


(Canada/1983)
di David
Cronenberg
Sceneggiatura:
David
Cronenberg.
Fotografia:
Mark Irwin.
Montaggio:
Ronald
Sanders.
Scenografia:
Carol Spier.
Musica:
Howard Shore.
Interpreti:
James Woods
(Max Renn),
Sonja Smits
(Bianca O’Blivion),
Debbie Harry
(Nicki
Brand),
Peter
Dvorsky (Harlan),
Leslie
Carlson (Barry
Convex),
Jack Creley
(Brian O’Blivion),
Lynne Gorman
(Masha),
Julie Khaner
(Bridey),
Reiner
Schwarz (Moses).
Produzione:
Claude
Héroux per
Filmplan
International,
Guardian
Trust
Company con
la
partecipazione
di Canadian
Film
Development
Corporation
(CFDC),
Famous
Players
Limited. DCP.
Durata:
87’.
Restaurato
in 4K nel
2022 da
Arrow Films
con la
supervisione
di James
White e
James
Pearcey
presso il
laboratorio
Silver Salt,
a partire
dal negativo
camera
originale
35mm ed
elementi
intermedi
conservati
da NBC
Universal.
Restauro
approvato da
David
Cronenberg.
L’idea
nasceva
dalle
numerose ore
notturne che
avevo
trascorso
davanti alla
televisione
da bambino,
quando mi
capitava di
vedere
improvvisamente
dei segnali
causati da
interferenze.
[…] Era
stata quell’esperienza
che mi aveva
portato a
immaginare
un uomo che
capta per
caso un
segnale
bizzarro,
estremo,
violento e
molto
pericoloso.
A causa del
suo
contenuto ne
diventa
ossessionato,
cerca di
rintracciarlo
e si trova
invischiato
in un
intricato
mistero. […]
Quando
cominciai a
scrivere, la
storia prese
improvvisamente
ad
alterarsi.
Max aveva
delle
allucinazioni
e gli
succedevano
delle cose
fisiche
impossibili,
andavano
anche oltre
quelle
contenute
nel film. A
un certo
punto si
rendeva
conto che la
sua vita non
era come
aveva
pensato che
fosse: lui
stesso non
era come
aveva
creduto di
essere. Alla
fine decisi
di
interrompere,
perché la
storia era
così
esagerata da
essere
troppo per
un solo
film. Ciò
che avevo
scritto mi
aveva
davvero
sbalordito.
Se intendi
fare
dell’arte,
devi
esplorare
alcuni
aspetti
della tua
vita senza
riferimenti
a istanze o
a posizioni
politiche.
Con
Videodrome
ho voluto
suggerire la
possibilità
che un uomo
sottoposto a
immagini
violente
cominci ad
avere delle
allucinazioni.
Ho voluto
sperimentare
cosa
succederebbe
se accadesse
davvero
quello che i
censori
sostengono.
Come
sarebbe?
Dove
porterebbe?
(David
Croneneberg)
Videodrome
è a tutti
gli effetti
il
‘manifesto’
del cinema
di
Cronenberg:
un film
paradigmatico,
pluristratificato
e
scioccante.
Sconvolgente
come
un’allucinazione,
lucido e
denso come
un saggio
teorico sul
mondo
mass-mediale
in cui ci è
dato di
vivere.
Raramente il
cinema ha
portato così
in
profondità
la
riflessione
su se
stesso, sul
proprio
senso, sul
suo rapporto
con gli
altri media
e con il
corpo degli
spettatori.
[…]
Cronenberg
riflette
sull’intossicazione
iconica
derivata dal
consumo di
immagini
televisive e
sulle
modificazioni
fisiche e
antropologiche
che la
diffusione
della Tv sta
apportando
all’apparato
percettivo
umano.
Videodrome
ha cioè la
forma
inquietante
di
un’interrogazione
problematica
sulla natura
riproduttiva
delle
immagini e
sul rapporto
di
ambivalente
fascinazione
e repulsione
che l’occhio
umano prova
di fronte ai
propri sogni
e ai propri
incubi
reificati e
incessantemente
riprodotti
sullo
schermo
della Tv”.
|
|

(Psycho,
USA/1960)
di
Alfred
Hitchcock
Soggetto: dal
romanzo omonimo
(1959) di
Robert
Bloch. Sceneggiatura:
Joseph
Stefano. Fotografia:
John L.
Russell.
