THE APPRENTICE - ALLE ORIGINI DI TRUMP  di Ali Abbasi - L'iraniano danese Ali Abbasi è uno dei più grandi autori sulla fascinazione del male. Giunto al terzo film dopo i Troll assatanati del magnifico BORDER, il serial killer "specchio" del superbo HOLY SPIDER, affronta due dei più grandi demoni del "Declino dell'impero Americano" : Donald Trump e Roy Chon. Quest'ultimo già affrontato drammaturgicamente nel Capolavoro Teatrale ANGELS IN AMERICA di Tony Kushner (di cui in Italia resta memorabile la meravigliosa messinscena ad opera del Teatro dell'Elfo di quasi 7 ore che vidi 6 volte, dove Roy Chon era interpretato da un gigantesco Elio De Capitani anche coregista) esce di nuovo come un Demone creatore di altri Demoni, un Frankenstein creatore di mostruose creature, un Mefistofele in cerca del suo Faust. Un corruttore ipercorrotto, che da avvocato nella New York Anni 70 corrompe e ricatta tutti pur di vincere sempre. Infestatore infetto tra i primi ad essere colpito dall'Aids per la sua promiscuità omosessuale peraltro, come mostra bene ANGELS IN AMERICA, negata a favore della sua immagine di uomo tutto d'un pezzo che mandò alla sedia elettrica anche Ethel Rosenberg. Tutore fasullo e ipocrita dei falsi valori americani, minacciati dal comunismo e dalla comunità gay. Un mostro a tutto tondo che Ali Abbasi, grande autore audacissimo che non si ferma davanti a nulla com'è giusto che sia, ci mostra anche nudo in un'orgia omosessuale degna di un film porno gay pre-esplosione dell'Aids, poco dopo aver inneggiato in smoking ai valori morali della Società Americana durante un party in cui appare anche Andy Warhol. Corruttore corrotto trova in un giovane Donald Trump, di cui sappiamo tanto ma non sapevamo questo, la sua Creatura, il suo Faust, il suo Troll da mutare in demone assoluto. Il Film stupendamente vintage come un reperto Anni 70 fra Disco Music a balla (adoro) e il grande Circo newyorchese di quegli Anni, autenticamente caduta dell'Impero post-romano (altrochè il pastrocchio indigeribile del Coppola di MEGALOPOLIS) va assolutamente nel fondo e nel centro del Male. In uno scavo senza mezze misure che diventa, come nell' IRRESISTIBILE ASCESA DI ARTURTO UI di Bertolt Brecht, un ritratto infernale di un'ascesa al contrario, di un'ascesa/discesa agli inferi del potere del denaro del comando dittatoriale. Con pagine, sempre nello stile Abbasi che non fa sconti, di inaudita violenza come lo stupro di Trump nei confronti della moglie Ivana disprezzata in privato ed esibita in pubblico. Il resto è Storia nota di cui fra breve potrebbe scriversi una nuova pagina delirante della Storia Americana. Non esitate correte a vederlo, ne uscirete sconvolti ma illuminati.    (Carlo Confalonieri)

VERMIGLIO
di Maura Delpero - Come nel capolavoro pittorico IL DOLORE CONFORTATO DALLA FEDE di Giovanni Segantini - dove due angeli sovrastano la scena del funerale di un bimbo in un cimitero innevato di montagna - anche in VERMIGLIO, magnifica opera seconda dopo MATERNAL di Maura Delpero - si ha sempre la sensazione che ogni immagine, ogni inquadratura sia sovrastata da un' altra che non vediamo. Perché il procedere del film e delle storie intrecciate è sempre ellittico: ci viene mostrata una parte, ma non il tutto. Questo rende l'affresco umano di uno sperduto paesino alpino sul finire della seconda guerra mondiale, incalzante nella sua indeterminatezza. Se fossimo in un paesaggio marino penseremmo alle onde, una incalza l'altra. Ma in fondo anche le montagne mutano pur nella loro immobilità. E questo mutare, questo movimento musicale e stagionale, assecondato da Vivaldi nella colonna sonora, va tutto in direzione delle donne del paese. Madri, figlie, sorelle anch'elle sovrastate dalla figura maschile patriarcale, ma in fondo libere vitali e soprattutto fertili come le donne di oggi non sono più. Il desiderio di Maternità come in MATERNAL è fortissimo e travalica ogni difficoltà (e la religione stessa). Anche quella di abbandonare un figlio dalle suore (come in MATERNAL e qui l'impronta diventa autoriale) per andare a servire in città come ne IL SOLE NEGLI OCCHI di quel grande cantore dell'anima femminile che fu e resta Antonio Pietrangeli. E poi più Scola de LA FAMIGLIA per l'assenza di un vero dialogo all'interno di questa istituzione, che Olmi a cui Delpero è addirittura antitetica con un'impronta fortemente anticlericale e a tratti cruda e spietatamente vera per quanto riguarda la sessualità e le ideologie politiche. Un po' come l'Haneke de IL NASTRO BIANCO. Anche il paesaggio passa dalla fertilità uterina alla disperazione della sterilità. Ombre sulla neve, poco sole anche d'estate, la vita dei diseredati come ne LA TERRA TREMA di Luchino Visconti. Ma sempre vista come da uno spiraglio, da un buco nel muro che nel rigore delle inquadrature ci impedisce di andare oltre, per andare subito altrove. Mentre sopra a tutto le donne giganteggiano anche quando si decide per loro. In un certo senso un altare laico a tutte le donne di ieri, alla loro forza silenziosa senza proclami capace di muovere le montagne. Gran Premio della Giuria a Venezia e Candidato agli Oscar per l'Italia.    (Carlo Confalonieri)

LA MISURA DEL DUBBIO
di Daniel Auteil - LA RAGAZZA COL BRACCIALETTO di Stephane Demoustier, SAINT OMER di Alice Diop, ANATOMIA DI UNA CADUTA di Justine Triet, IL PROCESSO GOLDMAN di Cedric Kahn e LA MISURA DEL DUBBIO, nuova prova del grande attore Daniel Auteil anche come regista. Cinque titoli tutti magnifici con cui il Cinema Francese in questi anni ha riscoperto e riscritto il genere giudiziario. Anche Auteil fa, infatti, dell'aula di un Tribunale lo specchio di un tortuoso percorso psicologico. L'avvocato Jean Monier ,mirabilmente interpretato da Auteil, dopo aver lasciato il diritto penale a seguito dell'assoluzione di un suo cliente poi tornato ad uccidere, ritorna in Corte d'Assise trascinato dal caso di Nicolas ( Gregory Gadebois indimenticabile) un mite padre di famiglia accusato della morte della moglie. Dopo anni di detenzione prevenzione si approda al processo. Ma nel frattempo per Monier il caso di Nicolas è diventato un'ossessione. Convinto della sua innocenza, la sua imperturbabile professionalità vacilla portandolo a travalicare il ruolo di un normale difensore. In uno scavo e a tratti un'identificazione morale col suo cliente, che lo rende via via sempre più determinato, ma anche fragile. Mentre Nicolas pare quasi rassegnato ad accettare una condanna e un errore giudiziario. Sarà proprio Nicolas su cui gravano indizi, ma non vere prove, a diventare non solo la fissazione di Monier, ma il centro di un'attenzione che sfiora il dubbio, senza risolversi completamente. Come fosse tutto troppo chiaro. Incrociando le udienze processuali con i flashback dell'accaduto, sezionato da vari punti di vista. Finendo per diventare tutto scivoloso e paludoso come i luoghi della Camargue, dove Auteil ha trasferito (conoscendoli bene essendoci nato) questa vicenda processuale, ispirata a una delle storie vere pubblicate dall'avvocato Jean Yves Moyart. Come i titoli citati in apertura, anche il film di Auteil riscrive il genere processuale, con un affondo psicologico fortissimo, nonché un senso della suspense che passa dal noir al polar, fino ad infrangere schemi che pur restando rigorosi diventano altro. Trasformandosi a vista nei gradini di una discesa agli inferi, dove il delitto diventa una delle rifrazioni più patologiche - eppur umanamente possibili – dell'anima. Mentre anche il buon Nicolas si trasforma in una sfinge terrificante, come i tori nelle corride di quei luoghi resi da Auteil con occhio antituristico e potentemente simbolico. Un film assolutamente perfetto.  (Carlo Confalonieri)

L'INNOCENZA (MONSTER)
di Kore-eda Hirokazu - Da un Maestro e un Gigante capace di fare di ogni immagine reale un simbolo (come nei sogni) e di ogni inquadratura l'inquadratura di qualcos'altro rispetto a ciò che vediamo, arriva la Summa immensa di tutto il suo Cinema. Ne L'INNOCENZA (Monster) confluiscono infatti tutti i temi di Kore-eda Hirokazu: il segreto di "Nessuno lo sa"; le tante verità rashomoniane de "Il terzo delitto"; la destrutturazione della famiglia tradizionale e la sua sostituzione - come in "Un affare di famiglia"- con single, vedovi, orfani, assassini involontari, omosessuali (non a caso a Cannes oltre al premio alla sceneggiatura di Yuji Sakamoto, il film si è meritatamente aggiudicato la Queer Palm destinata al miglior film a tematica Lgbt); la tempesta climatica di "Ritratto di famiglia con tempesta" che diventa tempesta interiore. Dopo la narrazione di un incidente scolastico che 1) per Saori, la madre del piccolo Minato, è persecuzione del maestro Hori nei confronti del figlio - orfano di un padre mitizzato come esempio virile dalla madre - 2) per il maestro Hori è un episodio di bullismo da parte di Minato verso il suo compagno di classe effeminato - Eri 3) infine, nel lungo flashback che rivela tutto, attraverso lo sguardo di Minato, è ben altro. Sono infatti i "Segreti e bugie" (prendo a prestito il titolo del Capolavoro di Mike Leigh), inconfessabili gli uni e mistificatrici le altre, di una verità che fa star male un adolescente, fino a fargli tentare il suicidio (ma Hirokazu è un grande saggio e non un acerbo principiante come il Lukas Dohnt dell'insopportabile "Close" e non ce lo propina). Perché come sempre accade in Hirokazu arrivano le immagini a fare luce in un buio assoluto, come su quel vetro nero che Saori e Hiro tentano di pulire con grande fatica per salvare Minato e Eri mentre incombe la tempesta. Quel vetro che nonostante i loro sforzi e le gocce di pioggia resta sempre scuro. Come è oscura l'anima profonda e nascosta negli esseri umani. Ma d'un tratto arriva la luce di una bellissima giornata, presagio di verità, bellezza, amore. Quello vero, che non dice e non può dire il suo nome, ma urla al mondo il bene dell'amore, della fratellanza, dello spirito e dei sensi. Le ultime note composte per il film da quell'altro gigante della Cultura e dell'Arte Giapponese che è Ryuchi Sakamato intensificano la simbologia e nell'inquadratura della preside - prima sfingea e algida - che nasconde un altro segreto e si scioglie nella disperazione guardando il fiume sotto la tempesta, si compone uno dei punti massimi visivi del Cinema e dell'Arte figurativa contemporanea. Sublime, Magistrale, Mostruosamente Bello. (Carlo Confalonieri)

MARCELLO MIO
di Christophe Honore' - Meraviglia delle Meraviglie. Ma quanto dolore per arrivare alla Meraviglia, lo narra come sempre mirabilmente Christophe Honore', uno dei più grandi Registi e Autori che hanno davvero cambiato il Cinema, i suoi linguaggi, la sua morale e persino la sua sessualità. In uno dei Film più liberi che l'immaginario possa concepire, Honore' ripercorre il tortuoso cammino dell'identità come in uno psicodramma, come in una seduta psicanalitica, come in un film di Bergman e Fellini. Federico che trovò il suo alter ego in Marcello Mastroianni, passa infatti il testimone alla figlia Chiara, da sempre splendida, unica, complessa attrice feticcio e musa di Honore'. Spesso suo alter ego e parte femminile della sua omosessualità in film di assoluta bellezza e audacia psicologica (LES CHANSONS D'AMOUR, NO MA FILLE TU N'IRA PAS A DANSER, L'HOMME AU BAIN - insieme al divo del Cinema porno gay Francois Sagat - e quel capolavoro assoluto che è L'HOTEL DEGLI AMORI SMARRITI). Chiara Mastroianni stavolta diventa Marcello Mastroianni,quasi in un processo di metamorfosi (METHAMORPHOSES da Ovidio d'altronde è un altro bellissimo titolo di Honore') che la conduce ad indossare i panni paterni del divino Marcello. Aggirandosi per le vie di Parigi quasi fosse Julie Andrews nell'indimenticabile VICTOR VICTORIA di Blake Edwards. La ragione è la sua profonda inquietudine, che le fa ritrovare una mattina anziché se stessa, L'IMMAGINE ALLO SPECCHIO (e qui e' Bergman) del padre, a cui Chiara peraltro assomiglia in modo impressionante. Ha voglia sua madre, la regale Catherine Deneuve - che fu stupenda ne LES BIEN AIMEE di Honore' al fianco nientemeno di Milos Forman in veste d'attore - che è anche figlia sua e che assomiglia anche a lei (ma dove? Chiara maturando è proprio la sosia di Marcello). La partita Psy è tra lei e il padre, tra lei e quel maschile meraviglioso e seducente che fu anche spesso femminile, senza timore di perdere un briciolo della sua virilità: nel Capolavoro di Scola UNA GIORNATA PARTICOLARE dove Mastroianni interpreta un incantevole omosessuale o ne IL BELL'ANTONIO di Mauro Bolognini dove Mastroianni non teme di vestire i panni di un affascinante impotente. Tutto diventa viaggio nel Cinema e nella Psiche, in questo MARCELLO MIO, fin dall'incipit scioccante in cui Chiara per uno spot pubblicitario diventa Anita Ekberg in una fontana parigina, ma senza riuscire ad esserlo e soffrendo tantissimo perché lei invece si sente Marcello. Finche' si legittimera' e darà un nome al suo dolore, proprio come fosse in un percorso psicanalitico, andando a cercare il padre, vestendone i panni. Per giorni e notti, incontrando, come ne LE NOTTI BIANCHE di Luchino Visconti, un soldato su un ponte che attende l'uomo di cui si è perdutamente innamorato. Ma poi si innamorerà di Chiara credendola un uomo (una svolta cosi è solo di un Genio del Cinema come Honore'). O finendo in caotico studio televisivo italiano come in GINGER E FRED, stupendo e amaro di Federico Fellini, per ritrovare Stefania Sandrelli che fu sua partner ("sua" di Marcello) in DIVORZIO ALL'ITALIANA di Pietro Germi. La corsa nell'inconscio non è una fuga - anzi - e Chiara, che da bimba il padre chiamava polpetta, ritroverà se stessa, come Giulietta Masina che in GIULIETTA DEGLI SPIRITI Fellini ribattezzo' "la bistecchina", mettendola sulla graticola onirica rivelatrice. Honore' in questo Film stupefacente, che con ESTRANEI di Andrew Haigh e CONFIDENZA di Daniele Lucchetti sale al primo posto ex aequo nella mia TOP 2024, fa lo stesso Miracolo, con quella libertà assoluta che solo il Cinema e la Psicanalisi hanno, quando seguono però percorsi invisibilmente rigorosi. Capaci di sciogliere il dramma, il dolore, il malessere nella serenità finale di quel grande mare che è l'inconscio. Che appare nel finale di questo Capolavoro del Cinema Moderno, quell'inconscio in cui finalmente si riesce a nuotare liberi, consapevoli e rasserenati. Il più bel regalo da Cannes, premiarlo sarebbe il minimo. (Carlo Confalonieri)

IL GUSTO DELLE COSE (La passion de Dodin Bouffant) di Tran Ahn Hung - Il cibo come fonte lussureggiante di piacere diventa nel magnifico film del franco vietnamita Tran Anh Hung-noto per l'indimenticabile IL PROFUMO DELLA PAPAYA VERDE - una funebre fonte di morte. In uno dei film visivamente più splendidi (merito anche della fotografia degna di un quadro impressionista del grande direttore della fotografia Jonathan Riquebourg, (si pensi al suo lavoro immane riguardo a LA MORTE DI LUIGI XIV di Albert Serra), l'arte culinaria portata alle soglie dell'ossessione, diventa una delle cose più mortifere che l'essere umano abbia creato. Nel continuo rituale gastronomico fra il gourmet Dodin Bouffant e la sua cuoca e amante Eugenie (Benoit Magimel e Juliette Binoche all'apice della loro arte) nella Loira dei Castelli di fine 800, è silenzio assoluto, eliminazione di qualsiasi psicologia, per far posto alla materia. Lavorata forse anche elevata ad 'arte', ma pur sempre materia senza vita, fonte di un piacere istantaneo e illusorio legato a pochi centimetri di palato e di papille gustative. Nell'immenso cerimoniale lungo oltre 2 ore, il grande regista premiato non a caso a Cannes per la Miglior Regia, si concentra sugli ingredienti dei piatti preparati con un occhio magistrale. Mostrandone l'arma a doppio taglio: fonte di piacere e orale veicolo di morte. La passione di Dodin Bouffant, che diventa passione liturgicamente funerea. Siamo infatti nell'ottica opposta rispetto al sublime IL PRANZO DI BABETTE di Gabriel Axel, dove il cibo diventava autentica fonte spirituale. Qui è e resta fonte di morte, incarnata da Eugenie, che pare avviata a un masochistico ruolo di vittima designata dell'incapacità di amare le persone di Dodin Bouffant, patologicamente vittima della sua ossessione. Che lo portera' non solo a confessare che Eugenie non è una moglie, ma la sua cuoca. Nonche' a tentare di sostituirla con un procedimento identificativo esteriore, simile a quello che porta James Stewart a sostituire Kim Novak in VERTIGO, capolavoro dei capolavori di Alfred Hitchcock e il film piu' "malato" di tutta la Storia del Cinema. Raramente sono uscito più devastato da un film, che pare luminoso mentre in realtà è quanto di piu' cupo si possa immaginare. Perché quest'opera magistrale ti fa capire, senza mezzi termini, quanto ci siamo ridotti a vivere nella più assoluta oralità consumistica, rinunciando a una vera spiritualità. Di cui però c'è ancora traccia in quei templi dell'anima del sogno e dell'inconscio che sono i Cinema. Ancora in grado di regalarci simili trattati filosofici, psicologici ed esistenziali, che - ferendoci - riescono a farci pensare e riflettere in quel deserto spirituale che è il nostro mondo. MAGNIFICO FILM CARDINE DEL NOSTRO TEMPO OSCURO, dominato non a caso dagli Chef più o meno stellati celebranti la chiesa dell'oralità più sfrenata.
(Carlo Confalonieri)

