ROMA –
1997. Caterino Lamanna (Michele Riondino), uomo semplice
e rude è uno dei tanti operai che lavorano all’ILVA di
Taranto. Vive in una masseria caduta in disgrazia per la
vicinanza al siderurgico e nella sua indolenza condivide
con la sua fidanzata il sogno di trasferirsi in città.
Quando i vertici aziendali decidono di utilizzarlo come
spia per individuare i lavoratori di cui sarebbe bene
liberarsi, Caterino comincia a pedinare i colleghi e a
partecipare agli scioperi alla ricerca di motivazioni
per denunciarli. Presto, non comprendendone il degrado,
chiede di essere collocato anche lui alla Palazzina LAF,
dove alcuni dipendenti, per punizione, sono obbligati a
restarvi privati delle loro mansioni e passando il tempo
giocando a carte, pregando o allenarsi come in palestra.
Ma presto Caterino
scoprirà che quello che sembra un paradiso, in realtà
non è che una perversa strategia per piegare i
lavoratori più scomodi, spingendoli alle dimissioni o al
demansionamento. E che da quell’inferno per lui non c’è
via di uscita. Parte da qui Palazzina LAF,
esordio alla regia di Michele Riondino, un’opera
sentita, dura, cattiva, di cinema sociale rigoroso e
violento come lo fu il confino dei dipendenti nella
palazzina: «Settantanove lavoratori qualificati
furono costretti a passare intere giornate in quello che
loro stessi hanno definito, in tribunale, una specie di
manicomio. Il confino in fabbrica per la prima volta fu
associato a una forma sottile e latente di violenza
privata e per merito di questa sentenza un termine
ancora non riconosciuto dal nostro ordinamento fu
finalmente introdotto», ha detto Riondino.
Una pellicola vera, autentica, risultato di interviste e
indagini ad ex-lavoratori dell’ILVA ed ex-confinati
della LAF e di passaggi processuali dentro un mondo che
Riondino conosce bene visto che oltre ad essere di
Taranto, da dieci ani è nel Comitato Cittadini e
lavoratori liberi e pensanti e dal 2012 è il direttore
artistico del concerto del Primo maggio della città. Da
qui ecco un affresco sociale, Palazzina LAF,
che vuol raccontare quel che succede a Taranto oggi,
frutto del disinteresse della classe dirigente di ieri
(e pure di oggi). Oltre a Riondino, cast di prima fascia
con Elio Germano, Vanessa Scalera, Anna Ferruzzo e Paolo
Pierobon. (HotCorn.com)
RECENSIONE :
L'inizio con The Bad Touch (dei
Bloodhound Gang) fa capire la
disumanizzazione a cui vengono sottoposti i lavoratori
nella "nuova" Ilva dei Riva, quella dopo la
privatizzazione. Già con questa scelta
Michele Riondino, al suo esordio come
regista in prima visione alla Festa del
Cinema di Roma, fa centrare a
Palazzina Laf l'obiettivo: fare
cinema con un forte contenuto civile, degno erede di
Elio Petri e Gianmaria Volonté.
La vicenda alla base della narrazione è purtroppo
veramente accaduta, forse non nota quanto meriterebbe
perché soverchiata dall'altro dramma dell'Ilva, il
dualismo salute - lavoro, i mali provocati
dall'inquinamento, cosa di cui il film mostra i primi
segnali.
Quella della Palazzina Laf è la storia del primo caso
ufficiale di mobbing. La nuova proprietà sul finire
degli anni '90 aveva posto un aut aut a diversi
impiegati con un profilo altamente specialistico o
lavoratori comunque poco graditi: o accettavano di fare
gli operai (senza venire poi minimamente formati per
farlo) o venivano confinati, durante l'orario di lavoro,
in un edificio (la Palazzina Laf, appunto) squallido,
privo di qualsiasi cosa permettesse di passare il tempo
senza impazzire, che arrivò ad ospitare fino a 70
persone. Persone trattato come scarti, come delinquenti,
isolati.
Il protagonista è Caterino Lamanna (Michele
Riondino), un operaio che viene ingaggiato
come "spia" dal dottor Basile (uno spettacolare
Elio Germano) per avvisarlo di
qualsiasi malumore o attività sindacale in azienda. E
già, perché l'Ilva non brillava nemmeno dal punto di
vista delle condizioni di sicurezza sul lavoro.
Elio Germano incarna alla
perfezione il ruolo di un piccolo caporale viscidamente
mafioso, che ha subito presa su una persona semplice e
rude come Caterino, il quale
addirittura chiede di passare alla Laf per non fare
niente invece di faticare in fabbrica. E che nemmeno si
rende conto dei danni che procurano le sue delazioni
sugli altri confinati e sui lavoratori tutti.
La sua è una storia senza redenzione, mentre finalmente,
con l’arrivo di una soffiata in procura e l’inizio dei
controlli dell’Ispettorato del lavoro, i confinati
riusciranno a rivedere la luce, almeno in parte, anche
se molti di loro avranno già subito danni psicologici da
cui forse non si riprenderanno mai del tutto. Tragica ed
esilarante è la scena in cui un ingegnere distrugge una
parete affacciandosi su una stanza in cui gli altri
stavano pregando.
Palazzina Laf mostra
come la ricerca del profitto a qualsiasi costo avveleni
i pozzi della società, riduca le persone a pedine
egoiste del sistema, vittime e carnefici insieme (è il
caso di Caterino, che inizia ad
avere una strana tosse) quando non le annienti
totalmente (è il caso dei confinati, in particolare
Rosalba Liaci ex segretaria di Basile), rendendole
vittime all'ennesima potenza.
Il film si ferma agli inizi del processo, conclusosi poi
nel 2006 con la condanna per violenza privata per Riva e
alcuni suoi collaboratori. Ma la tragedia dell'Ilva non
è finita. Sia per gli ex-confinati, costretti a
convivere con le conseguenze di quanto vissuto, sia per
chi si ammala (e si ammalerà purtroppo) per i veleni
emessi dalla fabbrica e per i lavoratori che non sanno
che fine faranno. E questo sconvolge, che, a quasi vent'anni
dalla fine del processo, ancora la fabbrica sia un
mostro e non una risorsa.
Palazzina Laf è un film
corale e toccante come l'abbraccio che
Riondino si è scambiato con tutto il cast al
termine della proiezione. All'accendersi delle luci,
dopo La mia terra di Diodato
in conclusione, in sala è partita una meritatissima
standing ovation. Il film merita di essere visto dalle
scuole e forse anche una riflessione come candidato
all'Oscar come migliore film straniero non sarebbe male:
perché riporta l'impegno sociale e le persone davanti
alla macchina da presa, perché è recitato in modo
magistrale, perché è carico di vita e dolore. E,
parlando di Taranto, parla di ogni posto nel mondo in
cui c'è il ricatto tra vita e lavoro. (Mescalina.it
- Arianna Marsico)
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