Montaggio:
George
Tomasini.
Musiche:
Bernard
Herrmann.
Scenografia:
Robert
Clatworthy,
Joseph
Hurley.
Costumi:
Rita
Riggs.
Interpreti:
Anthony
Perkins
(Norman
Bates),
Janet
Leigh
(Marion
Crane),
Vera
Miles
(Lila
Crane),
John
Gavin (Sam
Loomis),
Martin
Balsam
(detective
Arbogast),
John
McIntire
(sceriffo
Chambers),
Simon
Oakland
(dottor
Richmond),
Vaughn
Taylor (George
Lowery).
Produzione:
Alfred
Hitchcock
per
Shamley
Productions.
Durata:
109’
Il
capolavoro
del
macabro
di
Alfred
Hitchcock
vede
Anthony
Perkins
nei
panni
del
tormentato
Norman
Bates,
tassidermista
e voyer,
la cui
vecchia
casa
buia e
il motel
adiacente
non sono
esattamente
il posto
dove
trascorrere
una
serata
tranquilla.
Nessuno
lo sa
meglio
di
Marion
Crane (Janet
Leigh),
la
sfortunata
cliente
il cui
viaggio
termina
nella
famigerata
scena
della
doccia,
45
secondi
fra i
più
celebri
della
storia
del
cinema.
A
cercarla
saranno
un
investigatore
privato
e la
sorella
di
Marion
(Vera
Miles).
Hitchcock
gioca da
maestro
con le
attese e
le
emozioni
del
pubblico:
l'orrore
e la
suspense
salgono
fino a
quando
il volto
del
misterioso
assassino
verrà
finalmente
rivelato.
L'idea,
in
Psycho,
è che
basta
una
lieve
deviazione
nelle
relazioni
umane
(deviazione
di
percorso,
di
comportamento,
di
desiderio)
perché
esse
conducano
alla
distruzione.
Psycho
svela il
caos
appena
sotto la
superficie
levigata
della
civiltà,
la
barbarie
come
sempre
tra di
noi,
dentro
di noi.
(Peter
von Bagh)
Ho
sempre
pensato
che
sullo
schermo
bisogna
mostrare
il
minimo
per
ottenere
il
massimo
sul
pubblico.
A volte
è
necessario
mostrare
un po’
di
violenza,
ma
soltanto
se vi è
una
forte
motivazione.
Per
esempio,
in
Psycho
è
presente
questo
assassinio
impressionistico
in una
doccia
[...].
Ora, una
volta
mostrata
quella
scena,
ho
instillato
nelle
menti
degli
spettatori
un’apprensione
riguardo
l’esistenza
di un
assassino
in modo
che, col
procedere
del
film, ho
potuto
ridurre
e
praticamente
eliminare
l’ulteriore
violenza
perché
desideravo
che la
minaccia
fosse
soltanto
percepita.
[...]
Psycho
è stato
concepito
soprattutto
per
depistare
lo
spettatore.
Lo
spettatore
doveva
pensare
che il
film
parlasse
di una
ragazza
che
rubava
40.000
dollari.
[...] La
mia più
grande
soddisfazione
è che il
film ha
avuto un
effetto
sul
pubblico,
ed era
la cosa
alla
quale
tenevo
di più.
In
Psycho
del
soggetto
mi
importa
poco,
dei
personaggi
anche;
quello
che mi
importa
è che il
montaggio
dei
pezzi
del
film, la
fotografia,
la
colonna
sonora e
tutto
ciò che
è
puramente
tecnico
possono
far
urlare
il
pubblico.
(Alfred
Hitchcock) |
|

(Casque
d’or,
Francia/1952)
di
Jacques
Becker
Sceneggiatura:
Jacques
Becker,
Jacques
Companéez.
Fotografia:
Robert
Le
Febvre.
Montaggio:
Marguerite
Renoir.
Scenografia:
Jean d’Eaubonne.
Musica:
Georges
Van
Parys.
Interpreti:
Simone
Signoret
(Maria,
‘Casco
d’oro’),
Serge
Reggiani
(Georges
Manda),
Claude
Dauphin
(Félix
Leca),
Raymond
Bussières
(Raymond),
Gaston
Modot (Danard),
Loleh
Bellon (Léonie
Danard),
Roland
Lesaffre
(Anatole),
William
Sabatier
(Roland
Dupuis).
Produzione:
Speva-Films,
Paris-Films
Productions.