ANSELM di Wim Wenders - A formare quasi un dittico col meraviglioso PINA, ritratto poetico danzante surreale dell'immensa Pina Bausch, Wim Wenders immortala e rende allo stesso tempo umano un'altra figura titanica dell'Arte Teutonica, discendente dai Miti e diventata Mito nella più pure accezione Junghiana. Ovvero quella che attraverso i Miti e la Mitologia riscrive, interpreta e simbolizza la Storia. Nessun altro Artista delle Arti Figurative discende dal Mito e si inoltra nella Mitologia più di Anselm Kiefer, che come un Sigfrido o un Parsifal prende la materia e la trasforma in Sogno e Incubo, per poter rileggere e viaggiare attraverso la Storia, tentare di risolverne i destini non scritti, le tragedie inevitabili, gli orrori e gli errori, specchio e risultato gli uni degli altri. Wenders ha un approccio assolutamente intimo con Kiefer fin dal titolo ANSELM, fin dall'incipit, che nell'immenso atelier di Bajrac in Francia lo vede attraversare in bicicletta enormi saloni e immensi hangar dove alloggiano le sue opere monster colossali e gigantesche. Come fossero scenografie di una dimensione totalmente onirica, un pò come al tempo creò Luca Ronconi per il suo indimenticabile ORLANDO FURIOSO. E le Furie, le Benevole che danno il titolo al più grande Capolavoro letterario sul Nazismo LE BENEVOLE di Jonathan Littel, anch'esso opera monster ma di lettura obbligatoria, sono presenti in quelle Creazioni gigantesche, incombenti, eppure assolutamente astratte e immateriali pur nella loro totale materialità. E lì che - usando il piombo, il ferro, l'acciaio fuso, il cemento armato - Kiefer ricostruisce e decostruisce l'incubo del Nazismo, l'onta incancellabile della sua nazione, il peccato primigenio della Storia dell'Uomo diventato demone. Cresciuto come Wenders tra le macerie di una Nazione devastata e autodevastata, Anselm si aggira nei labirinti dell'Arte in cerca del Filo d'Arianna della Memoria. Wenders segue quel filo di piombo e con il suo genio visivo, proprio come Kiefer, lo rende più leggero mettendoselo sulle spalle, facendone carico fino in fondo. Guardandolo negli occhi spettrali in un procedimento opposto e ugualmente geniale a quello usato da Jonathan Glazer nel magnifico LA ZONA D'INTERESSE. Wenders con la macchina da presa, Kiefer con tutti i marchingegni che fanno del suo Atelier una fabbrica. Come intitolai una rassegna Cinematografica molti anni fa IL PESO DEL MONDO, solo così può diventare sostenibile. Tirando fuori dalle tombe gli scheletri della Storia e 'abbracciandoli' come fa anche il il genio di Pedro Almodovar nel finale bellissimo di MADRI PARALLELE. Solo così forse si troverà la pace e il sonno ristoratore degli uomini diventati Dei.  (Carlo Confalonieri)

E LA FESTA CONTINUA!
di Robert Guediguian - Penso che il solo modo per fare oggi film ancora autenticamente di sinistra e al contempo fare film meravigliosi sia quello di Robert Guediguian. Lontano dagli intellettualismi ammuffiti di Nanni Moretti e dallo schematismo naturalistico di Ken Loach, il grande autore di Marsiglia parla di politica in modo assolutamente umanistico, privato e poetico. Anche nel suo nuovo Capolavoro ET LA FETE CONTINUE! intreccia come già in GLORIA MUNDI, magnifico, persone e idee in modo strettissimo. Con un'osservazione delle vite così mirabilmente sensibile da trasformarle, modellarle, condurle verso versanti che da ideologici diventano inaspettatamente umani, civili e sociali in senso privatissimo. Rosa, la sempre gigantesca Ariane Ascaride complice artistica e compagna di vita di Guediguian, è Rosa infermiera prossima alla pensione, capolista alle elezioni comunali dei verdi, perché come lei stessa dice al fratello di comunisti è rimasto solo lui. Ma mettere insieme un programma per una che ci crede come lei non è facile. Finchè conosce il padre (Jean-Pierre Darroussin, magnifico) della futura nuora e lei vedova da molti anni si innamora di nuovo. Ed è proprio amando e anche sessualmente aprendosi di nuovo alla vita, che trova il suo vero equilibrio politico. Dare amore, non solo idealizzare un'idea di dare. E qui il film pur mantenendo l'andamento di una sublime rapsodia composta da tanti personaggi, svetta nella costruzione di un personaggio di una sincerità assoluta e disarmante. Rosa che mentre nuota si chiede se voglia ancora impegnarsi politicamente o se invece voglia dare amore nell'ultimo scorcio della propria vita. E così diventare ancora più vera e autentica. Un pò come tutti i personaggi, i figli la futura nuora, il fratello, la giovane infermiera, al bivio delle loro esistenze, che troveranno un modo personale di renderle politiche (il figlio accetta la sterilità della futura moglie, lui che voleva tanti figli, perché si puo' anche adottare ecc.). Guediguian inoltre fa politica con un'armonia visiva e musicale di livello altamente emotivo. Usando le musiche di Schubert (la danza notturna e aerea da' i brividi), Mozart, Aznavour e il Georges Delerue de IL DISPREZZO di Godard, nonchè immagini sacre come il Cenacolo o il Cristo del Mantegna che ispirò Pasolini in MAMMA ROMA in chiave laica e simbolica, ovvero di una spiritualità appartenente all'umanità, ai giusti, ai buoni, non solo alla Chiesa. E la circolarità attorno al crollo di un palazzo popolare di Marsiglia e alle proteste avvenute anni dopo, ha una teatralizzazione cosi importante da divenire quasi liturgica. Proprio come il monologo finale di Rosa nell'arena sulle parole di Rosa Luxembourg. Forse lascerà il partito forse no, ma avrà comunque detto ai componenti delle fazioni di sinistra che a loro degli ideali non frega nulla, importando solo la propria affermazione personale. Parole che arrivano come sassate, ma anche moniti e stimoli visto che a Marsiglia una donna di sinistra ha veramente buttato giù la giunta di destra che dominava da 35 anni. Sicuramente il film più bello che potete vedere.  (Carlo Confalonieri)

MAY DECEMBER
di Todd Haynes - "Quell'estate del 42" di Robert Mulligan narrava mirabilmente l'amore romantico fra un ragazzino e una donna matura. Dimenticatelo. Se vedrete il nuovo film di quel genio assoluto della tossicità dei rapporti umani che èTodd Haynes, capirete che nulla di romantico c'è nella love story fra Gracie (Julianne Moore per la terza volta psychomusa di Haynes dopo le psicosi psicosomatiche, di "Safe" e le rimozioni psicosessuali di "Lontano dal Paradiso" metamelo sirkiano) e Joe, lei 36enne lui 13enne. Li ritroviamo molti anni dopo, apparentemente felicemente sposati ("May December" è una coppia con molta differenza d'eta') con tre figli, dopo che lei abbandonò marito e figli e si fece pure la galera incinta di Joe. Un caso mediatico da tabloid che fece esplodere il perbenismo Usa e su cui si girerà un film indipendente, interpretato da Elizabeth (Natalie Portman mostruosamente brava) che raggiunge Gracie e Joe nel loro nido di Savannah, dove ricevono ancora molti anni dopo scatole piene di merda dagli abitanti del posto. Elizabeth è una di quelle attrici che indaga sui personaggi reali che deve interpretare, sicchè inizia a vampirizzare senza il minimo scrupolo Gracie, Joe e tutto il loro entourage. Fino a scoprire il vero vampirismo perpetrato da Gracie nei confronti di Joe (Charles Melton oscuro oggetto del desiderio, in età diverse, delle due donne, Gracie col triplo dei suoi anni, Elizabeth alla stessa età). Segreti e bugie, false felicità che nascondono dominazioni possessi manipolazioni e controlli. Gracie controlla tutto di Joe, Elizabeth come un detective controlla tutto di Gracie, dietro al cui perenne self control e al sorriso tiratissimo appare una psicosi galoppante. E qui arriva Ingmar Bergman col suo PERSONA, che Haynes prende come punto di riferimenti mettendo le due donne, spesso riprese allo specchio, di fronte ai loro demoni e fondendo quelli dell'una in quelli dell'altra. L'America frantumata di Haynes diventa cosi la psiche frantumata rappresentata dal Maestro dei Maestri svedese, con punte identificative nella scena dell'amplesso di Gracie con Joe postbambino rivissuta (più che interpretata) da Elizabeth o nella lettura bergmaniana a fondale neutro della lettera di Gracie a Joe da parte di Elizabeth, che in 5 minuti immensi di Cinema diventa "Un'altra donna" come Gena Rowlands nel capolavoro di Woody Allen, come Liv Ullmann e Bibi Andersson nel capolavoro di Bergman. Il film parla anche di Cinema come riproduzione vampiresconirica della realtà, mettendo il lato oscuro e inconscio di tutti i personaggi in cerca d'autore in una metarappresentazione umana non diretta, ma da proiettare su uno schermo. "Come in uno specchio" bergmaniano, specchio da cui non sfuggi e in cui sei costretto a guardarti. Struccato, senza maschera, senza un ruolo altrui da interpretare se non il tuo. Già di diritto fra i grandi film sulle "Dark Waters" (titolo del precedente magnifico film di Todd Haynes) che scorrono dentro di noi, come un fiume in piena, celate dalla maschera delle regole, delle convenzioni, della "normalità" da rimettere ogni giorno al risveglio per non finire pazzi o in manicomio. SUPER.  (Carlo Confalonieri)

LA SALA PROFESSORI di Ilker Catak - Fa paura, come potrebbe far paura un film di Polanski. Il giovane regista tedesco Ilker Catak ha infatti un pò la stessa capacità di prendere la realtà e rivoltarla come un guanto, facendola precipitare dalle sue sicurezze ai suoi orrori. Carla Nowak (la strepitosa Leonie Benesch che ricordo ne IL NASTRO BIANCO di Michel Haneke e in LEZIONI DI PERSIANO di Vadim Perelman) è un'insegnante di una scuola media tedesca. Giovane brava idealista nei confronti del suo ruolo educativo. Al punto, di fronte a vari furti avvenuti nella scuola, da trasformarsi in una sorta di investigatrice. Ma le si ritorcerà tutto contro, con le prove raccolte che diventano armi contro di lei. Perche' filmare è vietato, ma soprattutto è vietato filmare il vero pronto a trasformarsi nel falso, nell'incubo, nel delirio. Trovo che la sequenza della moltiplicazione delle camicette a stella (vedrete di cosa si tratta) abbia la stessa potenza di alcune sequenze di REPULSION di Roman Polanski, dove Catherine Deneuve scivolava dalla ragione al delirio, dalla visione lucida a quella psicotica. Perchè per ingiurie e delazioni si può anche impazzire, lo hanno dimostrato i recenti suicidi di persone diffamate via social, passata dal ruolo di vittime a quello di carnefici costruiti. LA SALA PROFESSORI non è infatti un film sulla Scuola, per quanto vi sia claustrofobicamente ambientato, ma un astratto scardinamento visivo e progressivo del reale che diventa virtuale, attraverso la costruzioni di nuovi sentimenti o meglio odi mai visti prima in natura. Una valente psichiatra mi ha detto che ultimamente appaiono patologie mai viste prima, addirittura quasi inaffrontabili perché non previste e studiate in letteratura clinica. LA SALA PROFESSORI parla di questo, del presente distopico e capovolto (non certo quello del Generale Vannacci), della società surreale che abbiamo costruito e della perdita di ogni punto fermo. Al punto da divenire a vista quanto di più scivoloso e inafferrabile oggi possa mostrare il Cinema asciutto e sintetico della modernità.  (Carlo Confalonieri)

PAST LIVES di Celine Song - Più Harold Pinter che Alain Resnais. Più "Old Times" di Pinter con la ricostruzione enigmatica di ciò che è stato ed è, che "Smoking No Smoking" magnifico divertissement di Resnais su ciò che poteva essere se avessimo preso un'altra strada. Celine Song non a caso è una commediografa e proprio come in Pinter divide il suo splendido debutto cinematografico in atti, che scardinano il tempo. Hae Sung e Nora erano ragazzini con una forte attrazione reciproca a Seul, prima che Nora con la famiglia si trasferisse in Canada dividendoli e poi lei adulta a New York per diventare scrittrice e incontrare suo marito, un americano, conosciuto in un ritiro per artisti. Tre tempi, tre atti. L'infanzia che si conclude con una separazione e con Nora, già volitiva e ambiziosa, che si avvia per una strada in salita. Il ritrovarsi dei due ai tempi di Skype con una corrispondenza in video che li riavvicinerà, ma che poi Nora più pratica chiederà di interrompere. E infine il ritrovarsi per un giorno a New York, dove l'uomo va trovare la donna, lui con alle spalle una relazione finita, lei calata in un solido matrimonio. Un breve incontro che nello sguardo di Celine Song rifugge ogni tentazione di ricatto sentimentale, rileggendo in modo personalissimo il melo un pò come fece Wong Kar-Wai in "In the Mood for Love", ovvero lavorando dietro all'immagine per lasciarla profondamente evocativa ed enigmatica. La riprova è nel prologo in cui le voci di un uomo e una donna in un bar di notte a New York osservano Hae Sung, Nora e il marito di lei chiedendosi chi siano e quali siano le combinazioni sentimentali fra loro. Perché se anche il film le narra, in fondo non lo sapremo mai con certezza. Non tanto per il richiamo buddista all' inyeon che si basa sulle vite passate determinanti gli incontri presenti. Ma per un senso di astrazione dal tempo e dai luoghi (New York inedita bellissima straniante) che rende tutto indeterminato. Proprio come in un film di Michelangelo Antonioni, punto di riferimento di molto Cinema Asiatico (si pensi al Maestro sudcoreano Lee Chang-Dong) che la coreana Celine Song mostra di ben conoscere e amare, in una cura dei dettagli e dei silenzi assolutamente precisa magica e incantevole. Quanto i suoi meravigliosi attori Greta Lee, Teo Yoo bellissimo quanto commovente e John Magaro. Un debutto prezioso, con tanto Teatro e Cinema alle spalle, i quali arrivano come miracoli sempre presenti da vite passate.  (Carlo Confalonieri)

PERFECT DAYS
di Wim Wenders - Ugo Locatelli grandissimo Artista del Vedere, grandissimo Amico e Maestro che tanto mi insegnò, angelo sulla terra tornatosene silenziosamente in Cielo il giorno di Natale avrebbe adorato - come accadde e accade a me - il nuovo Capolavoro di Wim Wenders. Fu proprio Ugo a farmi conoscere Marcel Duchamp, sua guida e sua quieta "magnifica ossessione". Duchamp rappresentò l'universo con "Fontana", opera ready made composta da un orinatoio capovolto. Hirayama - interpretato dal sublime Koji Yakusho, il bellissimo attore giapponese di film stupendamente erotici di Shoei Imamura - è un uomo maturo felice di alzarsi ogni mattina, lavarsi, innaffiare le piante, uscire e recarsi al lavoro: quello di addetto alle pulizie delle toilette di Tokyo. Pur reinventati dai futuristici architetti nipponici i bagni pubblici restano in apparenza un luogo di miserie umane. Ma come l'orinatoio di Duchamp vengono trasfigurati da Hirayama, attraverso un processo Junghiano di intensificazione della realtà, che li rende doni di un'essenza "divina". La quale permea tutto il visibile, rendendolo vivente ovvero animato dallo spirito dell'esistere. Cogliendo e ascoltando questo vento silenzioso che attraversa in modo animistico ogni cosa, Hirayama - e suppongo Wenders stesso - ha raggiunto l'apice della sua esistenza, della sua serenità. Contemplando le foglie che mutano sulle piante, come pulendo i gabinetti. Dal punto più basso al punto più alto del suo osservatorio esistenziale. Ripetendo ogni giorno un apparentemente identico rituale di gesti e azioni. Solo apparentemente simile, invece diversissimo a ben guardare, perchè se è riproducibile è anche irriproducibile perchè ogni istante è diverso dall'altro e ora è solo ora. Wenders torna come per magia ai grandi silenzi virili di "Nel corso del tempo" il suo film più bello e personale, con questo Canto Visivo che, 37 anni dopo, ne riprende l'orizzontalità. Attraverso linee di ripresa che, come nel Cinema di Ozu, attraversano le vite come uno sguardo parallelo al terreno. Ma anche verticalizzandosi verso l'alto, con una contemplazione delle piante e del cielo. E come in Ozu affiorano dolorosi legami famigliari, qui sepolti, superati, addirittura rinnegati con la rinuncia alla ricchezza e alla materia in nome della libertà. Di godere della propria verità interiore, che prende voce attraverso le canzoni di Lou Reed giunte da desuete e preziose musicassette, reperti di un passato da conservare e preservare. O dai libri ( appare un Faulkner, omaggiato anche dall'immenso Lee Chang-Dong di "Burning") che Hirayama legge prima di addormentarsi. Solo, quietamente felice di essere e di esserci in ogni istante di quel mistero che è la vita. Vidi questo film a Giugno in un'anteprima poco dopo la presentazione al Festival di Cannes, dove Koji Yakusho fu incoronato miglior attore. L'ho rivisto oggi all'uscita nei Cinema italianI. Allora dedicai la visione del film a me stesso, oggi la dedico a Ugo, Anima gentile e radiosa come Hirayama.

