La TRAMA :
Queer, il film diretto da Luca Guadagnino,
è ambientato a Città del Messico negli anni 40, dove l'americano
Lee (Daniel
Craig) ha trovato rifugio dopo essere
scappato da New Orleans per evitare un arresto per droga. Nella
capitale messicana, Lee passa il suo tempo frequentando i bar della
città pieni di studenti universitari americani espatriati, soldati
congedati e altri personaggi ai margini della società che vivono di
sussidi. S'infatua di un militare della Marina americana in congedo,
Allerton (Drew Starkey),
un tossicodipendente, che, sebbene indifferente alle sue avances,
alla fine cede, ma solo quanto basta per rendere i desideri sessuali
di Lee ancora più un'ossessione. Insieme, intraprendono un viaggio
in Sud America alla ricerca di una droga nota come "Yage", che
secondo Lee lo renderà un sensitivo....
La RECENSIONE : “Io non sono così”, si legge continuamente in
Queer di William S. Burroughs, e si sente ora nel bellissimo
film che ne ha tratto, dopo una vita che lo voleva fare, Luca
Guadagnino. Io non sono frocio, sarebbe. È la parola usata in quelle
pagine e, ora, sullo schermo. Il romanzo letteralmente della vita di
Burroughs (oggi sarebbe liquidato con: autofiction) uscì da noi,
nella prima edizione, col titolo Checca. Oggi finirebbero
tutti in galera.
Ora Queer ha preso, anche fortunatamente, altri
significati, è stata accolta nel lessico mainstream, s’è piegata a
un uso diverso, che ora sarebbe liquidato con: inclusivo. Ed è
giusto, perché il queer originale di Burroughs vale sì come
frocio, ma è pure molto altro. “Io non sono così” era una negazione
dell’omosessualità percepita, al tempo, come demascolinizzazione. Ma
“Io non sono così” anche perché so che non sono come gli altri, non
sono come voi. Al di là del sesso, della condanna all’esilio, alla
solitudine.
Anche Luca Guadagnino non è mai stato così, non è mai stato come gli
altri. È fuggito dal sistema del cinema italiano, se per sistema del
cinema italiano s’intende l’industria romana. È stato per questo
osteggiato, accolto altrove restando però apolide, e da qualche
tempo – col senno di poi però son capaci tutti – è stato riaccolto
in patria come l’autore che è sempre stato, che è oggi più che mai.
Queer è il progetto della vita, anche per lui. Un film che
voleva/doveva fare da sempre, ma anche – lo si capisce vedendolo –
che poteva fare solo adesso. Dopo tutto quello che il suo cinema è
stato, dopo tutto quello che Guadagnino è diventato.
Ho letto Queer quest’estate, e sono pochi i film tratti dai
libri davanti a cui dici: oddio, è tutto preciso preciso come
l’avevo immaginato. Il girovagare allucinato di Lee, cioè Burroughs,
per i bar di Città del Messico, che sono esattamente i posti che
avevi visto tu. Le fiammeggianti mosche da bar in attesa di
qualcosa, qualsiasi cosa. E poi l’incontro con il giovane Gene (ma,
qui, sulle note di Come as You Are), e pure le giacche di
lino che Lee indossa, e i libri che legge (per esempio,
Appuntamento a Samarra).
E però, nella fedeltà quasi religiosa nei confronti del romanzo (del
regista, ma anche dello sceneggiatore Justin Kuritzkes, lo stesso di
Challengers), Guadagnino trova lo spazio personale per il
suo film probabilmente più intimo, certamente ispiratissimo, pieno
di cose che sono solo sue, il mystery of love e il gioco
della seduzione, fino al body horror (c’è una splendida
scena in cui l’amore diventa davvero “la pelle che abito”).
Queer è il racconto di un viaggio al termine della notte, e
dunque al termine di sé stessi, dove nessuno vuole/può arrivare. Ma
Lee sì, sa che è lì che deve mirare, per questo non è come gli
altri. È un viaggio allucinato, disperato, ma anche vitale,
lussurioso come i corpi e le piante, goduriosissimo a vedersi.
Città del Messico è stata ricreata a Cinecittà, ed è un set
meraviglioso come quelli dei film anni ’40-50, dal Tesoro della
Sierra Madre all’Infernale Quinlan, a cui Queer
rimanda per gusto per l’esotismo e uso del divismo (però con un
personaggio omosessuale che scardina tutto). È un Messico finto e
verissimo, svelato, sempre alla fine, dal modellino dell’hotel in
cui vive Lee, che rende ancora più vera questa letterale
messinscena.
E poi – dicevo del divismo – c’è Daniel Craig. Dal James Bond tra
los muertos di Mexico City al morto che adesso è lui nella
stessa città appiccicosa, in quelle stanze d’albergo tra
Professione: reporter, e Il tè nel deserto, e
inevitabilmente Il pasto nudo. Qui il reporter è lui, ma,
dicevo, l’indagine è solo su sé stesso. Cerca – nella dipendenza
dalle droghe, nel sesso – la chiave per capire, per capirsi. Sogna
di trovare il suo tesoro sepolto nella giungla, la droga miracolosa
che attiva la telepatia: ma solo per riuscire parlare con i suoi
fantasmi, con l’oscuro, con l’immateriale. E difatti, alla fine,
questo film di corpi, di seduzione, di pelle e di sudore finisce per
smaterializzare tutto fino al niente, fino al tutto.
Craig è eccezionale, nelle movenze, nella voce, nell’equilibrio tra
aggressività e fragilità (l’impacciato corteggiamento di Gene, la
prima scena erotica tra i due), nel concedersi tenendo sempre a
freno il possibile sbraco (il piano sequenza della “pera”, pardon, è
stupefacente). È, anche per lui, il film della vita? Probabilmente
sì. Attorno a lui tanti volti giustissimi, il maliziosamente
virginale Drew Starkey (cioè Gene), il queerissimo Jason
Schwartzman, la rabbiosa Lesley Manville (unica licenza rispetto al
libro, dove il personaggio è un uomo).
La tequila, il viaggio, il sesso, un colpo di pistola (ma in chiave
totalmente anti-007). Un film visto al cinema, in due, dove il corpo
dell’uno prova a staccarsi per abbracciare l’altro: ma la distanza è
incolmabile. L’importante è perdersi nell’intrico, qualunque esso
sia, fino alla destinazione di quel viaggio che facciamo sempre da
soli, e che non riaggiusta niente. “Il nostro amore crescerà ancora,
più vasto degli imperi”. Sono alcune delle ultime parole di
Burroughs, le canta Caetano Veloso nella canzone sui titoli di coda.
E forse la materia si ricomporrà, da qualche parte, alla fine o
all’inizio di un altro viaggio.
(di Mattia Carzaniga - da RollingStones) |