Durata:
96’
Il più
celebrato
e amato
capolavoro
di
Jacques
Becker,
storia
d’un
amour
fou,
del suo
esito
fatale,
del suo
contesto
a un
tempo
sordido
e
splendido,
la
Parigi
malavitosa
di fine
Ottocento
ispirata
alle
stilizzazioni
dell’illustrazione
popolare,
accesa
da uno
sfolgorante
bianco e
nero e
dal
fuoco
dei
sentimenti,
che
siano
l’amore,
l’amicizia
o
l’anarchia.
Casco
d’oro è
Simone
Signoret,
prostituta
dall’alta
e
abbagliante
coiffure
che
manda in
rovina
l’onesto
carpentiere
Serge
Reggiani,
entrambi
nell’interpretazione
d’una
vita.
Becker è
affascinato
dagli
oggetti,
dalle
scenografie,
e dal
modo in
cui
rivelano
i
pensieri,
le
convinzioni
e le
emozioni
degli
uomini e
delle
donne
che li
utilizzano.
È
evidente
che un
simile
talento
potrà
esercitarsi
più
facilmente
su un
soggetto
contemporaneo
che su
uno
storico,
ed è
questo
che
conferisce
a
Casco
d’oro
un
rilievo
particolare
fra i
successivi
film del
suo
autore.
Si
noterà
tuttavia
che
Becker,
nonostante
il
fascino
delle
scenografie,
ha fatto
di tutto
perché
Casco
d’oro
fosse
realistico,
come
mostrano
in
particolare
le
sequenze
finali
altrettanto
implacabili,
e non
meno
straordinarie,
di
quelle
del
miglior
Rossellini
(alcune
scene di
Roma
città
aperta
e
l’ultimo
episodio
di
Paisà),
ma
dotate
in più
della
forza
che
conferisce
loro un
assoluto
controllo
estetico
del
soggetto.
(Lindsay
Anderson) |
|

(Singin'
in the
Rain,
USA/1952)
di
Stanley
Donen e
Gene
Kelly
Soggetto,
sceneggiatura:
Adolph
Green,
Betty
Comden.
Fotografia:
Harold
Rosson.
Montaggio:
Adrienne
Fazan.
Scenografia:
Cedric
Gibbons,
Randal
Duel,
Harry
McAfee.
Musica:
Nacio
Herb
Brown,
Roger
Edens,
Al
Goodhart,
Al
Hoffman.
Interpreti:
Gene
Kelly
(Don
Lockwood),
Donald
O’Connor
(Cosmo
Brown),
Debbie
Reynolds
(Kathy
Selden),
Jean
Hagen
(Lina
Lamont),
Millard
Mitchell
(R.F.
Simpson),
Douglas
Fowley (Roscoe
Dexter),
Rita
Moreno (Zelda
Zanders),
Cyd
Charisse
(ballerina).
Produzione:
Arthur
Freed
per MGM.
Durata:
103’.
Restaurato
in 4K
nel 2022
da
Warner
Bros.
La
satira
esuberante
di una
Hollywood
travolta
dal
sonoro,
la
torrenziale
celebrazione
dello
slancio
amoroso,
l'energia
comica
che
incrocia
e si
risolve
nella
perfetta
stilizzazione
coreografica.
L'idea
stessa
del
musical,
nel
fuggevole
apogeo
della
sua
felicità.
È
davvero
il film
dei
magici
accordi:
di
Stanley
Donen e
Gene
Kelly,
di una
formidabile
coppia
di
sceneggiatori
come
Betty
Comden e
Adolph
Green,
di un
produttore
di
straordinario
talento
come
Arthur
Freed.
La
squadra
che ha
consegnato
il
musical
americano
all'eternità.
L’onirismo
della
grande
tradizione
del
musical
hollywoodiano
era
negli
anni
andato
vieppiù
svanendo,
mentre
per
forza di
cose era
invece
rimasta
la
stilizzazione
del
canto e
della
danza.
Il
lavoro
di Donen
e Kelly,
e
specificamente
Singin’
in the
Rain,
si situa
in
questo
periodo
di
declino
che però
–
bisogna
notarlo
– non è,
o non è
ancora,
un
momento
di
crisi.