FOGLIE AL VENTO di Aki Kaurismaki - Insieme alla meravigliosa canzone di Kosma/ Prevert resa celebre da Yves Montand, il nuovo Capolavoro di Aki Kaurismaki, premio della Giuria a Cannes, potrebbe avere come sottotitolo "Cronache di poveri amanti" come il bel film di Carlo Lizzani tratto da Vasco Pratolini. Proprio per l'amore puro fra Ansa e Holappa, così simile a quello fra Gabriele Tinti e l'indimenticabile Antonella Lualdi. Amori che riscattano la solitudine, la tristezza, la sfortuna, la malinconia, la miseria e persino la guerra (là era il fascismo, qui il conflitto Ucraino che arriva dalla radio 80 anni dopo a parlare ancora di repressione della libertà). Ma si sa in Kaurismaki arriva tutto come ovattato, come sotto vetro, come da un quadro di Edward Hopper. Persino l'alcolismo, che Kaurismaki conosce. E l'immensa solitudine, miseria e sopravvivenza di due cuori solitari in una Helsinki dove si licenzia quasi senza ragione, si sfruttano i lavoratori (come in tutta Europa e in gran parte del mondo), si impedisce alle persone di avere un futuro, la salvezza arriva ancora dall'amore e dalla sua tenacia, nonché dal Cinema che fa da sfondo a ogni inquadratura di questo film miracoloso. Visconti con "Rocco e i suoi fratelli", Bresson con "Pickpocket" e "L'argent" (i suoi due film in cui il denaro ha diabolica importanza), "Le Mepris" di Godard, gli Zombie di Jarmush, molti altri e un omaggio finale a Chaplin a dir poco fulminante. Ansa e Holoppa si danno il primo appuntamento in un Cinema d'essai, poi perdono il biglietto col numero di telefono, accadono sfortune di vario tipo, ma resistono e la loro resilienza verrà premiata. Kaurismaki torna sul tema del lavoro dopo tre film bellissimi e cupi come "Ombre sul paradiso", "Ariel" e "La fiammiferia". Stavolta con un film più ottimista, di cui abbiamo assolutamente bisogno e con quella sintesi propria dei Grandi Maestri, i quali raggiungono una semplicità umana e divina insieme. Dandoci luce, speranza nella Vita e nel Cinema, guida maestra e specchio delle nostre esistenze. (Carlo Confalonieri)

THE OLD OAK
di Ken Loach - Il probabile addio al Cinema del grande vecchio indomabile Ken Loach è un'opera somma sulla compassione e l'armonia che ne scaturisce. Comprendere e soccorrere coloro che sono in pena crea serenità, pare dirci il più combattente dei registi, insieme al suo fedele sceneggiatore Paul Laverty, il quale stavolta ha scritto dialoghi non solo molto belli, ma anche molto utili. Cosi' come le immagini attente partecipi sempre essenziali, mai casuali, di Loach, ci dicono che il "fuori" devastato del mondo e della società possa ancora essere visto attraverso un "di dentro", ovvero una sensibilità umana e un'accoglienza civile nate dal profondo dell'anima. Nonostante Loach resti fedele alla propria immanenza, stavolta traspare infatti qualcosa di "divino", rapportato a una dimensione strettamente umana. Per cui l'arrivo in una cittadina inglese ex mineraria-teatro nei funesti anni 80 tatcheriani di scioperi e crisi irreversibili che condussero ad impoverimenti e chiusure (un po' come sta accadendo oggi) - di un gruppo di rifugiati siriani, dà la svolta. Inizialmente contestati dagli abitanti, proletari seppur ancorati alle loro briciole di benessere, troveranno infatti in Tj Ballantyne, il proprietario del vecchio pub locale "La vecchia quercia" (quale migliore definizione per Ken Loach?) e nella giovane siriana Yara, i paladini di una renaissance umana sociale interraziale. E non a caso, perché l'uomo non più giovane guarda il mondo attraverso il filtro di fallimenti privati che lo spinsero a un tentato suicidio (salvato da una cagnolina come in "Umberto D" di Vittorio De Sica), mentre la giovane donna lo guarda attraverso l'obiettivo della sua inseparabile macchina fotografica, che le fa ritrarre il mondo non come è ma come dovrebbe essere. Lo stesso fa Ken Loach con questo film bellissimo commovente e colmo di speranza. Non utopistico, perché davvero vibrante di un credo nell'essere umano, tanto da modificarlo nel film rispetto alla realtà. Rendendolo meno respingente e prevenuto verso l'altro e più autenticamente aperto a chi chiede aiuto. Perché nella solidarietà umana-pare dire Ken Loach, in una processione finale multietnica - che riporta alla mente quel Capolavoro Assoluto che è "Viaggio in Italia" di Roberto Rossellini - risiede il vero miracolo, forse possibile con altri occhi e altri sguardi. Quelli della memoria che illumina il presente, come le foto dei minatori che prendono nuova vita attraverso le foto di Yara circa quarant'anni dopo. Cambia lo sguardo, ma l'essenza compassionevole e solidale resta. (Carlo Confalonieri)

ANATOMIA DI UNA CADUTA
di Justine Triet - "Anatomia di un omicidio" di Otto Preminger e "Scene da un matrimonio" di Ingmar Bergman, riuniti come poli opposti in un'opera magistrale giustamente premiata al Festival di Cannes con la Palma d'Oro. L'operazione apparentemente rischiosa della francese Justine Triet, con alle spalle 3 film corali ruotanti su un personaggio femminile ("La battaglia di Solferino"," Victoria" e "Sybil") mantiene il fulcro femminile e postfemminista, ma lo isola spietatamente, inchiodandolo in un interno matrimoniale che pare uscito da Strindberg. Una sorta di "Danza di morte" di coppia, condotta dalla donna che prevale sull'uomo, destinato e predestinato a precipitare non solo dal terzo piano. A far da collante al mistero di coppia è il figlio cieco di dieci anni, che a sorpresa avrà visto la vera verità o forse l'avrà immaginata per por fine al processo dove la madre è accusata dell'omicidio del padre. Caduto o buttato di sotto? Il film grandioso di Justine Triet fa del processo seguente una metafora del processo alla coppia, alle sue impalcature incrinate, alle sue fondamenta scricchiolanti. Con Sandra che diventa scrittrice di successo, mentre Samuel il marito scrittore perde l'ispirazione e la capacità di scrivere. Con Sandra che forse non gli perdona l'incidente che ha reso cieco il figlio, tradendolo con la sua bisessualità e rubandogli idee per i suoi romanzi. Prosciugandolo forse silenziosamente nella creatività e nella virilità. Samuel a cui resta solo l'espediente di una musica martellante e assordante, per interrompere dispettosamente le interviste fatte alla moglie famosa. Tassello dopo tassello, scollamento dopo scollamento, fra realtà e finzione, verità e menzogna, affiorano molte versioni di quella caduta mortale. Ma sarà quella più psicologica data dal figlio, forse per salvare la madre, a far luce. Luce nell'ombra, nel buio della visione della cecità che diventa più sensibile alle sfumature. L'aula del Tribunale è quella dei film americani come quello citato di Otto Preminger, ma gli interni domestici in quello chalet isolato dal mondo sono quelli del sublime Cinema scandinavo di Ingmar Bergman. La tenuta e la suspense sono mirabilmente hitchcockiane, con quelle sfaccettature della realtà che diventano sue rifrazioni. Dove la certezza si dissolve e la verità diventa ambigua. Lasciando affiorare il gioco al massacro, anche un pò da "Shining" visto il contesto nevoso, fra un uomo nell'inferno dell'impotenza creativa (e sessuale) e una donna se vittima o carnefice non si sa. E a giocare tutti i toni del doppio e dell'ambiguo è la grandissima attrice tedesca Sandra Huller, notissima per "Toni Erdmann" il capolavoro di Maren Ade, affiancata dal tagliente sguardo di Swann Arlaud nel ruolo dell'avvocato che la difende e un tempo la amò. Lui difensore e 'amante', lei non si sa, se non abbandonando le leggi del codice penale per quelle del codice morale/immorale, l'uno specchio dell'altro. Maestosamente autoriale e personale, tanto da lasciare l'impressione di non aver mai visto nulla di simile. Assolutamente Superlativo. (Carlo Confalonieri)

DOGMAN di Luc Besson - Come la ragazzina dell'indimenticabile WHITE GOD di Kornel Mundruczu, anche Doug ha il potere di divinizzare i cani.  Ovvero di elevare i cani a livello divino, sopra gli uomini, per le loro assolute bontà e fedeltà che riversano sull'uomo senza chiedere nulla in cambio. E in un'inversione letteraria rendere Dog, God ...Dio, come quel genio del Cinema ungherese che è Mundruczu faceva fin dal titolo di WHITE GOD.  Besson però va persino oltre rendendo la parabola di Doug, seviziato dal padre e dal fratello buttandolo in una gabbia per e di cani per molto tempo, una sorta di martire. Sopravvissuto agli orrori della famiglia, grazie ai prodigi del regno animale. Ridotto su una sedia a rotelle sempre dal padre, Doug da adulto decuplicherà l'amore canino, scegliendo stavolta di vivere proprio in mezzo a loro in una specie di comunità dove i reietti sono considerati gli umani. Sfidati, derubati (già nella Storia del Cinema il furto canino sulle note di So What di Miles Davis), puniti da Doug attraverso i suoi tantissimi cani, istruiti a dovere. Una sorta di Regno da "Carica dei 101" in versione shakespeariana, l'autore più amato da Doug grazie all'unica donna che lo affascinerà. Addirittura lo Shakespeare delle vendette più cupe, quello di Machbeth sanguinario e assassino.  Il film meraviglioso e strepitosamente Cinematografico di Luc Besson parla di metamorfosi dopo la tragedia, dopo la caduta. Quelle che ti consentono di continuare a vivere, di andare avanti con una maschera che copra tutto il tuo dolore. Era cosi per il sublime JOKER di Todd Phillips dove l'immenso Joaquin Phoenix si trasformava in un'orrida caricatura, è così in questo stupendo DOGMAN dove lo stratosferico Caleb Landry Jones indosserà maschere multiformi da Drag Quenn (Edith Piaf, Marylin Monroe, Marlene Dietrich) per trovare almeno una volta alla settimana un precario equilibrio identitario. Che invece questo capolavoro di Luc Besson, già indimenticabile a fine proiezione come un'ombra elettrica che ti si incolla addosso, ha solidissima, attraverso una memoria di tanto Cinema maiuscolo Americano d'autore e indipendente, che va dal Sam Peckinpah di CANE DI PAGLIA, al Jonathan Demme de IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI e di PHILADELPHIA citati nella figura della psichiatra dell'ottima Jonica T.Gibbs e del suo rapporto con la figlioletta, a cui porterà dopo l'incontro con Doug quel grande amore che Tom Hanks ispirava a Denzel Washington, in quel film epocale e di svolta che fu PHILADELPHIA. Inoltre lo sguardo di Besson torna a vestirsi di tutta la sua grandeur pop pulp e camp, proprio come ai tempi del folgorante NIKITA, sostituendo i colori saturi della fotografia memorabile di Thierry Arbogast con quelli ancor più al neon ed elettrici di Colin Wandersman, anche capace di ritrarre il passato come un incubo sotto la cenere. Sezionando anche i generi cinematografici dell'Horror, Giallo e Melo, Besson li reinventa spingendoli verso un abisso psicologico vertiginoso, che fa loro da specchio trasformandoli in puro Cinema d'Autore . Vigoroso, potente,  personale. Che ti inchioda alla poltrona fotogramma per fotogramma, impedentoti quasi di muoverti per la gioia infinita di trovarti finalmente davanti a un FILM a lettere maiuscole, immaginabile e concepibile solo al Cinema e per i suoi schermi Divini e Demoniaci , onirici e sublimi come le pagine della Divina Commedia. Un'esperienza creativa artistica e sensoriale assolutamente dello stesso livello.   Non ci sono scuse per non vederlo.

AS BESTAS di Rodrigo Sorogoyen - Sarebbe troppo semplice ricondurre il nuovo magnifico film di quel grande regista spagnolo che è Rodrigo Sorogoyen a un postwestern contemporaneo o a una rivisitazione di "Un tranquillo week end di paura". Siamo infatti altrove, direi oltre. La vicenda di Antoine e Olga,coppia di intellettuali francesi - trasferitasi in Galizia per vivere secondo i dettami di una riscoperta dei valori rurali ed ecologici, attraverso la coltivazione bio e la ristrutturazione di ruderi per farne un agriturismo - sotto la direzione di quello che oggi è il più estremo e sottile regista spagnolo, diventa infatti una discesa negli abissi ancestrali della bestialità, già sottolineata dal titolo "Le bestie". Non quella degli animali veri e propri, nulla infatti è didascalico in Sorogoyen, che come sempre inizia in un modo e poi ti trascina altrove. La strepitosa sequenza iniziale in ralentì della lotta fra gli uomini e un cavallo è pura dominazione e ribellione istintiva, furia primordiale. Quella con cui dovranno fare i conti i due "bobos" francesi, messi a confronto con la totale ignoranza e il disprezzo cieco di ogni forma culturale ed elaborazione esistenziale, dei nativi del luogo, abbruttiti da anni di privazioni e lavoro puramente materiale, che li ha equiparati agli animali e alle terre che dominano, ma da cui in realtà sono dominati. Natura e cultura in uno scontro totale, diretto, sempre più in crescendo. Quasi senza parole, se non per le esternazioni razziste e deliranti dei due bifolchi vicini di casa, sempre più minacciosi e violenti nei confronti della coppia francese. Sorogoyen intreccia in quest'opera maiuscola i suoi grandi temi della discesa agli inferi morali ("Che Dio ci perdoni"), dell'ossessione (" Madre") e della corruzione metafisica del contesto sociale ("Il regno"), in un'opera magistrale e complessa fatta di sguardi, silenzi, minacce sotterranee. In un crescendo di pura tensione psicologica, che con grande coraggio narrativo si spezza a due terzi del film passando il testimone da Antoine (il superlativo Denis Menochet) a Olga (Marina Fois, che supera se stessa in una prova mutevole e severa, costruendo un indimenticabile ritratto femminile, il quale in un'audace piano sequenza di 10 minuti nel confronto con la figlia fa pensare alle attrici di Ingmar Bergman. Senza un attimo di cedimento, questo grande saggio di Cinema del silenzio è uno degli urli più potenti mai visti sullo schermo. Assolutamente da vedere.   (Carlo Confalonieri)

LA COSPIRAZIONE DEL CAIRO
di Tarik Saleh - Come il grande Ali Abbasi ("Border" e "Holy Spider") è un regista iraniano naturalizzato danese, Tarik Saleh nasce in Svezia da padre egiziano, ma in Egitto non può più tornare dopo il suo bellissimo polar "Omicidio al Cairo", sulla corruzione della polizia egiziana. Eppure col suo nuovo thriller vi fa ritorno cinematograficamente e lo fa in grande stile intrecciando le atmosfere letterarie di John Le Carré, Graham Greene e dell'Umberto Eco dell'epocale giallo ecclesiastico "Il nome della rosa ". Con quelle cinematografiche di Sidney Pollack e Costa Gavras. Ne risulta una sontuosa spy story esotico-religiosa ambientata nel cuore della prestigiosa università Al-Azhar del Cairo, sede del potere dell'Islam sunnita, durante la successione del grande Imam controllata dalle frange politiche del potere. Che scelgono come "talpa" il giovane Adam (il bravissimo Tawfeek Barhom) arrivato dal suo villaggio di pescatori ad Al-Azhar, con una borsa di studio per la sua grande intelligenza. Che la macchina del potere sfrutta reclutandolo come "angelo" ("Boy from Heaven" il titolo internazionale lo mette giustamente al centro). Ma la sua intelligenza e il suo coraggio smaschereranno più di un meccanismo corrotto fuori e dentro le mura del complesso religioso. Filmato da Tarik Saleh come un labirinto di rigore architettonico e di fascinazione coreografica, che a tratti rimanda alla perfezione visiva dell'Hitchcock del meraviglioso e sottovalutato "Topaz". A fare da ponte fra corruzione politica e religiosa è di nuovo Fares Fares, carismatico attore feticcio di Saleh, qui in una veste umana quasi caricaturale che sovrasta il suo ruolo di poliziotto.

UNA RELAZIONE PASSEGGERA
di Emmanuel Mouret - Negli ultimi film della sua preziosa filmografia, l'eccellente nuovo cantore della commedia francese Emmanuel Mouret, aveva allargato la visione all'intreccio romanzesco nello splendido film in costume "Mademoiselle de Joncquires" o all'affresco contemporaneo nel meraviglioso "Les choses q'on dit ,les choses q'on fait". Restando sempre nella composizione/scomposizione delle relazioni sentimentali, raggiunge il sublime restringendo il campo nel nuovo superlativo "Una relazione passeggera". Una coppia di amanti: Simon introverso sposato impacciato e problematico, Charlotte estroversa disinvolta madre single risolta almeno all'apparenza. Si incontrano, si piacciono, decidono di andare a letto senza nessun tipo di progetto o aspettativa, per "farsi del bene' aprendo una parentesi senza complicazioni sentimentali nè passionali. Vediamo solo loro, nulla loro privato, come fossero cavie di un esperimento. Si può star bene insieme, fare l'amore, provare felicità senza innamorarsi? Lo scudo è nelle parole, nei dialoghi strepitosi che Mouret e il co-sceneggiatore Pierre Giraud mettono in bocca ai due, fondendo il filosofeggiare di Eric Rohmer e il disincanto nevrotico di Woody Allen. Risultato un ritmo frenetico e armonioso, che punteggia la commedia sentimentale come una sinfonia, sempre trascinante, sempre sull'onda del tempo inafferrabile che fugge e le parole non trattengono, tantomeno i pensieri o i gesti. E proprio il tempo scandisce con le didascalie delle date, che scorrono come un calendario, questa relazione passeggera come le nuvole, inafferrabile come la vita. Eppure 3 improvvise zoommate sui personaggi nel corso del film ci fanno capire chiaramente che, dietro al castello di carta degli intenti e delle parole, si cela qualcosa di profondo, di inalienabile dalla natura umana e dal suo bagaglio di sentimenti. Ha voglia Charlotte a smontare l'amore con qualcosa di leggero e indolore e Simon a nascondersi dietro alle sue paure. Il sentimento c'è, non ammesso, remoto, eppure presente in ogni istante. E Mouret con una zampata da Maestro lo fa venire a galla nel momento in cui le cose sembrano finire fra i due, mostrando sulle note stupefacenti di "Les Biches" di Poulenc (la scelta non è casuale e capirete perché) i luoghi dove sono passati Charlotte e Simon : parchi, musei, alberghi, strade di campagna, gallerie d'arte ecc. scevri della loro presenza, suscitando un senso di profonda intensa malinconia. Corretta prima e dopo da un'ironia che omaggia a piene mani il Cinema magistrale di Allen, addirittura con tre precise citazioni (il tennis ,il temporale, l'incontro al Cinema per un film di Ingmar Bergman - in  questo caso "Scene da un matrimonio") da "Manhattan" e "Io e Annie". Charlotte e Simon sono la radiosa Sandrine Kiberlain e i goffo Vincent Macaigne, bravissimi all'apice della loro arte attoriale. Perfettamente intonati a tutte le sfumature di questo film semplicemente incantevole.  
 (Carlo Confalonieri)

DECISION TO LEAVE di Park Chan-Wook - Un capolavoro del thriller non può prescindere da Hitchcock. E "Decision to Leave" che un capolavoro lo è, rispetta la regola, come già accadde per il Brian De Palma di "Vestito per uccidere" e "Omicidio a luci rosse". Anche per il maestro coreano non è la prima volta, visto che nel bellissimo "Stoker", girato a Hollywood, omaggiava ampiamente "L'ombra del dubbio", con Matthew Goode che entrava da inquietante sconosciuto nella vita di Mia Wasikowska, così come nel film di Hitch Joseph Cotten entrava in quella di Teresa Wright. In "Decision to Leave" i film di riferimento sono i due massimi capolavori hitchcockiani "Vertigo" e "La finestra sul cortile". Siamo infatti in un'indagine per un possibile delitto prima e per due poi da parte di un investigatore (qui ancora nella polizia a differenza di "Vertigo") che in entrambi i casi sospetta della stessa donna, sposata a entrambe gli uomini deceduti in tempi e luoghi diversi. Ma sempre nel suo distretto di competenza. Il detective Hae-joon (superbo Park Hae-il) soffre d'insonnia e tende alla depressione. Spostatosi sempre in Corea da un distretto di polizia all'altro per star vicino alla moglie, in entrambe i casi dovrà indagare sulla doppia vedova Seo-Rao (la stupefacente Tang Wei di "Lussuria" di Ang Lee) di origini cinesi. Ma da subito se ne innamora, di un amour fou irrefrenabile, accentuando tutte le sue ossessioni nevrotiche (come accadeva per l'acrofobia di James Stewart in "Vertigo", ossessionato da Kim Novak). Anche Seo-Rae come Madeleine Estler in "Vertigo" è femme fatale, dark lady e oscuro oggetto del desiderio, tutto alla massima potenza. Al punto che il detective si trova più volte ad insabbiare le prove contro di lei. E durante le osservazioni a distanza della donna e le ricostruzioni dei delitti si ritrova proiettato psicofisicanente accanto alla donna, con un effetto binocolo, come accadeva per il voyeurismo di James Stewart ne "La finestra sul cortile ". "Decision to Leave" appare quindi molto classico, ma attenzione perché la sublime maestria registica di Park Chan-wook, premiata a Cannes, trasporta il tutto in qualcosa di straordinariamente mai visto. Dall'inizio alla fine "Decision to Leave" diventa infatti un esperimento ipermoderno sul vedere. Perché se fin da subito l'investigatore si mette il collirio per schiarirsi la vista, lo stesso dovremo far noi spettatori per tutto il film. Immagine dopo immagine pensiamo di afferrare una "visione", mentre istantaneamente la perdiamo, sostituendosene subito un'altra più potente e più ambigua. In un percorso visivo perfetto, complice la fotografia stratosferica nell'impastare luci ombre e nebbie di Kim Ji-yong, assolutamente inedito, dove la realtà diventa sogno, la montagna diventa mare, il sospetto passione amorosa delirante. Le componenti romantiche sensuali e sessuali slittano anch'esse una nell'altra, attraverso gesti minimali simbolici così potenti da far tremare lo schermo. Specchio labirintico di tutte le nostre pulsioni più segrete, dei nostri desideri più nascosti, rimandati alla nostra mente da uno scavo nel gesto quotidiano che diventa astrazione onirica. Ponendoci continuamente il dubbio se la vita sia sogno o realtà. In entrambe le ipotesi varcando quel confine fra il sonno e la veglia, dove alberga l'insonnia del detective e dove prendono forma le sue e le nostre ossessioni. Scendendo dalla montagna inquietante e freudiana a forma fallica del primo delitto, verso il mare simbolo junghiano dell'inconscio. Scendendo o meglio salendo, sempre in crescendo verso uno dei finali più belli della Storia del Cinema, dove il melodramma diventa moltiplicatore dell'enigma della vita dell'amore e della morte. Monumentale, già nella Storia del Cinema classico e sperimentale a un tempo.   (Carlo Confalonieri)

MASQUERADE di Nicolas Bedos - Tra i molti nuovi interessantissimi autori del Cinema Francese, due hanno caratteristiche simili e solidissime Nicolas Bedos ed Emmanuel Mouret. Entrambi attori passati dietro la macchina da presa, entrambi maestri nel rivisitare i generi, entrambi abilissimi costruttori di architetture cinematografiche semplici all'apparenza, sontuose nella sostanza. Accade a chi sa manovrare i sentimenti e far diventare "le choses de la vie" Cinema. Di Bedos citerò i primi due film "Mr e Mme Adelman" e "La belle epoque". E parlerò del terzo "Masquerade" ora nelle sale italiane. Non fatevelo sfuggire per carità, se avete amato come me le sue due opere precedenti, perché ne ritroverete tutti gli eccezionali ingedienti. - 1) Frammentazione della narrazione quasi frenetica, per creare suspense, attesa, sorpresa continua, cambi di prospettiva psicologica - 2) rivisitazione e ricostruzione dei generi americani (la commedia coniugale alla Cukor nel primo, la cinica rivisitazione del passato alla Billy Wilder nel secondo), il giallo hitchcockiano e il melo alla John Stahl di "Femmina folle" in "Masquerade" - 3) la donna vista come essere umano pensante e cresciuto, l'uomo come come bambino da crescere poco pensante di fronte al richiamo sessuale femminile - 4) Il tempo che fugge a tutta velocità e che non torna, anche se fai di tutto per riavvolgere la "pellicola" - 5) la vita come Teatro, finzione, messinscena. Tutto ciò è in "Masquerade" sontuosa incursione nelle vite artificiali sulla Costa Azzurra, che ricercano la giovinezza a tutti costi se l'hanno perduta (con giovani amanti a letto o sui palcoscenici, come la strepitosa Adjani che rifà Norma Desmond di "Sunset Boulevard") e la vendono al miglior offerente se ce l'hanno, trasformandosi in escort (uomo o donna non importa). Bedos incastra il tema del tempo perduto e della sua inutile recherche nel giallo Hitchockiano alla "Caccia al ladro ", facendo della Costa Azzurra un grande palcoscenico di finzioni e inganni, dove ogni personaggio, interpretato da magnifici attori (Pierre Niney, Marine Wacth bellissima, Francois Clouzet, Emmanuelle Devos, Laura Morante e la già citata Isabelle Adjani) è ben diverso da quello che sembra. In un continuo ribaltamento di ruoli e prospettive, lanciato a tutta velocità tra thriller e melo, con la donna che ancora non solo vince, ma stravince. Elettrizzante !  (Carlo Confalonieri)

I
L CORSETTO DELL'IMPERATRICE (CORSAGE) di Marie Kreutzer - La regista austriaca Marie Kreutzer nel 2019 partecipò alla Berlinale con un film che mi piacque e colpì moltissimo "The ground behaind my feet" ritratto di una manager inflessibile, che a un tratto crolla rispecchiandosi nella follia della sorella schizofrenica. Da perfetta autrice quale è nell'affrontare il personaggio dell'imperatrice Elisabetta d'Austria, detta Sissi, ritrae un'altra donna a cui a un tratto la "terra inizia a tremare sotto i piedi". La scadenza sono i 40 anni età in cui una donna nel 1877 era considerata finita. Allora Sissi inizia a rifiutare la sua immagine reale, fisica e si rifugia via via in una proiezione delirante di sé, proprio come Lola, la manager del film precedente della Kreutzer. Prima rifiutando il cibo per restare in perfetta forma, poi sottoponendosi a martiri fisici di altro tipo (assistiamo a una sorta di autoannegamento per aumentare la respirazione), a tentativi estremi di seduzione con giovani istruttori d'equitazione per compensare il disinteresse sessuale che il marito, l'imperatore Francesco Giuseppe le sbatte in faccia in ogni modo, anche corteggiando poco più che bambine. In fondo le basta sentirsi ancora desiderata, finché anche questo non le basta più. E il doppio folle arriva anche per lei con la costruzione di una controfigura, che continui a perpetuare e a simulare la sua giovinezza, proprio come in "Fedora" capolavoro assoluto di Billy Wilder, dove Marthe Keller sorta di Greta Garbo si faceva sostituire dalla figlia sosia. Il film stupefacente di Marie Kreutzer è formalmente sublime come "Ludwig" di Luchino Visconti (dove Sissi era interpretata proprio da un'immensa Romy Schneider, ormai lontanissima dalla serie mediocre dell'imperatrice d'Austria che la rese celebre in gioventù), ma è anche cupamente e follemente femminile come un film in costume di Jane Campion, da "Lezioni di piano" a "Bright Star". Andando alla radice della follia prodotta da un ruolo costrittivo, come quel corsetto mai troppo stretto per apparire più magra, giu' fino in fondo, persino con l'attrazione per i manicomi e il suicidio. Visivamente sempre stratosferico il film evita qualsiasi estetismo, ricorrendo ad aggiornamenti scioccanti (un telefono, il cinematografo, un mocio vileda, le musiche contemporanee) come terapia d'urto ad una rappresentazione mai calligrafica. Che trova in quella meraviglia di attrice che è Vicky Krieps - di ruolo in ruolo sempre più bella, dolente, intensa, astratta, al punto da renderla proprio l'erede di Romy Schneider - un'incarnazione inquietante sfingea erotica e folle ad un tempo. Il premio come migliore attrice al Certain Regard di Cannes la rende, a mio avviso, l'unica possibile concorrente ai prossimi Oscar, di Cate Blanchett nel superlativo "Tar" visto a Venezia e nel 2023 sugli schermi italiani.
 (Carlo Confalonieri)

LES AMANDIERS (nella versione italiana "FOREVER YOUNG")
di Valeria Bruni Tedeschi - Conobbi Valeria Bruni Tedeschi nell'aprile 2011 dopo aver assistito al Teatro Strehler di Milano alla rappresentazione di "Reve d'automne" di Jon Fosse con la regia di Patrice Chereau, in cui sosteneva mirabilmente il ruolo della protagonista. Nella bella conversazione che ebbi dopo lo spettacolo mi parlò, fra le altre cose, proprio degli anni della sua formazione alla Scuola del Theatre des Armandiers di Nanterre diretto da Patrice Chereau. Ritrovarmi, undici anni dopo la sua narrazione verbale di quegli Anni, di fronte alla sua rappresentazione filmica degli stessi mi ha dato una doppia vertigine. Prima per la bellezza struggente del film, poi per un senso d' ingresso nella dimensione privata di una persona, prima narratami a voce poi mostratami per immagini. La sensazione avuta ora è identica a quella d'allora, di una confidenza. Esco per un attimo dall'esegesi del film, perché questa premessa mi è indispensabile per comunicare quanta verità ho colto in questo film meraviglioso. La verità di un'artista che si narra al suo pubblico, con la stessa spontaneità con cui lo fece con un suo ammiratore. Senza filtri. Basta già la veste formale straordinaria, fra documentario e diario intimo, affidata alla fotografia di Julien Poupard, per abbattere ogni barriera e confine fra vita e rappresentazione, non solo teatralcinematografica ma esistenziale tout court. Come se Bruni Tedeschi si mettesse totalmente a nudo, o ancor peggio (o meglio) si levasse la pelle per arrivare al ricordo come anima. Fonte vitale del vivere, motore dell'esistenza di oggi costruita su quella di ieri. E quella dei "Les Amandiers "- che negli Anni 80 narrati dal film avevano circa vent'anni ed erano incendiati dal sacro fuoco della recitazione - è potentissima nella ricostruzione del film. Affresco corale di una gioventù spensierata, ispirata, devota all'arte e anche drammaticamente colpita da nuovi spettri chiamati Aids, Overdose, Chernobyl. Bruni Tedeschi firma in modo assolutamente autoriale (si pensa ad Assayas, Desplechin, soprattutto a Mia Hansen-Love, di cui "Les Amandiers a tratti riprende quel bellissimo memoir tossico che è "Tous est pardonne") il suo "The way we were" pieno di riferimenti autobiografici, ma soprattutto universalmente psicologici della mia generazione, in parte perduta, in parte salvata, comunque elaborata ed elaboratasi su un approccio culturale e sentimentale oggi totalmente scomparso nei fatti, nel concreto, nel quotidiano. Non in questo film splendido, autenticamente vitale e commovente, minuzioso nei sentimenti e nei pensieri come un racconto di Cechov. Quel Cechov che Chereu portò in scena col suo turbine geniale proprio con "Platonov", interpretato proprio da quei giovani allievi della Scuola del suo Theatre des Amandiers. Valorosi angeli in volo, alcuni feriti, alcuni caduti, alcuni sopravvissuti per narrarsi e per narrarli. Proustianamente. 
 (Carlo Confalonieri)

TRIANGLE OF SADNESS di Ruben Ostlund - Di quanti capolavori si nutre il capolavoro- seconda palma d'oro (dopo "The Square) - di Ruben Ostlund? Molti. "E la nave va " di Federico Fellini, "Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto" di Lina Wertmuller, "Un film parlato" di Manoel de Oliveira, "La grande abbuffata" e "Il seme dell'uomo" di Marco Ferreri, "La selva dei dannati","Il fascino discreto della borghesia" e "Il fantasma della libertà" di Luis Bunuel. Per apprezzare fino in fondo l'operazione di rivisitazione pop del Cinema, della Cultura e del contesto sociopoliticoeconomico del Novecento - nello stile assolutamente perfetto, elaborato, attento ad ogni dettaglio di cui è invasa o spogliata ogni inquadratura di Ostlund - penso vadano visti tutti. Non è invece necessario leggere "Il Capitale" di Karl Marx perché il senso classista poggiato sul denaro è chiarissimo ed evidente. Perche' questo film bellissimo e definitivo su un'epoca storica, di cui stiamo vivendo gli strascichi disastrosi, è sì ideologico ma in modo visivo. Trasformando come vuole il grandissimo Cinema le idee in immagini. Per questo occorre conoscerne le origini, per apprezzarne fino in fondo la rielaborazione, che Ostlund da profondissimo conoscitore del Cinema, sfoggia con una disinvoltura trascinante e personalissima, estetica e psicologica. Quest'ultima basata su quella triangolazione facciale dell'essere umano, situata davanti al lobo frontale del cervello. Quello delle emozioni, dei sentimenti, della morale, che pare - nell'affondo satirico fino al sadismo di Ostlund - essere geneticamente mutata per fattori esterni, quali il denaro, la materia, il lusso. Tutti concentrati e suddivisi non a caso in tre capitoli-specchio, sulle relazioni umane. Che dalla superficialità di una coppia di modelli influencer devastati dall'ossessione per la fama e il denaro (1 Carl e Yaya), passa alla crociera sullo yacht ( 2 Lo Yacht) miliardario per miliardari, dove si vomita letteralmente tutta la materia accumulata in forma di cibo, succhi gastrici e feci ("vendo merda" dichiara l'oligarca russo al capitano della nave americano marxista e alcolizzato), fino al naufragio totale (3 L'isola) dove si gioca la partita finale e il ribaltamento classista con i servi che dominano i padroni, li ricattano persino sessualmente per sfamarli, li tengono in pugno anche con la morte (ma quella dell'asino ucciso per fame appare più crudele di quella di un influencer che non serve a nulla). Un'opera summa soprattutto da vedere e da godere (si ride amaro, ma come accadeva per la grande Lina Wertmuller si ride tantissimo) e poi, se ancora ci riesce di formulare un pensiero in quest'epoca che il pensare lo nega, da pensare e ripensare, da pensare e ripensare, da pensare e ripensare… Monumentale. 
 (Carlo Confalonieri)

LA NOTTE DEL 12
di Dominik Moll - Un noir bellissimo, un polar avvincente, un thriller ricostruttivo. Soprattutto una porta su uno scenario cupo, torbido, disumano che si apre e non si chiude più. Quello della barbara uccisione di una giovane donna bruciata viva. Un delitto che diventa atto immorale, perturbante, ossessionante la mette di Yohan (Bastien Bouillon di convincente introspezione) giovane capitano di polizia di un paesino francese di montagna, che svolge l'indagine interrogando i molti uomini di Clara. Nessuno la amava, era solo sesso anche brutale. Allora il suo rogo era meritato? Questo il pensiero subdolo e giudicante che si insinua in un caso di femminicidio narrato da Pauline Guena nel suo libro inchiesta "18.3-Un annee a la P.J", da cui Dominik Moll ha tratto il film che lo conferma - dopo l'ottimo recente "Only the animals" - autore  maiuscolo di inquietudini all'ombra di delitti dell'anima oltre che del corpo. L'ambientazione poliziesca nell'ambito di una squadra investigativa rimanda al magnifico "L.627" di Bertrand Tavernier, alle linee geometriche della ricerca della verità, che Moll spezza in continuazione creando una suspense, che da basata sui fatti diventa puramente psicologica per non dire patologica, contaminando tutto e tutti, poliziotti sospettati vittime e carnefici. In un vero e proprio carnage oscuro, dove tutti mettono le proprie nevrosi e vi si rispecchiano. La metafora visiva di Yoahn che corre in bicicletta girando in tondo in un velodromo, rende la claustrofobia di un enigma da cui non si esce e che inchioda nell'ossessione. Clara la donna del peccato, la sfinge ricoperta di fango, la vittima che meritava quella fine? Domande orribili a cui Marceu (grande Bouli Lanners) il collega devastato dai propri fallimenti personali e coniugali risponde con una considerazione che fa paura: fra gli uomini e le donne c'è qualcosa che non funziona, gettando così un'ombra ulteriore in un caso inesplicabile. L'ambientazione spoglia, esaltata dalla fotografia sporca e anch'essa  molto autoriale di Patrick Ghiringhelli, che trasforma interni ed esterni in un unico scenario asfissiante, rende i luoghi come assenze. Dove manca qualcosa, non solo una certezza o una risposta, soprattutto un appiglio per non sprofondare. Nel girone infernale del lato ombra, scatenato senza possibilità di salvezza né di ritorno. Solo i versi di Verlaine "Dans le vieux parc solitarie et glacé/Deux formes ont tout a l'heure passé" evocono a un tratto gli spiriti, i fantasmi che si aggirano fra poliziotti, assassini, vittime, morti tra i vivi per perseguitarli, come dira' la giovane allieva della squadra investigativa (Mouna Soualem, notevole). Rispolverati dopo anni dal delitto da una procuratrice (Anouk Grinberg magnifica ed enigmatica come in "Trompherie" di Desplechin) da sotto pile di pratiche di delitti irrisolti, sepolti come le loro vittime da quell'ombra profonda, impenetrabile dell'animo umano e/o disumano.Festival di Cannes 2022.  Imperdibile - il  miglior film in circolazione.  (Carlo Confalonieri)

MAIGRET di Patrice Leconte - Oltre 30 anni dopo il suo capolavoro " Monsieur Here" , Patrice Leconte ritorna a Georges Simenon. Di nuovo con un film ossessione, dove un'indagine del Commissario Maigret ("Il Commissario Maigret e la giovane morta") si trasforma in un incubo privato del più celebre personaggio di Simenon. La morte violenta di una fanciulla finita in giri poco puliti (si pensa a "Dalia nera" di James Ellroy) è sì l'oggetto di un'indagine da parte di Maigret, ma è anche il suo requiem per le precarie condizioni di salute fisica e per le derive della sua psiche minata dal lutto di una figlia (come Simenon). Leconte è un regista malinconico e introspettivo, capace di celare ossessioni patologiche dietro apparenti armonie (" Il marito della parrucchiera") nonché di giocare sottilmente coi trasformismi dei personaggi ("Confidenze troppo intime"). Senza troppo dire ne' svelare, anzi tacere suggerire nascondere ellitticamente. Questo suo "Maigret" è un concentrato di tutte le sue qualità, in primis quella di seguire e perseguire un'idea, una traccia ossessiva, persino omaggiando l'Hitch di "Vertigo" in una sequenza di metamorfosi, ai confini del patologico, nei confronti di un'altra ragazza somigliante alla vittima. Il volto e il corpo di un magistrale Gerard Depardieu incarnano il lutto, un antico dolore e la prospettiva accettata della morte in un ghigno granitico, in un incedere stanco provato esperto della vita. Tra le brume grige della fotografia sublime di Yves Angelo, così simile a quella (sempre sua) di "Un cuore in inverno" di Claude Sautet, in cui raggelo' un altrettanto crepuscolare ingorgo di passioni. Perche' questo bellissimo "Maigret" di Leconte rivela dietro la trama gialla, l'incendio delle passioni in molte loro declinazioni. Non accese, non spente, semplicemente bloccate nella nebbia del ricordo.