Anzi,
proprio
fra i
Quaranta
e i
Cinquanta
la MGM,
casa-leader
in
ambito
di
musical,
sfornerà
una
serie di
pellicole
forse
non
sempre
eccelse
ma
comunque
brillanti
e
gradevoli
(talora
addirittura
sfarzose)
che
contribuiranno
non poco
a
identificare
il
genere
con la
casa
stessa.
In
effetti,
i
musical
della
Metro,
poco
importa
il
regista
o la
qualità
dei
singoli
esiti,
esibiscono
tutti –
senza
distinzione
– un
look
preciso
e
riconoscibile,
una
qualità
patinata,
coloratissima,
smaltata,
lucida e
gaia
quale
nessuna
altra
produzione
poteva
vantare.
[…]
Singin’
in the
Rain
è nel
suo
insieme
una
forte,
eloquente
metafora
di
un’altra
condizione
critica
del
cinema
hollywoodiano.
Insomma,
trattando
della
grande
crisi
causata
dall’avvento
del
sonoro,
il film
allude
in
realtàa
un’atmosfera
e a una
problematica
che si
riferiscono
invece a
una
crisi,
di altra
natura
ma non
meno
preoccupante,
che si
sarebbe
verificata
vent’anni
dopo.
[…]
Singin’
in the
Rain
è dunque
una
pellicola
nostalgica,
la
rivisitazione
di un
passato
forse
non
molto
lontano
nel
tempo,
ma
situato
ad
anni-luce
di
distanza
quanto a
gusto,
mentalità,
moda, e
naturalmente
anche
tecnologia.
Così
lontano
che la
sequenza
d’apertura
con
un’inquadratura
dall’alto
in campo
lunghissimo
della
zona del
Grauman
ha il
sapore
di una
scena
presa di
peso da
un
cartone
animato:
i
colori,
le luci,
i
movimenti
in
lontananza,
le linee
architettoniche
non
sembrano
affatto
veri(ricreati),
ma
appartengono
piuttosto
a un
altro
ordine
di
immaginario,
quello
di una
realtà
trasfigurata
da una
fantasia
colorata
e
infantile,
rutilante
e
microscopicamente
grandiosa.
(Franco
La
Polla) |
|

(Lost
Highway,
USA/1996) di
David Lynch
Soggetto
e
sceneggiatura:
David Lynch,
Barry
Gifford.
Fotografia:
Peter Deming.
Montaggio:
Mary Sweeney.
Musica:
Angelo
Badalamenti.
Scenografia:
Patricia
Norris.
Interpreti:
Bill Pullman
(Fred
Madison),
Patricia
Arquette (Renée
Madison /
Alice
Wakefield),
Balthazar
Getty (Peter
Raymond
Dayton),
Robert
Loggia (sig.
Eddy / Dick
Laurent),
Robert Blake
(uomo
misterioso),
Natasha
Gregson
Wagner
(Sheila),
Gary Busey (Bill
Dayton),
Jack Nance (Phil),
Richard
Pryor
(Arnie),
Michael
Massee (Andy).
Produzione:
Mary Sweeney,
Tom
Sternberg,
Deepak Nayar
per CiBy
2000,
Asymmetrical
Productions.
Durata:
134’
C'è una
parte
della
mia
creatività
che non
saprei
spiegare,
che mi è
sconosciuta.
È come
nella
musica:
le note
sono
unite in
un certo
ordine e
formano
le
melodie.
Non
interrompiamo
l'ascolto
per
chiederci
'perché
il fa
minore è
là, dopo
il mi
diesis?
(David
Lynch).
Telefonare a
casa propria
e scoprire
che a
rispondere è
l’uomo che
vi sta
davanti in
quel
momento.
Ascoltare il
citofono di
casa e
sentire la
propria voce
affermare
che un tizio
è morto.
Cambiare
personalità
a metà film
e vedere un
mondo che
possiede lo
stesso
lessico ma
un'altra
sintassi.
Strade
perdute
è tutto
così, un
film che si
presenta
scintillante
e dark,
impaginato
come un
catalogo di
moda, ma
attraversato
da ogni tipo
di paradosso
logico, da
situazioni
esasperate
che lasciano
un malessere
gravoso, da
narrazioni
che si
avvitano
dentro una
spirale
inspiegabile.
Il film più
sofferto e
instabile di
Lynch. |
|

(Italia/1946)
di Vittorio
De Sica
Soggetto,
sceneggiatura:
Sergio
Amidei,
Adolfo
Franci,
Cesare
Giulio
Viola,
Cesare
Zavattini.