ESTERNO NOTTE PARTE 2
- TRE DONNE, come nel capolavoro assoluto di Robert Altman, uno dei più grandi film onirici, che ha segnato la mia vita. Ma tre donne sono anche le tre sorelle di SUSSURRI E GRIDA, apice sublime di Ingmar Bergman. Anche ESTERNO NOTTE PARTE 2, dopo il girone di pazzi, nevrotici e psicotici della PARTE 1, tutti uomini, svolta nella PARTE 2 verso un universo femminile di pura follia, lucida o offuscata non importa, tutta muliebre. E sceglie simbolicamente proprio tre donne metafora, affidate a tre attrici immense. 1) Adriana Faranda (Daniela Marra, che ricordo già bravissima e scorticata ne LA TERRA DEI SANTI di Fernando Muraca) rappresenta, dopo la psicosi politica della PARTE 1, la psicosi rivoluzionaria della PARTE 2. Le Brigate Rosse viste come un pugno di folli avulsi dalla realtà, totalmente autistici al punto di non accorgersi della vita attorno a loro, in una scena di potenza inaudita in cui dibattono di rivoluzione in una piazza affollata. Senza nemmeno accorgersi della miseria, degli scippi, dello sfacelo che li circonda. Quattro gatti impazziti che persino ammettono di non poter fare la rivoluzione, mentre fantasticano di farla. Con Faranda - furia mitologico archetipica - che, in una scena da Bellocchio totale, corre nei corridoi di casa impazzita di gioia alla notizia della strage e del sequestro di Via Fani. Puro delirio dinamico, come l'indimenticabile marcia 'sacrale' di Isabelle Huppert ne LA BELLA ADDORMENTATA. Sognando poi i cadaveri dei politici trascinati da un fiume, mentre lei guarda dalla riva - impotente e femmina folle come Gene Tierney in LEAVE HER TO HEAVEN - per non averli uccisi lei. 2) Eleonora Moro (Margherita Buy, sublime, mai vista cosi espressiva solo con gli occhi) metafora della nevrosi della famiglia cattolica, dove non si parla, non si comunica, ma si confessa al confessore la propria infelicità matrimoniale e gli si chiede l'assoluzione mentre tutta Roma è solcata dagli elicotteri dopo la strage di Via Fani, vista da un altro punto di vista, in un'altra location, con uno spostamento di prospettiva magistrale. Noretta che caccia fuori i politici da casa, venuti in finte lacrime a consolarla, dicendo 'vuole farsi consolare lei...vada'. Noretta che dice ai figli che bisogna capire e perdonare i rapitori del loro padre, perché loro (i Moro) sono credenti. Noretta nevrotica nella scissione dei valori, ma di certo l'unica che nella rappresentazione bellocchiana ha una qualche dignità e che non varca il confine che da nevrosi diventa psicosi. 3) La madre superiora della grandissima Federica Fracassi, la nostra più grande attrice di Teatro, di nuovo patologicamente inarrivabile, simbolo della psicosi della Chiesa. Non tanto lei, che vede davvero, quanto la concezione di visionarietà accetta dal sistema ecclesiastico. Lei vede davvero infatti, e denuncia come avesse assistito a un miracolo il via vai sotto il suo convento, a cui assiste salendo sul W.C. (e qui l'unghiata sarcastica di Bellocchio nei confronti della religione e delle sue 'ore' è fenomenale). Fracassi, che già portò in scena una 'santa' uscita dalla penna maestra di Antonio Moresco, con poche scene importantissime disegna un delirio religioso, che delirio non è e si rivela Cinema tout court. Siglando NEL NOME DELLA MADRE questo capolavoro assoluto da vedere assolutamente al Cinema, perché del Cinema è essenza, metafora e simbolo in tutta la sua potenza psicanalitica.
  (Carlo Confalonieri)

LA DOPPIA VITA DI MADELEINE COLLINS
di Antoine Barraud (Giornate degli Autori Venezia 78) - In una delle sue identità Virginie Efira-ormai nuova  luminosa e seducente star del Cinema Francese (SYBIL, ADIEU LES CONS, BENEDETTA e in uscita LUI e EN ATTENDANT BOJANGLES) - non poteva non chiamarsi Madeleine, come Kim Novak in VERTIGO. Hitchcockianissimo, il nuovo film di Antoine Barraud (suo LE DOS ROUGE sagace ritratto del mondo dell'arte con Jeanne Balibar e il regista  Bertrand Bonello in veste d'attore) narra di una DONNA CHE VISSE DUE VOLTE dalla parte di lei. Quindi non dalla parte di James Stewart, ma di Kim Novak. Judith in Francia ha un marito famoso direttore d'orchestra e due figli (uno èThomas Gioria il magnifico giovane attore di L'AFFIDO e ADORAZIONE). In Svizzera un compagno e una figlia di 3 anni. La realtà qual'è? Un castello di carte identitario che prende il via dal sublime piano sequenza iniziale, dove una giovane donna anch'ella bionda come Virginie Efira e altrettanto bella si aggira per un elegante atelier in cerca di un abito, finché le accade qualcosa di irreparabile. Da lì è thriller esistenziale-Hitchcock, De Palma, Cronenberg - con Judith che mente dicendosi in viaggio come traduttrice, in realtà continuando la spola fra Parigi e Ginevra fra due identità e due famiglie. Dopo Bonello, Barraud coinvolge altri due registi come attori, Valerie Donzelli e il grande israeliano Navid Lapid di SINONIMES nel ruolo di un falsario. Nonche' la sempre splendida Jaqueline Bisset del mitico EFFETTO NOTTE di Francois Truffaut. Non è un caso. Barraud dopo un film sull'arte, realizza un film sulla quintessenza del Cinema come arte dell'illusione e dello sdoppiamento. E attraverso la via secondaria del thriller, entra nei meandri del nostro proiettarci sullo schermo immaginando personaggi e altre personalità. Il risultato è spiazzante, frenetico (Polanskianamente FRANTIC) inarrestabile, facendo a pezzi ogni certezza visiva costruita sullo splendore della Efira. Conducendoci nei meandri più oscuri della follia di chi non sa più chi è. Travolto dall'irrazionalita' dei sentimenti, sempre più lontano dalla ragione. Lo psyco thriller più Cinematografico, autoriale, frantumato e compatto che si possa oggi immaginare, lontano mille anni luce dalle serie pseudogialle abortite dalle solite vomitevoli piattaforme. Per chi ama e amerà sempre e solo il Cinema. Non a caso il mio 'colpo al Cuore' dell'ultima Mostra del Cinema di Venezia.
  (Carlo Confalonieri)

ONLY THE ANIMALS Storie di spiriti amanti
di Dominik Moll - Claude Chabrol aleggia maestoso dal principio alla fine del nuovo labirintico thriller esistenziale del francese Dominik Moll, tratto dal romanzo di Colin Niels. La provincia francese innevata del Lozere, la borghesia a contatto con le sue pulsioni oscure, i segreti inconfessabili  di vite ai margini. Da IL TAGLIAGOLE a IL COLORE DELLA MENZOGNA (dove recitava guarda caso una giovane Valeria Bruni Tedeschi) la lezione chabroliana influenza il film di Moll, che però resta molto personale, complicato e morboso com'è nel suo stile (HARRY UN AMICO VERO, DUE VOLTE LEI).  Avanti e indietro nel tempo limitato di qualche giorno, si intrecciano vite apparentemente slegate fra loro. Alice, assistente sociale insoddisfatta in un matrimonio sterile ha come amante un assistito problematico. Suo marito intreccia amori fasulli sulle chat. Evelyn Ducas affascinante signora borghese (splendida Bruni Tedeschi per la terza volta in un ruolo omosessuale) annoiata dal marito, intreccia una torrida relazione con una  cameriera di vent'anni più giovane e poi scompare nel nulla. Fili invisibili, piste che inaspettatamente s'intrecciano, indizi inquietanti e lontanissimi (finiamo in Costa d'Avorio ma non rivelo perché) per risolvere un enigma, ma soprattutto per far luce su un paesaggio umano disperato per l'assenza e la simulazione dell'amore. Tutto sotto ghiaccio, sepolto dalla neve, con le passioni implose e la  violenza esplosa. Diviso in capitoli che, focalizzando i personaggi uno a uno, fanno ordine in un caos passionale e sessuale, lucidamente esplicato fra sperimentazioni carnali e virtuali. Che non colmano il vuoto di un panorama umano di assoluta incapacità di amare davvero. Film di enormi incomunicabilità, che disegnano il nostro vivere come un thriller senza senso. Invece molto significante nei suoi tormenti e nelle sue incolmabili insoddisfazioni. Il cast è da urlo col meglio del Cinema Francese di oggi. A parte la fuoriclasse Bruni Tedeschi, che ha raggiunto un'espressività irraggiungibile e audace, si rubano con equilibrio la scena tre assi assoluti: Denis Menochet, Laure Calamy, Damien Bonnard. Da vedere assolutamente!   (Carlo Confalonieri)

ESTERNO NOTTE PARTE 1
di Marco Bellocchio - In una delle prime sequenze della prima parte del magnifico sontuoso affresco -grondante disagio e finzione del vivere da ogni fotogramma firmato da Marco Bellocchio sul rapimento Moro, appare il manifesto di un film che amo alla follia e che parla di follia.  E' ANIMA PERSA capolavoro gotico di Dino Risi tratto da Giovanni Arpino con Gassman e Deneuve. Compare di sfondo all'assalto da parte dei manifestanti di sinistra ad un'armeria. A mio avviso non è scenografico, né casuale, ma una precisa dichiarazione d'intenti. Perche' ESTERNO NOTTE PARTE 1 è un grande balletto macabro di anime perse, un girone di folli, psicopatici, nevrotici, bipolari, masochisti e in varia misura malati di mente. Tutti sdoppiati: politici, papi, segretari di partito, prelati, mariti, mogli, preti di vario rango, brigatisti. Nessuno è se stesso, ciascuno ha assunto un ruolo devastante per la psiche, terminale per uno straccio di salute mentale. Roma vista come un grande manicomio a cielo aperto, con tanti reparti: dal Parlamento, al Vaticano, dai Tribunali alle case borghesi dove regna l'infelicità e l'incomunicabilità. Insonnie, visioni distorte di sé, simulacri di integrità. Nessun dialogo. Prega dice la moglie a Moro, stringi dice il Papa al suo segretario mentre gli mette il cilicio. Moro vaga in un incubo con una Croce sulle spalle nella processione del Venerdì Santo sulla musica terrificante del magnifico Requiem di Verdi. Mai vista una tale concentrazione di follia, quasi una summa del Cinema psichiatrico di Bellocchio, immediatamente da accostare al suo Capolavoro sulla follia: SALTO NEL VUOTO.  ESTERNO NOTTE PARTE 1 ovvero le prime 2 ore e 40 di quella che sarebbe una serie, mentre è a giudicare dalla prima tranche un tortuoso morboso thriller psicanalitico, che si segue col fiato sospeso tra mostruosità psicosomatiche e bestiari umani-horror visivamente degni de LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO di Dreyer. Potrebbe entrare da un momento all'altro la Bette Davies del periodo horror al posto della Buy nei panni di Eleonora Moro e non ti stupiresti. Tanto che Gifuni /Moro ha gli occhi infossati come un Dracula esangue e Fausto Russo Alesi, strepitoro Cossiga, pare un internato da camicia di forza. Totalmente visionario e potentissimo, ESTERNO NOTTE 1 è un nuovo IL TRADITORE per dinamicità elettrizzante.  Un Bellocchio grandissimo, non traditore ma fedele a se stesso in tutto per tutto, fino all'ultimo respiro cinematografico. Grandioso!!!

UN EROE
di Asghar Farhadi - Kafka e il De Sica di LADRI DI BICICLETTE si intrecciano nel nuovo thriller sociale e morale di Asghar Farhadi. Perche' proprio di thriller si tratta, quando il maestro iraniano innesca nella realtà del suo paese (ma gli è riuscito anche nella Francia de IL PASSATO e nella Spagna di TUTTI LO SANNO) un meccanismo tortuoso, che copre la verità fino a renderla irriconoscibile, indimostrabile, colpevolizzante anche quando non lo è. Alle prese con l'Iran come in questo caso, subentra anche la descrizione scivolosa di un tessuto sociale e politico dominato da una burocrazia farragginosa, da regole e leggi assurde (come avvenne in quel capolavoro che è UNA SEPARAZIONE). Rahim Soltani - un povero diavolo incarcerato per non aver potuto onorare, perché truffato dal socio, un debito - durante un permesso si trova tra le mani una borsa d'oro che potrebbe risolvere i suoi problemi. Decide di restituirla. Sara' eroe per un giorno, finché farà comodo al sistema carcerario macchiato da troppi suicidi. Ma poi tutto gli si ritorce contro, come in incubo kafkiano che prende i contorni di un giallo, dove Rahim come il personaggio di LADRI DI BICICLETTE (anche lui ha un bimbo al seguito che, bloccato dalla balbuzie, parla e strazia con gli occhi come quello indimenticabile del film di De Sica) si dibatte tra speranza e disperazione sempre con dignità. Lo strazio procede implacabile, con un incastro quasi Hitchcockiano, che come in IO CONFESSO non permette alla verità di venire a galla e pure nel momento in cui affiora diventa un'arma a doppio taglio. Amir Jadidi bravissimo costruisce un Rahim immutabile dal principio alla fine, sempre con quel sorriso di fronte alla sua Via Crucis, martire della società, dei media (anche in Iran tecnologia equivale a follia), del sistema carcerario, persino di se stesso. Vittima sacrificale su cui il sistema Iran espia le proprie colpe, i propri torti, i propri abusi. In questo Farhadi è assolutanente spietato come sempre, demolendo la facciata di un paese che erge l'ipocrisia a sistema burocratico, illegale e di vita. Fino a contaminare tutto persino gli affetti. Che però nel magistrale piano sequenza finale, si affacciano sul buio come una luce di speranza. Gran Premio della Giuria meritatissimo al Festival di Cannes.  (Carlo Confalonieri)

NOWHERE SPECIAL di Uberto Pasolini - Due film bellissimi sulla morte firmati da Uberto Pasolini, nipote di Luchino Visconti, raffinato e personalissimo regista produttore sceneggiatore italiano artisticamente trapiantato nei paesi anglosassoni: STILL LIFE con un grande Eddie Marsan (2013) sul dopo e ora NOWHERE SPECIAL con il bravissimo affascinante James Norton e il piccolo Daniel Lamont, entrambi prodigiosi, sul prima. John lavavetri 33enne di Belfast sta per morire. Con le assistenti sociali gira varie possibili famiglie (ma la scelta sarà sorprendente e stupendamente anti-famigliare in senso tradizionale) a cui affidare il piccolo Michael di 4 anni, senza madre andatasene via e senza alcun famigliare sostitutivo. Girano insieme in questa scelta dolorosa, passano il tempo a casa a preparare ricordi o per strada a camminare insieme, mano nella mano verso l'ignoto più cupo. Sempre col sorriso. Ed ecco di nuovo il tocco meraviglioso, l'Uberto Pasolini Touch capace di rendere per immagini sentimenti indicibili, senza retorica, con sintesi maestra, quasi con rigore fotografico che stringe sui personaggi con un senso dell'inquadratura perfetto e naturale. Lontano da retoriche, vuote commozioni, sempre centrato, di intensità profonda, poetica e realistica. Un po' AMANDA, altro magnifico film di Michael Hers su un lutto a carico dell'infanzia, un po' LADRI DI BICICLETTE, per quegli occhi che si incontrano senza parole fra padre e figlio e le loro mani che si intrecciano. Quasi impossibili da narrare oltre, a parole.   E' stupendo e triste, triste e stupendo. Va visto!  (Carlo Confalonieri)

È STATA LA MANO DI DIO di Paolo Sorrentino - Napoli dolente, folle e bella come zia Patrizia (Luisa Ranieri meravigliosa) che vede San Gennaro e il Monachello, come proiezioni della sua follia, sofferenza e diversità. Il Monachello, alla fine di uno dei viaggi più tristi dolorosi e conoscitivi, lo vedrà pure Fabietto (Filippo Scotti grande rivelazione) alter ego di Paolo Sorrentino, nel momento in cui la sua 'follia' creativa - il desiderio di diventare regista cinematografico - lo salverà dall'orrore della vita, che gli ha riservato in adolescenza la più terribile delle disgrazie. Come in uno dei giochi di prestigio da giocoliera o in uno dei suoi scherzi telefonici, la madre lo abbandonerà infatti insieme al padre entrambi amatissimi, - hanno le fattezze dolci e rassicuranti degli splendidi Toni Servillo e Teresa Saponangelo - per una fuga di gas, che addormenterà entrambi per sempre come in una fiaba. Che all'inizio è fatata come una gita in campagna o un giro in barca, ma poi diventa nera, come la notte in un pronto soccorso dove nessuno dei medici trova il coraggio di dire a Fabietto e al fratello, orfani, la verità. Dall'abbandono, dal vuoto, dalla mancanza di figure di riferimento genitoriali a un incubo bunueliano, dove persino la Baronessa vicina di casa (Betti Pedrazzi immensa attrice napoletana) si trasforma in una virago nave scuola, in una scena di alta mostruosità, Maradona viene invocato, dal monumentale Renato Carpentieri, come salvatore nella tragedia. Siamo tra Polanski e Bunuel, Fellini si intravede sul set di un provino di mostri, Antonio Capuano bravo regista napoletano è un fantasma acquatico e inquietante. AMARCORD non c'entra nulla, lo rifece Woody Allen in RADIO DAYS, ma Sorrentino piuttosto - se proprio si vuol citare Fellini - guarda a I VITELLONI. Perche' il suo film, bellissimo e tristissimo, non parla dell'incanto della memoria, bensì della formazione del dolore. Di cui è così pervaso da rendere un abbraccio tra due fratelli una sorta di pietà Michelangiolesca a Stromboli o la visita alla zia Patrizia in manicomio, un momento di cognizione del dolore, altrui e proprio. Quel dolore che eleva la vita a gioia vera, perché la fa conoscere davvero e che trasfigura la memoria di Sorrentino in un memorabile, intimo, trattenuto (nulla a che fare anche stilisticamente con LA GRANDE BELLEZZA) sublime canto dell'anima, come quei due fischi con cui comunicano senza parole quei genitori che non ci sono più e che ci sono stati troppo poco. Lasciando solo Fabietto/Sorrentino, ma anche libero di tentare di sognare col Cinema. Follia salvifica che può fargli vedere il Monachello salvatore, proprio come zia Patrizia che scelse alla realtà crudele il manicomio. Sontuosamente e semplicemente straziante. (Carlo Confalonieri)

IL POTERE DEL CANE di Jane Campion - Fino a ieri i due grandi capolavori sull'omosessualità repressa che diventa omofobia erano RIFLESSI  IN UN OCCHIO D'ORO di John Huston e TOM A LA FERME di Xavier Dolan. Oggi si aggiunge il film magistrale che Jane Campion ha tratto dal romanzo omonimo di Thomas Savage. Un affondo visionario, morboso, torbido e sensuale nella mente di un cowboy del Montana Anni 20, schiavo del mito virile e machista, ma nel profondo segnato da un'attrazione verso il proprio sesso. Che dal ricordo del suo cavaliere mentore e probabile amante defunto (con la cui sciarpa fa l'amore come ne L'APRES MIDI D'UN FAUNE, in una scena di una potenza erotica come solo la Campion può girare come ai tempi di LEZIONI DI PIANO), passa all'attrazione/odio per il figlio della moglie del fratello, efebico e sensibile all'apparenza, in verità forte  intelligente e coraggioso nell'animo. Sara' lui a ripulire il mondo da quell'obbrobrio vivente che lo perseguita, insieme alla madre. Uno con l'omofobia, l'altra con la misoginia. Jane Campion filma da genio del Cinema qual'è, gettando ombre ovunque e segnali sessuali latenti dove non ti aspetteresti. Disegna  un'altra figura femminile potentissima come ai tempi di LEZIONI DI PIANO, minacciata da un maschile orrendo e grezzo che ne nega il potenziale umano e la spinge a bere. Così come la dolcezza del figlio diventa un bersaglio per il cognato patologico. Solo l'occhio visionario e trasformativo della Campion poteva inventare un nuovo west e un nuovo western che diventa un thriller hitchcockiano così come TOM A LA FERME. I personaggi affidati ad attori superlativi sono simboli del male (Benedict Cumberbacht), del bene (Kirsten Dunst), dell'ambiguità fra i due (Kodi Smeet McPee). E come in una tragedia Greca all'ombra di praterie come deserti (gialli, ma come quelli Antonioniani, rossi per la nevrosi devastante), si consuma la lotta fra sane pulsioni inconsce e la ragione malata che le rifiuta, come hanno fatto i senatori che hanno bloccato il DDL ZAN lasciando la società che avanza ai pali di un DESERTO ROSSO. Da vedere per dimensione visiva solo e unicamente al Cinema, a meno che non si voglia vedere la copia distorta di un Capolavoro. (Carlo Confalonieri)

UN ANNO CON SALINGER di Philippe Falardeau - New York 1995 isola intellettuale così ben descritta da Woody Allen in MANHATTAN del 1979.Vi approda Joanna(nella realtà Joanna Rakoff autrice del romanzo da cui il film è tratto) aspirante scrittrice e poetessa. Per avvicinarsi al mondo letterario diventa segretaria dell'inflessibile e sofisticata agente letterario Margaret. In realtà così si allontana ,perché non solo Margaret non assume scrittori (e Joanna mente, ancor prima a se stessa), ma le affida il compito di filtrare (ovvero leggerla, rispondere con un modulo standard e infine buttarla) la corrispondenza destinata al suo cliente più celebre, il J.D.Salinger de IL GIOVANE HOLDEN, lo scrittore più schivo e misterioso d'America. Il film del bravo regista canadese Philippe Falardeau - che apprezzammo per il delicato e sottile MONSIEUR LAZHAR - poteva esaurirsi in altre mani nel solito match fra 'apprendista' (Joanna che ha lo sguardo fiero dell'ottima Margaret Qualley rivelata da Tarantino in C'ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD) e 'stregone' (l'altera Margaret della sempre superlativa Sigourney Weaver). Invece via via diventa tutt'altro: uno studio sulla distanza fra l'artista e l'uomo. Uno spazio a volte incolmabile, se non dal mito come nel caso dell"irraggiungibile Salinger. Lo capirà a sue spese Joanna che tenterà di rispondere personalmente ai fans di Salinger, tentando così di colmare quella distanza. Cosa sbagliata perché un conto è l'uomo e un conto l'artista le cui opere diventano proprietà dell'umanità, ma non deve esserlo la sua persona nel bene e nel male. Annullando però il mito dello scrittore dentro di sé, Joanna troverà se stessa come scrittrice vera e non come intermediaria col mito. Una grande verità che chi è un artista vero conosce, avendo lasciato la strada altrui comoda e 'mitologica', per la propria sofferta e umana. E nella scena fantastica e vertiginosa della danza nei corridoi del Waldorf Hotel, Falardeau non solo alza il film dalla mediocrità e dal deja-vu, ma lo porta improvvisamente in una dimensione profonda, dove le scelte diventano vocazione inconscia, che porteranno a perseguirla per tutta la vita. Anche in solitudine, al di là del successo e della fama, sempre effimeri di fronte al vero senso/scopo di una vita. Da vedere e da riflettere. (Carlo Confalonieri)

L'ARMINUTA di Giuseppe Bonito - Dal romanzo duro, poetico, bellissimo di Donatella Di Pietrantonio un film duro, poetico, bellissimo. Con dentro ad ogni immagine l'anima del premiatissimo romanzo. Ovvero la barbarie della famiglia più o meno legale e la verità invece dei sentimenti autentici. L'arminuta è la restituita, che a 13 anni viene riconsegnata dopo essere stata cresciuta fra gli agi di una famiglia di parenti, alla miserabile famiglia d'origine. L'Abruzzo borghese della famiglia putativa diventa di colpo quello ancestrale della FIGLIA DI IORIO di D'Annunzio e a ben guardare quello miserabile dell'Acitrezza de LA TERRA TREMA di Luchino Visconti. L'italiano della ragazzina viene così a contatto con silenzi pesanti come muri e una lingua incomprensibile (avrei tolto anche i pochi sottotitoli che ogni tanto appaiono). Le immagini parlano: soprusi, miseria nera, ignoranza, superstizione. Ma l'Arminuta che ha il volto dolcissimo e bello di Sofia Fiore, molto simile alla prima Dominique Sanda di COSÌ BELLA COSÌ DOLCE di Robert Bresson, troverà lo stesso la via della cultura grazie ai suoi meriti e all'affetto senza confini nè regole della sorellina minore Adriana, a cui la stupefacente piccola Carlotta Leonardis dà tocchi magnifici e ribelli del Truffaut de I 400 COLPI e I SOLDI IN TASCA. Il rapporto inscindibile fra le due sorelle diverse, ma legatissime da sangue e anima - che Pietrantonio svilupperà nel successivo mirabile BORGO SUD (sintetizzando una grande saga sororale che mette in ombra l'interminabile AMICA GENIALE dell'enigma Elena Ferrante) - si ferma nel film come nel libro in un'inscindibile promessa muta di eterno affetto, di fronte al mare e poi nell'acqua e alle sue profondità inconsce. Stupendo film italiano di un regista finalmente uscito a pieni voti dal ruolo di assistente dopo il rutilante FIGLI con Cortellesi e Mastandrea, cui pur provenendo da un romanzo non servono parole. Perché le immagini al Cinema le sostituiscono. E quel vestito da ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE della fanciulla precipitata in quell'incubo è già un'intima dichiarazione d'intenti, di come affrontare quel viaggio a ritroso nella memoria, nella negazione della cultura e dell'amore per ritrovarli tutti ancora più potenti e indispensabili per vivere. (Carlo Confalonieri)

TITANE di Julia Ducournau, Palma d'oro al Festival di Cannes - È la grande opera filosofica, sociopolitica, psicologica e religiosa del nostro tempo. In cui domina il corpo e la macchina (auto, computer, telefono ecc.). Lo spirito non è più previsto e senz'anima l'uomo non esiste più. Resta la carne generata da padri e madri che non trasmettono altro che quella. Il padre nella prima scena è colui che rimprovera la figlia recalcitrante, messa e dimenticata sul sedile posteriore. Ne segue un incidente, che porterà la piccola Alexia (da adulta Agathe Rousselle prodigiosa) in fin di vita, salvata con l'applicazione nel cranio di una placca di titanio. Uscita dall'ospedale non bacerà né il padre né la madre, perché è diventata definitivamente un oggetto negato da chi l'ha creata come materia senz'anima. Titanio è un metallo, ma Titani furono anche gli dei che si ribellarono al padre. Alexia lo fa prima diventando una donna che si esibisce in live show sessuali sulle auto, poi addirittura seppellendolo (in un incendio) come consigliano Freud e Jung, ma da macchina senz'anima (che uccide liberamente senza un padre interiore) va allo sbando. Julia Ducournau racconta col linguaggio dei sogni (ancor meglio degli incubi ) il folle viaggio di Alexia alla ricerca del padre che la accoglierà, la aiuterà a diventare donna e dar la vita a sua volta. Non importa se il padre putativo sarà un pompiere dal maschile ipertrofico gonfiato dagli anabolizzanti, anzi il suo maschile mostruoso verrà a sua volta corretto dal femminile mostruoso di Alexia, riequilibrando i ruoli del maschile e del femminile. Perché Alexia che si fingerà il figlio scomparso da 10 anni del pompiere per ricostruirsi un'identità, con quell'uomo diventerà davvero figlio poi figlia e poi madre, del figlio a sua volta concepito in un amplesso con un' automobile. Ducournau procede sempre su un piano simbolico, conferendo ad ogni immagine una retrolettura interpretativa e rendendo così il suo film classicamente e potentemente autoriale, come potrebbe essere un film di Bergman. Sentire il pompiere del magistrale Vincent Lindon difendere Alexia come intoccabile in quanto lui è Dio e lei/lui è Gesù Cristo introduce il tema dell'incarnazione, vero tabù dei nostri tempi, in cui esiste la carne, non l'anima incarnata. La carne che era anche al centro di RAW folgorante opera prima di Ducournau, carne priva di anima anche lì, oggetto di cannibalismo. Il suo Cinema si ammanta così di un alto profilo filosofico e religioso, che attraverso il linguaggio psicanalitico delle immagini fortissime che urlano per chiarezza e immediatezza non lascia dubbi interpretativi. È il Cinema dell'oggi, ma anche di ieri e forse del domani perchè in ogni tempo è forte la tentazione di negare l'evidenza dell'inconscio, della psiche intesa come anima. Oggi però non è più possibile, ce lo ha ricordato anche una pandemia che ha minato ogni certezza materiale. Il film girato durante essa, urla e si dibatte fino a ritrovare la strada dello spirito, dell'anima, del maschile e del femminile come poli centrali dentro ognuno di noi. Perchè non esiste ragione senza spirito, nè maschile senza femminile, nè padri nè madri senza figli anche se solo spirituali. TITANE rimette in moto sensi, emozioni, strati profondi, oltrepassa la materia con una furia titanica in una battaglia ambientata in ambienti quotidiani (altro notevolissimo pregio del Cinema non di fuga nel fantastico di Ducournau) per approdare a un puro misticismo pasolinianamente laico e religioso, persino attraverso l'uso finale de LA PASSIONE SECONDO SAN MATTEO di Bach, usata da Pasolini stesso nel suo immenso IL VANGELO SECONDO MATTEO. Quando l'uomo risorge dalla materia e si fa Dio, in terra in cielo e dentro di sé. Film chiave di questo secolo. (Carlo Confalonieri)

A CHIARA di Jonas Carpignano - Carmen Consoli sublime cantautrice siciliana, nel suo ultimo bellissimo album racconta che crescendo dovette rivolgere lo sguardo da un altra parte per non vedere gli orrori della mafia. Non riesce o meglio non vuole farlo Chiara,15enne di Gioia Tauro, felice e spensierata in apertura alla festa dei 18 anni della sorella Giulia. Una festa colorata debordante e kitsch tipica di una piccola borghesia di paese. Di lì a poco la sua vita cambia, prima con l'esplosione dell'auto del padre, poi con la fuga dello stesso come latitante per traffico di stupefacenti e collusione con l'ndrangheta. Jonas Carpignano dopo il magnifico A CIAMBRA sulla comunità rom, torna a Gioia Tauro seguendo da vicino la sua giovane protagonista, Swamy Rotolo, nei panni di Chiara. Tra finzione e semidocumentario con lo stile tutto suo, Carpignano si conferma Autore maiuscolo, vincendo peraltro per la seconda volta - dopo A CIAMBRA - la Quinzaine des Realisateurs del Festival di Cannes (ora è tempo di metterlo in concorso e magari assegnargli una Palma d'oro). Grandissimo occhio, racconta la voragine che si apre nella vita di Chiara, che indomita vuol sapere, conoscere cos'è successo al padre e quali segreti nasconde. E farà di tutto, fino a trascorrere una notte col padre latitante che le mostra il suo lavoro di smistamento degli stupefacenti, in una sequenza cinematografica di potenza assoluta in quanto equivalente a un rito di iniziazione al male. Un giudice del Tribunale dei minori che vuol sottrarre Chiara al suo destino segnato, spiega che l'ndrangheta si radica agendo sulle famiglie, attraverso una subdola trasmissione fra i suoi membri. Chiara dopo tanto cercare e capire, non ci starà e anche qui Carpignano riesce perfettamente nel suo intento di narrare un percorso di salvazione, sottraendosi agli affetti famigliari più amati ma tossici. In questo A CHIARA assume la statura di una Tragedia Greca, con la giovane protagonista bella e fiera come Antigone. Ritratta e inquadrata sempre da Carpignano come una creatura meravigliosa e dolente, sempre esteticamente bellissima, come sono belli il coraggio e la consapevolezza. Con un senso del Cinema personale, assoluto e travolgente, capace di passare da un tono all'altro in un crescendo di pura emozione visiva, sonora, sanguigna. Grandissimo Cinema, che toglie il fiato e che si può imparentare a MOUCHETTE di Bresson a ROSETTA dei Dardenne e ad Antoine Doinel de I 400 COLPI di Truffaut, rendendo monumentale lo sforzo adolescenziale di Chiara di crescere nel segno di una libertà negata dagli adulti.
MAGNIFICO MAGNIFICO MAGNIFICO !!! (Carlo Confalonieri)

FALLING - STORIA DI UN PADRE di Viggo Mortensen - Due maschili si fronteggiano titanicamente nel debutto alla regia di Viggo Mortensen, attore bravissimo, colto, autenticamente alternativo sia nel Cinema d'autore che in quello di genere. Il padre Willis ormai nel declino senile viene recuperato nella sua fattoria rurale dal figlio John, pilota d'aereo e portato in California dove vive col compagno asiatico Eric e la figlioletta adottiva. Willis è il peggio del maschile, quello mostruoso che non ammette altro che se stesso, quindi razzista, omofobo, intollerante. John al contrario è il maschile accogliente protettivo, capace di ascoltare e capire, quindi autenticamente virile. Laddove della virilità il padre è una patetica parodia, costruita su schemi come un castello di carta. Dai flashback apprendiamo che neppure il matrimonio di Willis rimase in piedi per la sue odiose intolleranze e incomprensioni nei confronti della moglie. E neppure una seconda relazione finì bene. FALLING come caduta, decadenza, fallimento del maschile tutto d'un pezzo e di quell'America che lo incarna da John Wayne a Trump. Mentre John è il maschile che regge la caduta, la fragilità della vita e ne esalta affetti e sentimenti, vivendo la sua omosessualità come un completamento del più solido maschile, Willis fa tutto a pezzi anche se stesso. Uno scontro cinematografico grazie all'andirivieni drammatico fra passato e presente, infanzia e maturità, maturità e vecchiaia. Ma anche superbamente teatrale, calibrato su ottimi dialoghi talora ferocissimi che potrebbero appartenere a una piece di Edward Albee tipo CHI HA PAURA DI VIRGINIA WOOLF? capostipite degli inferni domestici Usa. Come su ring al match finale si fronteggiano Viggo, anche magnifico interprete nel ruolo di John, un monumentale coriaceo Lance Henricksen nel ruolo del padre che da giovane ha il volto del bravo Sverrir Gudnason. La sorella anch'ella testimone della follia del padre, da adulta ha la dolcezza assoluta della meravigliosa Laura Linney spesso attrice per Clint Eastwood, al cui cinema questo film molto bello, maturo, equilibrato nella forma e tumultuoso nei contenuti si imparenta strettamente. (Carlo Confalonieri)