Fotografia:
Anchise
Brizzi.
Montaggio:
Nicolò
Lazzari.
Scenografia:
Ivo
Battelli.
Musica:
Alessandro
Cicognini.
Interpreti:
Franco
Interlenghi
(Pasquale),
Rinaldo
Smordoni
(Giuseppe),
Aniello Mele
(Raffaele),
Bruno
Ortensi
(Arcangeli),
Emilio
Cigoli (Staffera),
Gino
Saltamerenda
(Panza),
Anna Pedoni
(Nannarella),
Leo
Garavaglia
(commissario
di P.S.),
Enrico De
Silva
(Giorgio),
Antonio Lo
Nigro
(Righetto).
Produzione:
Paolo
William
Tamburella
per Alfa
Cinematografica.
Durata:
93'
Restaurato
in 4K da The
Film
Foundation e
Fondazione
Cineteca di
Bologna, in
collaborazione
con Orium
S.A., presso
il
laboratorio
L’Immagine
Ritrovata.
Con il
sostegno di
Hobson/Lucas
Family
Foundation
Vita di
strada,
riformatorio
e fuga di
due piccoli
lustrascarpe
romani. De
Sica e
Zavattini,
ruvidezza
ancora
intrisa di
guerra,
pedinamento
fiabesco.
Capolavoro
d'umanesimo
neorealista.
Ignorato dal
pubblico in
Italia,
vinse
l’Oscar per
il miglior
film
straniero.
"Erano i
giorni che
sapete. E io
pensavo:
adesso sì
che i
bambini ci
guardano!
Erano loro a
darmi il
senso, la
misura della
distruzione
morale del
paese"
(Vittorio De
Sica).
In
Sciuscià
la guerra,
che ha
prodotto
un’enorme
crescita del
Lumpenproletariat,
prosegue ora
in altre
forme, come
guerra di
strada nella
giungla
urbana. Le
situazioni
cui lo
Stato, la
burocrazia e
il sistema
carcerario
sottopongono
gli
individui
sono
profondamente
e
disumanamente
assurde
rispetto
allo sguardo
del bambino.
Se l’accusa
di I
bambini ci
guardano
era diretta
ai genitori,
qui è
trasferita
all’apparato
sociale.
Sullo sfondo
di una
constatazione
crudele
spicca una
purezza
d’osservazione
sempre
meravigliosa.
[...]
Sciuscià
è una nuova
versione dei
due mondi di
Jean Vigo.
Il mondo
degli adulti
con la loro
guerra, il
fascismo e
lacorruzione
è
rappresentato
in termini
di freddo,
ordinario
realismo, a
volte come
una
bazzecola
comica. Il
mondo dei
bambini è in
gran parte
invisibile,
nascosto, un
sogno. Può
essere
ravvisato
sui loro
volti o in
immagini
concepite
nello strano
chiaroscuro
di una
leggenda. La
visione dei
due ragazzi
nella
foresta in
groppa a un
cavallo
bianco è
come una
favola che
aleggia su
tempi
malvagi.
(Peter von
Bagh) |
|

(The
Warriors,
USA/1979) di
Walter Hill
Soggetto:
dal romanzo
omonimo di
Sol Yurick.
Sceneggiatura:
David Shaber,
Walter Hill.
Fotografia:
Andrew
Laszlo.
Montaggio:
David Holden,
Freeman
Davies Jr.,
Billy Weber,
Susan E.
Morse.
Scenografia:
Don Swanagan,
Bob Wightman.
Musiche:
Barry
DeVorzon.
Interpreti:
Michael Beck
(Swan),
James Remar
(Ajax),
Deborah Van
Valkenburgh
(Mercy),
Marcelino
Sanchez (Rembrandt),
David Harris
(Cochise),
Tom
McKitterick
(Cowboy),
Brian Tyler
(Snow),
Dorsey
Wright (Cleon),
Terry Michos
(Vermin),
David
Patrick
Kelly (Luther).
Produzione:
Lawrence
Gordon per
Paramount
Pictures.
Durata:
94’
Scriveva
Andrew
Sarris
all'uscita
del film:
"Il
linguaggio
delle gang è
volutamente
criptico, il
senso dello
spazio è
chiaramente
magico".
C'era una
nuova magia,
nera e
sotterranea,
nella storia
dell'attraversamento
che conduce
la banda dei
Warriors dal
Bronx a
Coney Island,
mentre tutte
le altre
street gang
sono alle
loro
calcagna.