WELCOME VENICE di Andrea Segre - Come nell'indimenticabile TRE FRATELLI di Francesco Rosi   del 1981- con Placido, Noiret, Mezzogiorno, stupendi - ancora tre fratelli simbolo di pensieri e vite diversi, nel nuovo bellissimo film di Andrea Segre. Che torna dopo il magico IO SONO LI nella sua Venezia, corpo geografico e ancor prima motore psicologico e simbolico di tre approcci alla vita.  Alvise, Piero,Toni (Andrea Pennacchi, Paolo Pierobon, Roberto Citran, tutti bravissimi) eredi di una famiglia di pescatori di moeche (i granchi di laguna), han fatto scelte diverse. Alvise, l'arrivismo commerciale, Piero il radicarsi dopo un passato burrascoso alle radici e alle tradizioni di famiglia,Toni una mite dedizione alla famiglia. Centro della contesa, che esploderà poco a poco, la casa di famiglia alla Giudecca. Venderla e trasformarla in un B&B di charme per turisti distratti o tenerla così com'è e continuare a pescare. Dalla riunione iniziale di famiglia dove il nipotino di Piero canta "Nina tu te ricordi" in un momento di Cinema caldo e struggente, alla guerra fratricida tra chi lascia Venezia e chi non può DIMENTICARE VENEZIA, (titolo del capolavoro a torto dimenticato di Franco Brusati con Mariangela Melato e Erland Josephson). Film visivamente elegiaco e vibrante tra albe e scorci lagunari di immensa poesia resta di fondo amaro, crudele, spietato. E' un meraviglioso cast di attrici superlative di enorme espressività, guarda caso tutte arrivate dal Teatro (Ottavia  Piccolo, Giuliana Musso, Anna Bellato, Sandra Toffolati) nei ruoli di mogli, figlie, amiche a smussare gli angoli del maschile in conflitto, a dar mille sfumature, a interiorizzare la vicenda. Il film cresce a vista, ti prende e non ti molla più, adombrando la Tragedia Shakespeariana e la Commedia Umana di Carlo Goldoni (LE BARUFFE CHIOZZOTTE e IL CAMPIELLO negli allestimenti divini di Giorgio Strehler tornano alla memoria)  fino a un finale paurosamente surreale che piacerebbe a Polanski, Cronenberg e David Lynch. Il grande Cinema può tutto, anche fondere il più puro classicismo alla sperimentazione estrema, nel nome dell'uomo e della sua psiche simbolizzata artisticamente. Segre con WELCOME VENICE ci riesce, un appuntamento immancabile col VERO Cinema. (Carlo Confalonieri)

QUO VADIS, AIDA ? - Tragica magnifica ricostruzione degli ultimi giorni del conflitto della ex Jugoslavia, quando Srebrenica viene occupata dai serbi e i suoi cittadini bosniaci fuggono verso un fortino messo in piedi dai caschi blu olandesi inviati dall'Onu. Molti entreranno, molti resteranno fuori. Tutti in attesa dell'arrivo delle truppe serbe, che li condurranno sui camion verso uno dei più grandi genocidi che la Storia ricordi. Nella base Onu regna la più totale confusione, i caschi blu si mostrano inadeguati, la massa bosniaca si ritrova in una trappola organizzata. Nella babele di lingue, Aida insegnante bosniaca al Liceo di Srebrenica e moglie del preside assume il ruolo di interprete fra l'Onu, serbi e bosniaci. Il film splendido e terrificante della grande regista bosniaca Jasmila Zbanic - gia' premiata nel 2006 con l'Orso d'Oro alla Berlinale per IL SEGRETO DI ESMA - intreccia pubblico e privato attraverso la figura potentissima e altamente tragica di Aida, che percorre da un capo all'altro come un' anima in pena tutto il film, il suo spazio scenico immenso e claustrofobico insieme, alla ricerca di una salvezza per il suo popolo e per la sua famiglia. Per la quale cercherà anche favoritismi che si riveleranno inutili, perché la follia della guerra fratricida non guarda in faccia nessuno. Aida ha il volto dell'attrice immensa Jasna Djuricic, che guarda in macchina travolgendo l'obiettivo e proiettandosi nelle nostre anime di spettatori come fece Anna Magnani in ROMA CITTÀ APERTA di Rossellini o IRENE PAPAS in Z L'ORGIA DEL POTERE di Costa Gavras, due film a cui QUO VADIS AIDA? rimanda per il senso incombente e dinamico della ferita storica che si sta aprendo e che non si rimarginera' mai. Potentissimo, girato spesso con la macchina a mano che affianca Aida che corre come una furia e un'eroina biblica tra il fiume di gente che si riversa ovunque in cerca di scampo. Sara' carneficina programmata e non impedita con responsabilità anche dei Caschi Blu assolutamente inadeguati, con quei soldatini in bermuda vestiti come boy scout schiaffeggiati e presi a pugni dagli uomini di Mladic, il colonnello dell'esercito serbo responsabile del genocidio di Srebrenica, il cui culmine è suggerito. Poi la macchina da presa si sposta all'esterno dell'edificio dove si compie la carneficina, dove la vita si svolge ignara. In fondo le stragi non erano nemmeno lontane da noi, che continuavamo a vivere come nulla fosse. Il dopo sono le fosse comuni e la ricostruzione dei resti disseppelliti dagli esperti nella composizione dei cadaveri. Fra quegli scheletri si aggirerà ancora Aida, stavolta lenta fino a svenire dal dolore. Dovrà poi convivere, nelle città tornate serbo bosniache, con i carnefici di allora e il vedo-non vedo mimato dai bimbi alla recita finale è il grande horror storico, a cui Aida rivolgerà il suo sguardo finale immobile, impenetrabile. Aperto su un futuro costruito sullo sterminio insensato, che come fu per il nazifascismo ha lasciato molti carnefici in libertà pronti a riprodursi fino a oggi. Un grande grandissimo film che pare perdonare, ma non lo fa. In Concorso a VENEZIA 77 e Candidato all'OSCAR per il miglior film straniero. (Carlo Confalonieri)

SUPERNOVA - Quando alla fine del viaggio in camper,al termine del loro amore trentennale, Sam e Tusker arrivano alla meta è musica. Sam si esibirà in concerto al pianoforte nello splendido SALUT D'AMOUR di Edward Elgar, mentre Tusker afflitto da demenza precoce forse raggiungerà le stelle. Per tutto il tempo questo on the road sentimentale irradia la luce delle stelle nel cielo, che Sam e Tusker contemplano come il loro amore passato, presente e futuro. Che oscurato dalla malattia diventa un abbraccio, una protezione di un uomo verso un altro uomo, un saluto d'amore a chi non si vuole lasciare andare, ma che forse ha scelto di farlo.Harry MacQueen giovane attore e regista inglese è indubbiamente il nuovo Andrew Haigh, ormai acclamato nuovo maestro dei sentimenti omo e etero e anch'egli inglese (WEEK END, 45 ANNI, CHARLEY THOMPSON, tutti meravigliosi). Lo conferma il fatto che questo suo secondo film sia prodotto dallo stesso illuminato Tristan Goligher che ha prodotto i film di Haigh. Anche MacQueen mette insieme le relazioni (in questo caso quella amorosa e di vita di due compagni omosessuali) con un tocco assolutamente umano, scevro come in Haigh di ogni artificio e sensazionalismo. La vita che era, che è e sarà, null'altro, in attesa di destini e scelte (la malattia e i vari modi di affrontarla) con un coinvolgimento fortissimo osservato delicatamente al microscopio. Sguardi, silenzi ma soprattutto mani che si sfiorano, si stringono e corpi che si abbracciano e proteggono. Quelli di due attori magistrali, Colin Firth (Sam) e Stanley Tucci (Tusker), calati dalla luce del grande Dick Pope (l'operatore di Mike Leigh) in due persone buone e innamorate. Che hanno dato in silenzio l'esempio dell'amore a chi li circonda e dopo una vita insieme devono scegliere come 'suonare' il loro SALUT D'AMOUR. Malinconico, autunnale, proiettato oltre la vita verso il cielo e le stelle. (Carlo Confalonieri)

NOMADLAND - Il paesaggio dell'anima, il paesaggio della natura. Stessa cosa nella cifra visiva di Chloe' Zaho, che al terzo film dopo SONGS MY BROTHERS TAUGS MY (girato in una riserva Sioux) e THE RIDER (tra i rodei in Dakota Sud - di cui rimando la mia recensione del 2019), raggiunge la fusione totale fra cinepresa e interpreti ovvero Frances Mcdormand e i luoghi (come Antonioni in ZABRISKIE POINT o PROFESSIONE REPORTER). Luoghi come attori alla stregua di esseri viventi perché loro proiezioni interiori, ma ancor più loro sperimentazioni, moltiplicazioni geologiche di vissuti sentimenti memorie. Guardare attraverso un sasso bucato equivale a entrare in una dimensione tra vita e morte (come avveniva guardando nel buco della parete ne ‘LE SORELLE MACALUSO’ di Emma Dante). Perché quel sasso è appartenuto a una persona defunta, che non si abbandona ma si ricerca attraverso il viaggio.
In NOMADLAND tutti si sono messi in viaggio sui Van attraverso l'America. Non tanto perché il lavoro manca e lo cercano qua e là precariamente passando dai contratti flash di Amazon a quelli stagionali della raccolta di barbabietole. Perche' devono, vogliono viaggiare. NOMADLAND attenzione non è infatti un film sulla crisi economica Usa che ha reso molti senza casa. Fran/Frances Mcdormand precisa infatti di non essere una senzatetto, ma di non aver una casa. Perché dopo la morte del marito e la chiusura della fabbrica a Empire, piccolo centro che verrà cancellato dalle carte geografiche, Fran lascia tutto e parte. Perché la vita, la sua vita, è un viaggio e vuole riprenderlo. Quindi non è la Mona/Sandrine Bonnaire nichilista di SENZA TETTO NÉ LEGGE di Agnes Varda, né la Jiuliette Binoche de GLI AMANTI DEL PONT NEUF che va a fare la barbona sotto i ponti. A Fran - lo dice all'ufficio di collocamento - piace lavorare (frase ripetuta e fatta sua dalla Mcdormand alla consegna dell'Oscar come migliore attrice, meritatissimo per l'ulteriore perfezionamento granitico della sua arte recitativa). Fran nel viaggio diventa luce, pietra (le sue rughe lo mostrano ), alba, notte, orizzonte. E in questo film meraviglioso a cui non si può resistere, l'orizzonte è sempre davanti, dando un immenso senso di pace e serenità proprio di chi ha capito che la vita è proiettata verso la morte. E quindi va 'abitata' nei luoghi interiori ed esteriori che conducono ad essa nella libertà e nella consapevolezza spirituali. Luminoso e rasserenante, ora più che mai dopo tanto buio.
(Carlo Confalonieri)

VIVIANE - Tra i film, tutti belli e interessanti, proposti da Mio Cinema in una rassegna sul Nuovo Cinema Israeliano, svetta uno dei miei film del cuore, un'opera che al tempo (2014) amai moltissimo e che resta indelebile nella mia memoria. VIVIANE racconta un'aberrazione della legge israeliana, mostrando un processo in cui una donna per cinque lunghi anni (tra rinvii e ostacoli) cerca di ottenere il divorzio dal marito, dopo averlo lasciato per incomprensioni insanabili. Di fronte a un tribunale religioso, scopriremo infatti che una donna finchè il marito accetta il divorzio resta praticamente una reietta di fronte alla società, non potendosi rifare alcuna vita. La sua vita passata presente e futura è quindi nelle mani del marito, che deciderà a suo piacimento. Scandito dalle udienze ai limiti del grottesco, spesso riprese frontalmente in un'estetica che trasforma e muta l'aula di tribunale, VIVIANE ha la potenza di una sorta di moderna Via Crucis, riportando a tratti alla mente la spoglia essenzialità de LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO di Dreyer.  Primi piani, piani medi a macchina fissa, unità di luogo, eppure tutto ha una mobilità inarrestabile e travolgente, senza un attimo di calo. Potentissimo nella scrittura, nelle scelte registiche e nell'interpretazione davvero monumentale di un'attrice a mio avviso tra le più brave del Cinema moderno: Ronit Elkabetz, che qui firma la regia e la sceneggiatura insieme al fratello Shlomi Elkabetz.  Prematuramente scomparsa da qualche anno, buca come poche lo schermo con una chioma corvina e uno sguardo di brace pieno di fierezza o di sensualità (come si può vedere in un altro bel film della rassegna Mio Cinema LA BANDA di Eran Korilin), VIVIANE è tutto sulle sue spalle, una prova d'attrice grandiosa, fatta di sfumature che diventa anche una gran prova di donna.  Ribadisco che il film è assolutamente meraviglioso e merita la visione. (Carlo Confalonieri)

IMPREVISTI DIGITALI - Spesso l'osservazione della società in cui viviamo, al Cinema può innescare straordinari effetti comici (spesso ma non sempre, sono infatti eroicamente reduce da LOCKDOWN ALL'ITALIANA, dove nonostante gli intenti comici di risate non ne ho fatta una). Grandi capolavori come TEMPI MODERNI di Charlie Chaplin o PLAYTIME di Jacques Tati scatenano perfetti tempi comici dalla descrizione del progresso più o meno tecnologico della società. Il duo registico francese Benoit Delepine e Gustave Kervern, a una personalissima orchestrazione quasi attonita dei tempi comici, ha sempre associato un discorso sociopolitico molto accentuato. Ne sono nati due memorabili capolavori di comicità: LOUIS-MICHEL forse il film più spassoso che ricordi insieme a HOLLYWOOD PARTY di Blake Edwards, dove l'operaia Yolande Moreau, insieme a un Bouli Lanners assolutamente folle, licenziati dalla fabbrica cercavano il padrone per ucciderlo e MAMMUTH dove Depardieu con al seguito Isabelle Adjani cercava di ricostruire i suoi contributi previdenziali in un on the road picaresco. Nel nuovo IMPREVISTI DIGITALI (meglio l' originale EFFACER L'HISTORIQUE - ovvero Cancellare il resoconto storico) si prende di mira la nostra schiavitù informatico/digitale a 360º, attraverso le vicende di tre sfigati totali (tre grandi attori Blanche Gardin, Denis Podalydes, Corinne Masiero) messi in ginocchio dai loro smartphone, che li espongono a ricatti erotici, amour fou per voci da call center, dipendenza dalle orride serie concepite come mostri a mille teste per le piattaforme, schiavitù dai like dei followers e da tutte le cazzate che spuntano sul video del telefonino (pardon dell'Iphone numero del cacchio). Il risultato è super o alla francese supe'r. Momenti totalmente surreali indimenticabili (i dialoghi della madre col figlio assente), gag attonite o mute che parlano da sole, puro screwball comedy anni 30 ripreso proprio come fece il maestro Peter Bogdanovich nel mitico MA PAPÀ TI MANDA SOLA? con Barbra Streisand. La guerra a Facebook e a tutti i marchingegni da cui siamo soffocati (dimenticare una password può essere letale ahahah) dei tre eroi ribelli, memori dei gilè gialli, cresce a vista d'occhio con scansioni folli e perfette, silenzi e dialoghi atomici portandoci spesso al soffocamento (non da Covid, non ancora arrivato sulla scena, almeno quello) per il troppo ridere. Si ride amaro anzi amarissimo con effetti liberatori, quasi di inconscia protesta o presa di coscienza. E ancora una volta la ribelle visione sociopolitica punk trash di questo strepitoso duo registico-autoriale coglie nel segno e asfalta tutto. (Carlo Confalonieri)

LA VITA STRAORDINARIA DI DAVID COPPERFIELD - Ormai possiamo parlare di Iannucci's Touch. Dopo lo strepitoso MORTO STALIN SE NE FA UN ALTRO il regista scozzese Armando Iannucci conferma il suo stile assolutamente unico, alle prese con la rivisitazione niente meno del DAVID COPPERFIELD Dickensiano. Nulla a che fare con la trasposizione di George Cukor del '35 bella rigorosa e romantica. Iannucci come fece di MORTO STALIN un lugubre grottesco FUNERAL (nel senso di veglia-resa dei conti come Abel Ferrara nel suo capolavoro) rende Copperfield una festa trascinante, esplosiva, traboccante vita ad ogni inquadratura. Ultra dinamico percorre le tante pagine dickensiane d'un fiato, con ritmo travolgente, ottimismo e felicità anche nei passaggi più tormentati. La ribellione, la tenacia e l'ironia prevalgono sulla tristezza e la sofferenza, che ci sono ma vengono trasfigurate. Come in STALIN le cattiverie e le perfidie. Iannucci ha uno stile assolutamente unico, ti travolge fino all'ultimo respiro e all'ultima battuta, convincendoti sempre della profondità della superficie che stai vedendo. In STALIN i baratri del male, in COPPERFIELD le vertigini del bene. E di nuovo è una girandola attoriale assolutamente straordinaria, orchestrata, inventata e reinventata. Stavolta come in HAMILTON il mitico musical di Manuel Miranda, gli attori sono multirazziali, rendendo coloured anche ruoli solitamente affidati a bianchi. Per cui il sempre incantevole indiano Dev Patel, bellissimo e ambrato, ha come zia Betsy consanguinea folle ed eccentrica, la più grande favolosa extraterrestre del Cinema di tutti i tempi Tilda Swinton, qui elettrica ed elettrizzante. Agnes è Eliza Hittman giovane attrice di colore di grande bellezza e temperamento. E così via… Totalmente antibrexit e indifferente alla musealizzazione del Cinema inglese, Iannucci ha audacia, piglio moderno e una ironia indomita, che ha misura (a differenza dei Monthy Python e Terry Gillian), classe e stile. Con trovate visive davvero stupefacenti, con quei ricordi proiettati sulle pareti e quelle parole che prendono forma. Ricordandoci sempre che la storia di Copperfield è la storia di uno scrittore. (Carlo Confalonieri)

THE SPECIALS-FUORI DAL COMUNE (Hors Normes) - Una volta in un ospedale psichiatrico vidi una ragazzina con un casco in testa amorevolmente condotta da una psichiatra. Non lo dimenticai mai più. La stessa scena l’ho rivista nel nuovo emozionante, umanissimo film della coppia dei re della commedia francese Eric Toledano e Olivier Nakache. Anche qui il casco, a protezione dei colpi auto-infertisi da un paziente adolescente, affidato alla sempre interessante Catherine Mouchet (indimenticabile in THERESE di Alain Cavalier) nel ruolo della psichiatra. Chiamera' Bruno (Vincent Cassel assolutamente magnifico) uno dei due educatori (l'altro è il sempre notevole Rada Kateb) a capo de La Voix des Justes, centro di volontariato che si prende in carico autistici e altri casi drammatici. Quelli che tutti hanno rifiutato e non troverebbero dove andare. Il motto di Bruno è 'si trova sempre una soluzione' oppure 'on l'est pas loin'. Ottimismo puro. Quello che contraddistingue il Cinema di Toledano-Nachake, che già affrontarono con piglio sorridente l'handicap nel folgorante QUASI AMICI. Qui non si ride, ma una visione positiva stempera il dramma in un microcosmo estremamente vivace, mobile, propositivo, che non si ferma di fronte a nulla. Il progetto viene da lontano, quando nel 1994 Toledano e Nachake incontrarono un loro amico di gioventù, Stephane Benhamou, creatore di un centro d'accoglienza per bambini e adolescenti autistici, Le Silence des Justes. E più tardi l'incontro con Daoud Tatou, direttore di Relais IDF per il recupero e il reinserimento sociale dei giovani dei quartieri difficili. A sostegno del loro lavoro, i due cineasti realizzarono nel 2015 un documentario intitolato ON DEVRAIT ON FAIRE UN FILM. Questa la genesi di HORS NORMES e ora il film si è davvero fatto. Riuscitissimo nel dare equilibrio alle molte componenti che vanno dal disagio, alla impotenza delle istituzioni pubbliche che ci fanno una figura di merda proprio come ora sta avvenendo in tutto il mondo per altre ragioni (da noi vinceranno sicuramente il primo premio). La scena in cui Cassell, messo alle strette dai due ispettori pubblici, si arrende al loro assurdo fare le pulci, dicendo come sempre 'ho la soluzione' dà i brividi fa ribollire il sangue. Perché la soluzione è 'prendeteli voi', buttando davanti ai due funzionari le foto dei casi strazianti e ignorati da tutti, in carico all'associazione di volontari. Giovani di tutte le razze, tutti attivi motivati volonterosi, accusati dai burocrati parassiti di non avere titoli adeguati. Vomitevole burocrazia che guarda, non fa nulla e manda a fondo chi non ha nulla e non ce la fa. Il tocco di Toledano-Nachake però è ovunque e nelle svolte più commoventi trasforma in sorriso le lacrime. Non in riso, stavolta in sorriso, attraverso gli adorabili Joseph, Valentin, Emilie, umanissimi nel loro disagio, che nel sottofinale diventa una danza incantevole. Nel cast anche la grande Helene Vincent che porta la sua collaudata esperienza al ruolo molto bello, molto straziante della madre di Joseph, che vorrebbe proteggere dopo la sua morte. E la Lyna Koudry giovane rivelazione di NON CONOSCI PAPICHA. Tanti bei volti di uomini e donne, di ogni età, razza. condizione mentale. Per comporre un affresco garbato crudele e audace, pieno di quella fusione perfettamente riuscita tra fiction e documentario in cui i francesi eccellono (si pensi a GARE DU NORD di Claire Simon, POLISSE di Maiwenn, LES MISERABILES di Lady Li). Un gran film per ora su piattaforma, ma da rivedere assolutamente al Cinema, appena il postdemocristianesimo culturale italiano - che chiude tutto e con la candidatura all'Oscar di NOTTURNO ha ribadito il suo ‘volemose bene’ fuori tempo massimo - lo consentirà. (Carlo Confalonieri)