Film epico
ed epocale,
per varie
ragioni: i
ribelli di
Walter Hill,
senza cause
pervenute
che non
fossero la
pura
sopravvivenza
del gruppo,
replicavano
il clima di
(vera) paura
che
all'epoca
regnava
nelle (vere)
strade di
New York e
lo
sottoponevano
a un
restyling in
chiave di
mitologia
popolare,
tra western
all'italiana
e cavalieri
della Tavola
Rotonda.
Accoglienza
controversa,
successo
divenuto
culto,
imitazioni a
non finire.
Trovavo
interessante
l’idea di
non guardare
a una banda
in termini
di problema
sociale, ma
sotto un
altro punto
di vista,
quello del
loro eroismo
inteso
nell’accezione
classica del
termine.
[...] Mi
piaceva
anche l’idea
di
raccontare
una vicenda
tratta dalla
storia
greca. Si
trattava
dell’Anabasi
ambientata
in un mondo
futuristico
e
fantascientifico
[...] Quando
si dà vita a
una
fantascienza
c’è spesso
la
propensione
ad astrarla
del tutto.
Ho pensato
che la sfida
sarebbe
stata
renderla
realistica e
fantastica
allo stesso
tempo;
volevo
combinare
quei due
elementi per
farne un
fumetto
dark.
(Walter Hill) |
|

(Messico/1953)
di Luis
Buñuel
Soggetto:
basato sul
romanzo
omonimo
(1926) di
Mercedes
Pinto.
Sceneggiatura:
Luis Buñuel,
Luis
Alcoriza.
Fotografia:
Gabriel
Figueroa.
Montaggio:
Carlos
Savage.
Scenografia:
Edward
Fitzgerald.
Musica:
Luis
Hernández
Bretón.
Interpreti:
Arturo de
Córdova
(Francisco
Galván de
Montemayor),
Delia Garcés
(Gloria
Vilalta),
Aurora
Walker
(Esperanza
Vilalta),
Carlos
Martínez
Baena (padre
Velasco),
Manuel Dondé
(Pablo),
Rafael
Banquell
(Ricardo
Luján),
Fernando
Casanova (Beltrán),
Luis
Beristáin (Raúl
Conde).
Produzione:
Óscar
Dancigers
per Ultramar
Films. DCP.
Durata:
92’. Bn.
Nel 1953 la
carriera
registica di
Luis Buñuel
stava
riprendendo
con maggiore
libertà e
intraprendenza
in Messico.
Dopo il
successo
europeo di
I figli
della
violenza,
Luis Buñuel
adattò con
il suo
complice e
collaboratore
abituale
Luis
Alcoriza il
romanzo
Él di
Mercedes
Pinto: più
che una
storia di
fantasia era
la cronaca
dettagliata
del
terrificante
calvario
vissuto da
vittima di
un marito
megalomane e
gelosissimo
che era, in
realtà, un
caso grave
di delirio
paranoide (Lacan
mostrava
questo film
ai suoi
studenti di
psichiatria
come buona
illustrazione
della
malattia).
Magnificamente
interpretato
da Arturo de
Córdova,
Francisco
Galván è ciò
che in
Spagna si
chiama
meapilas,
un
baciapile:
un devoto
‘cristiano
buono e
puro’, ma di
fatto un
vergine di
mezza età.
Ossessionato
dai piedi
calzati di
un’altra
fedele,
Gloria
(Delia
Garcés),
lacorteggia
finché
questa non
rompe con il
fidanzato
per sposare
lui,
sorprendentemente
affascinata
com’è dal
suo
carattere
dispotico.
Ma già
durante la
luna di
miele Gloria
scopre e
subisce la
gelosia
completamente
ingiustificata
dell’uomo,
che
interpreta
maniacalmente
ogni cosa
come gesto
beffardo e
come prova
dell’infedeltà
della moglie
o di
complotti
contro di sé
e contro i
propri
interessi
finanziari e
patrimoniali.
Diffida di
sua moglie,
dei suoi
avvocati e
di quasi
tutti,
disprezza
gli esseri
umani che
considera
parassiti e
afferma in
modo
megalomane
che se fosse
Dio non
perdonerebbe
mai
l’umanità.
Sebbene di
solito Luis
Buñuel fosse
un grande
umorista e
un perenne
surrealista,
questo – un
po’ come
Il ladro
di Hitchcock
– è
probabilmente
uno dei suoi
film più
seri, e
anche uno
dei più
complessi e
maggiormente
caratterizzati
da un
narrazione
tesa ed
ellittica, e
si conclude
con una
delle più
inquietanti
scene finali
mai girate.
Considerato
da molti il
migliore tra
i capolavori
di Buñuel
insieme a
Estasi
di un
delitto
e a
L’angelo
sterminatore,
contiene
alcune
immagini che
spingono a
chiedersi se
Hitchcock
avesse visto
e ricordasse
Él
quando girò
La donna
che visse
due volte
cinque anni
dopo.
(Miguel
Marías) |
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(Sedmikrásky,
Cecoslovacchia/1966)
di Věra
Chytilová
Soggetto:
Věra
Chytilová,
Pavel
Juráček.
Sceneggiatura:
Věra
Chytilová,
Ester
Krumbachová.
Fotografia:
Jaroslav
Kučera.
Montaggio:
Miroslav
Hájek.
Scenografia:
Karel Lier.
Musica:
Jiří Šust,
Jiří Šlitr.
Interpreti:
Jitka
Cerhová (Marie
I), Ivana
Karbanová (Marie
II), Julius
Albert
(l’uomo di
mondo più
anziano),
Jan Klusák
(l’uomo di
mondo
giovane),
Marie
Češková,
Jiřina
Myšková,
Marcela
Březinová,
Oldřich Hora,
Václav
Chochola,
Josef
Koníček.
Produzione:
Filmové
studio
Barrandov.
Durata:
75’
Le
margheritine
è una
metafora
della
distruttività
della natura
umana
applicata
alla civiltà
moderna in
generale e
al sistema
comunista in
par-
ticolare. Le
ragazze,
piccole
demolitrici
irriverenti
e
imbronciate
capaci di
esercitare
una forza
devastatrice,
rappresentano
in chiave
satirica la
crisi
contemporanea
dei valori e
una visione
grottescamente
deformata
del futuro.
Una bruna e
l’altra
bionda,
nelle loro
apparizioni
pubbliche le
due sono
intercambiabili.
Il subbuglio
maniacale
che causano
è presentato
con
un’estetica
giocosa e un
gusto
sofisticato
mettendo in
contrasto le
immagini
documentarie
e le
manifestazioni
più incivili
del mondo
moderno. La
totale
distruzione
perseguita
dalle
ragazze è
provocata
dalla noia e
dal
desiderio di
cambiamento:
le due Marie
ambiscono a
un mondo di
assoluta
libertà e
fantasia e
del tutto
privo di
scrupoli. La
regista Věra
Chytilová si
rifiuta di
risparmiare
le sue
protagoniste
e fa
letteralmente
a pezzi le
loro
controparti
maschili.
L’autrice
rispetta
solo i
sentimenti
autentici,
il vero
lavoro, e
usa
creativamente
una forma di
ironia
aggressiva
per giungere
a un finale
moralizzante.
(Briana
Cechová) |
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… Classici del cinema
che ritrovano il grande schermo, che ritrovano l’incontro vivo con
il pubblico di una sala cinematografica. Capolavori di ogni tempo (e
senza tempo) che tornano ad essere prime visioni. E di prime visioni
di tratterà a pieno titolo, per le generazioni di oggi: perché è
solo la visione collettiva davanti a un grande schermo che può
recuperare, di questi film, l’autentica bellezza visiva, l’emozione
dirompente, e tutto il divertimento, il piacere, il brivido.
La Cineteca di Bologna promuove insieme al
Circuito Cinema la distribuzione di una
serie di dieci grandi film nelle sale del
Circuito Cinema, diffuse sull’intero
territorio nazionale. si tratta, in tutti i
casi, di film restaurati con tecnologia
digitale negli ultimi anni, riportati quindi
a uno splendore e a una nitidezza visiva mai
raggiunti prima: in tutti i sensi, prime
visioni. I film saranno presentati in
versione originale con sottotitoli italiani.
Basta aver assistito una sola volta alla proiezione di un grande
film restaurato in un festival o rassegna internazionale per
rendersi conto di quanto l’esperienza risulti coinvolgente per un
ampio pubblico. Le visioni televisive (peraltro sempre più rare!) o
su dvd (peraltro di qualità spesso modesta) vengono spazzate via
dalla presenza viva delle immagini su un vero schermo. |

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