ASSANDIRA - Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, se fosse stato a Cannes avrebbe ben figurato nel ‘Certain Regard’. Perche' la nuova opera di Salvatore Mereu, l'importante autore sardo del magnifico BALLO A TRE PASSI e dell'incantevole BELLAS MARIPOSAS, è davvero un film molto particolare e inconsueto. Tratto dal romanzo di Giulio Angioni basa la sua personalissima struttura filmica in un innesto della Tragedia Greca e Shakespeariana, su un tessuto da cronaca giudiziaria scandito a capitoli. Questo crea un insolito scavo da thriller dell'anima in un contesto di grandi archetipi. La Sardegna è quella dei miti atavici, segnata dalla fatica e dalla miseria, col volto segnato dal monumentale Gavino Ledda, lo scrittore di PADRE PADRONE che divenne capolavoro sullo schermo grazie ai Fratelli Taviani, qui al suo debutto in tarda eta' come attore. Assandira è la fattoria fra i monti dove ha sputato sangue per una vita e da cui il figlio Mario se ne andò in Germania in cerca di fortuna. Tornerà con Grete (Anna Konig, fantastica e inquietante) che si rivelerà una Lady Macbeth, escogitando la trasformazione di Assandira in un agriturismo per turisti stranieri in cerca di un'immagine pittoresca e falsata della Sardegna, già terreno di uno sfruttamento turistico insensato e devastante. Mereu procede con una ricostruzione, scandita da didascalie, del rogo che apre il film e distrugge tutto. Inizio di potenza inaudita tra il fango e le ceneri con Costantino Saru (Ledda) che vaga, lucido e impazzito insieme, in quella landa come Re Lear. Arrivera' un magistrato a determinare le cause e i fatti, ma sarà il labirintico noir in flashback a trasportarci all'inferno. Per incontrare la vera natura assatanata di Grete, assetata di potere a ogni livello passando dall'incesto alla mortificazione delle tradizioni pur di raggiungere i suoi scopi. Avere un figlio, avere un regno, avere tutto. Costantino cederà per assecondare il figlio e la nuora, ma il suo sguardo chiuso prevede la tragedia. Che scatterà di fronte alla scoperta del più torbido dei segreti che ha infangato la sua Assandira. Con un metraggio piuttosto lungo che ben evidenzia il tragico e la sua ricostruzione, ASSANDIRA prende quota progressivamente. Dalla documentazione dello sfruttamento e della ridicolizzazione di una tradizione durissima, al degrado morale che investe tutti. Sara' fuoco e fiamme come nell'antichità, come nei miti. A lasciare anime morte, carcasse di animali e antichi guerrieri sconfitti come nella più cupa delle tragedie. DA VEDERE ! (Carlo Confalonieri)

UNDINE-UN AMORE PER SEMPRE - L'amore e il tempo. L'amore per ora (possibile) l'amore eterno (impossibile) questo il limite dell'amore umano. Ma non per i miti. Quello di Undine o Ondine che dal racconto di Friedrich De la Motte Fouquè passa dai Fratelli Grimm, arriva al teatro di Jean Giraudoux e alle pagine di Ingeborg Bachmann è quello della naiade che tradita uccide. Un mito, un desiderio di perfezione assoluta che arriva dall'inconscio e quindi dall'acqua, in contrapposizione con la realtà. Nella Berlino di oggi Undine è una storica che lavora al Museo Marche, dove illustra ai visitatori i plastici dell'evoluzione architettonica della città nata su una palude. L'acqua sotto la città stratificata nella sua storia, l'inconscio sotto la psiche umana rappresentato dall'acqua. Tutto torna lì. Undine, la splendida Paula Beer premiata alla Berlinale per la miglior interpretazione femminile, dice a Joahannes che la sta lasciando: dovrò ucciderti. Poi incontra Christoph -l'intenso Franz Rogowski che con quegli occhi si conferma il miglior attore del Cinema contemporaneo tedesco- un sommozzatore industriale. Un acquario in un bar si romperà e li inondera' con le sue acque, trascinando Undine verso la sua natura acquatica di cui Christoph fa parte. L'acqua però per Undine è un segno, un ritorno, un percorso irreale che trascinerà se stessa, il suo amore passato e il suo amore presente in una spirale di conoscenza. La conoscenza di sé, attraverso il profondo dell'anima. Come accadeva -e qui il Cinema si riconosce e si innalza- in VERTIGO di Hitchcock dove lo sdoppiamento conduceva di fronte a uno specchio oscuro. Christian Petzold, oggi il più grande autore vivente del Cinema Tedesco, ritrova le acque dei suoi magnifici LA SCELTA DI BARBARA e LA DONNA DELLO SCRITTORE (già  proiettato verso un'astrazione stilistica che in UNDINE si fa perfetta) nonché il tema del doppio, del sublime IL SEGRETO DEL SUO VOLTO. Li convoglia nel mito attraverso una città (Berlino) e una donna, sdoppiate e raggiunge la bellezza emozionante dell'impossibile e dell'irrappresentabile in termini razionali. Filma scene subacquee di una tale visionarietà coreografica da far pensare a L'ATALANTE di Jean Vigo -altro punto cardine cinematografico sull'amore eterno e/o immanente- e raggiunge vette simboliche con una rappresentazione cinematografica controllatissima e misurata, propria di quel grande Cinema che attraverso le immagini ci porta nel sogno.  (Carlo Confalonieri)

UN DIVANO A TUNISI - Che a parlare di inconscio collettivo sia un film tunisino può stupire. Ma se a dirigerlo è una regista franco-tunisina a cavallo fra Oriente e Occidente allora si capisce il perché. Manele Labidi fonde infatti due culture, quella araba e quella europea, proprio come il personaggio di Selma e sicuramente cuce su di lei i propri dubbi e le proprie cusiosità. Selma, psicanalista a Parigi, torna nella sua Tunisi con l'intento di esercitare lì la sua professione. Non a caso le note della meravigliosa LA CITTÀ VUOTA di Mina la accompagnano. Tornare a Tunisi dopo la rivoluzione e all'inizio della Primavera Araba è come metter piede su un terreno vergine, una tabula rasa, una città vuota. Il colore e il folklore della città accolgono Selma nel bene e nel male, tra ironiche pennellate di colore sociale e affondi più drammatici nel clima poliziesco della città. Ovvio che una psicanalista appare in un primo momento fuori posto, lontana dal tessuto culturale del Paese. Ma la psiche umana è un po' simile a ogni latitudine e la voglia di conoscersi si impone anche fra un bizzarro campionario umano, prima abituato solo a confidarsi dalla parrucchiera o nell’Hamam. Talora si pensa al fenomenale CARAMEL di Nadine Labaki e nel confronto appare una differenza sostanziale. L'astrazione rappresentata da Selma e dal suo ruolo, che rendono spesso surreale il racconto dietro a un tessuto grottesco. La conferma arriva da una scena assolutamente magica che fa improvvisamente svettare il film verso mete molto complesse. Quelle dell'andare oltre e del resistere con la propria forza interiore portata a galla da un lavoro su di sé. L'apparizione di Freud è non solo una grande trovata e una pagina di Cinema memorabile, è anche il senso ultimo di un film molto profondo dietro la sua aria talora scanzonata. Freud (potrebbe essere anche Jung o chiunque abbia scoperto l'inconscio e scavato in esso) è anima e confronto, è il vento della psiche che va ben oltre le rivoluzioni e le dittature. E' il vento della vera libertà, quella psicologica. Qui è la zampata di una regista che di colpo con una scena ribalta il suo film, lo spiega e lo porta in alto. Nella vera bellezza, nella vera profondità, incarnate dalla bellissima e profondamente espressiva Golsfhiteh Farahani che da Jarmush (PATTERSON) a Garrel (DUE AMICI) a Asghar Farhadi (ABOUT ELLY), sceglie e interpreta stupendamente ruoli interessanti, rendendoli indimenticabili. Come anche stavolta.  (Carlo Confalonieri)

THE ELEPHANT MAN
- Ma sono davvero passati più di 40 anni da quando vidi per la prima volta THE ELEPHANT MAN alla sua uscita nel 1980? Indubbiamente si. Mi sembra ieri, soprattutto perché ricordo quanto piansi al termine del film. Un ricordo nitido come se sentissi ancora le lacrime sul volto e in gola che non si fermavano più. Mi era accaduto solo un'altra volta da bambino PER UMBERTO D di Vittorio De Sica. Di solito controllo bene le emozioni al Cinema eppure di fronte al finale cosmico, che incornicia con un incipit altrettanto surreale la vicenda di John Merrick - esposto come fenomeno da baraccone nell'Inghilterra Vittoriana per una malformazione della testa - non ce la feci. A distanza di tanto tempo so ancora bene il perché. Non fu pietismo, nè senso di colpa per chi vive la sua disgrazia con una dignità che tu non conosci (abituato a volte a lamentarti di chissà quali sciocchezze). Fu ed è la rappresentazione di un Amore Universale, attraverso la forma più inadatta a rappresentarlo: l'orrore. L'orrore che rimuoviamo, come apice del lato oscuro dentro e fuori di noi. Nella cui messinscena David Lynch - che diventera' uno dei più grandi Maestri del Cinema e fino ad allora autore solo di uno sperimentale manifesto surrealista con ERASERHEAD (1977) - lo fonde al suo esatto opposto e al suo provvidenziale antidoto: l'Amore. THE ELEPHANT MAN, che nella filmografia di Lynch è considerato a torto il suo film più classico, in realtà è la sua opera più audace proprio per la combinazione rarissima di queste due componenti. Accade in altri capolavori: nel finale di ROSEMARY'S BABY di Roman Polanski con Mia Farrow che guarda la culla del figlio di Satana col più grande Amore materno, ma soprattutto nel capolavoro dei capolavori SUSSURRI E GRIDA di Ingmar Bergman dove solo l'Amorosa Pietà forza il confine fra vita e morte, un terreno dove nessuno vuole entrare nè nulla può accadere senza quelle armi. Lynch compie il rarissimo miracolo cinematografico di assemblare per tutto il film, praticamente in ogni sua inquadratura, queste componenti. Amore e Orrore, addirittura scambiandole e trasferendole da un personaggio all'altro. Tanti angeli attraversano il film: il Dr.Treves di Anthony Hopkins, la Mrs.Kendall di Anne Bancroft entrambi superlativi. Ci prendono per mano con la loro dolcezza e ci mostrano che l'orrore di John Merrick (John Hurt gigantesco), l'Uomo Elefante, può creare vita bellezza arte e grazia se ne entriamo in contatto e lo sappiamo guardare. Forse la cosa più difficile, ma più vicina al mistero della Vita e della Morte, l'una lo specchio dell'altra. Per questo Lynch pare abbandonare gli sperimentalismi, affidandosi alla fotografia magnifica in Bianco e Nero, di Freddie Francis. Ma anche qui non è cosi perché, in quei contrasti pittorici, vi è tutto il gotico del Francis direttore della fotografia di quel capolavoro del mistery che e' SUSPENSE (1961) di Jack Clayton tratto da IL GIRO DI VITE di Henry James. Dove ci si affaccia sul baratro dell'orrore, trasformando i fantasmi in esseri umani. Lo stesso accade in THE ELEPHANT MAN dove un 'mostro' si fa Uomo e ci insegna a esserlo. Sulla terra e fra le stelle. Sublime.  (Carlo Confalonieri)

LA VITA NASCOSTA (HIDDEN LIFE) - Ritrovare un regista immenso in un film immenso mi ha commosso.Terrence Malick il Grande. Un'idea di Cinema via via sempre più gigantesca, filosofica, ardita che proiettata all'essenziale (il senso della vita, la trascendenza, il sacro come esperienza umana) lo visualizza come un percorso sensoriale, che parte dall'interno e si proietta sull'esterno in modo meditativo, metafisico, rendendo l'immagine di una potenza inaudita. Lo fece Dreyer, lo fece Bergman, lo fa Malick e come loro fa del suo Cinema Preghiera. La via qui come nelle sue opere cardine (a mio avviso) 'I GIORNI DEL CIELO', 'THE TREE OF LIFE', 'TO THE WONDER' è un'intensificazione del vivere attraverso un ascolto interiore. Quindi le voci sono ormai quasi del tutto voice-off in forma di pensieri e le immagini percezioni di un processo di proiezione dell'inconscio. La vicenda di Franz Jagerstatter contadino del tranquillo villaggio austriaco fra le montagne di St Radegund, arruolato dal Fuhrer (nato non molto lontano a Branau) dopo la germanizzazione dell'Austria, che si rifiuterà fino alla decapitazione di giurare fedeltà a Hitler è la rappresentazione del Grande Bene che si oppone al Grande Male. In modo irrazionale, persino contro l'istinto di sopravvivenza (se smetti di voler sopravvivere tutto cambia persino il tempo, il tuo tempo muta). Il Grande Bene sono la terra, le montagne, gli affetti (l'amore eterno per la moglie Fanni sul cui epistolario si basa questa vicenda vera, che porto' anche alla canonizzazione di Franz, ma questo a Malick non interessa perché Santo nella sua visione alta lo è anche senza l'intervento della Chiesa). Il Grande Bene è quello inattaccabile, come le montagne dalla bellezza impressionante, lo sguardo mite degli animali, i tesori della Natura e dell'Amore. Malick amplifica con l'uso di un grandangolo spinto, con l'avanzare incessante della macchina da presa verso un dove che percepiamo oltre il visibile, con uno sguardo perennemente ascensionale anche nelle riprese nelle prigioni e nei tribunali nazisti (dove un Bruno Ganz monumentale recitando anche con le mani diventa Ponzio Pilato). In una Chiesa un pittore dipinge Cristo dicendo che lo fa per coloro che ora lo venerano , mentre a quel tempo forse lo avrebbero condannato e che il Cristo che vorrebbe dipingere è un altro. Il dilemma è proprio lì, capire, vedere nella vita immanente che ci è data, senza aspettare un altro mondo, un altro tempo, un'altra Storia. Per questo Malick non storicizza questa pagina del Nazismo, ma collegandosi a un verso della poetessa inglese George Eliot svela ed illumina UNA VITA NASCOSTA, perché quella come altre ignote hanno contribuito a migliorare il mondo. E lo fa - nel corso di 173 minuti che volano e restano - in tre tempi. In quello di un Canto della Natura, in cui gli esseri viventi sono calati dando voce e sguardo anche alle pietre, ai ruscelli, al cielo fra le montagne. Uno shock visivo fin dal fotogramma di apertura dopo le immagini di repertorio della mostruosa innaturale avanzata del Grande Male, di Hitler, del Terzo Reich (immagini di repertorio che torneranno fortissime per il sogno premonitore del treno che attira i bambini e che è quello che va ad Auschwitz). Poi il martirio, per quel diniego a giurare fedeltà a Hitler che agli occhi degli altri (del villaggio piegato al Fuhrer che metterà al bando tutta la famiglia di Franz, persino della Chiesa sottomessa) è solo superbia, arroganza, pura follia. La stessa di Cristo e ritorna la voce del pittore, mentre la clausura delle immagini sempre illuminate da una spinta all'oltre, richiama LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO di Dreyer. E poi è il Requiem, la messa il canto per un defunto (sentiremo il Bach de LA PASSIONE DI SAN MATTEO) che non morirà, perché lo sguardo si alza ancora tra le montagne in cerca di quegli Angeli che sovrastano, nella lunetta, quel capolavoro di Giovanni Segantini che è IL DOLORE CONFORTATO DALLA FEDE. Dove in un cimitero di montagna due genitori piangono sulla tomba del figlio. FILM TOP 2020.  (Carlo Confalonieri)

LE SORELLE MACALUSO - Federico Fellini ne LA VOCE DELLA LUNA dice che deve esserci un buco che unisce i vivi e i morti. Il nuovo meraviglioso film di Emma Dante inizia con due bimbe che fanno un buco nel muro. Quel buco restera' per sempre in quel palazzo decadente della periferia di Palermo, dove vivono le cinque sorelle Macaluso, Katia, Maria, Pinuccia, Antoenella, Lia. La comunicazione fra la vita e la morte attraversa la drammaturgia teatrale della grande regista e autrice palermitana. In particolare - oltre allo splendido spettacolo a cui il film di ispira (ma si tratta di ispirazione perché il film è ben altro) - in uno dei suoi testi e delle sue regie teatrali, parecchi anni fa cambiò la mia vita di spettatore: VITA MIA. In esso si narra di tenere in vita le persone care (là una madre nei confronti dei figli, uno dei quali, ma non sappiamo chi, dopo la notte dovrà morire) attraverso l'amore. Nel film di oggi ho ritrovato quella sensazione essenziale astratta incombente illuminante come allora. Tutti moriremo come le sorelle Macaluso che negli anni se ne vanno una alla volta, ma l'amore reciproco che è condivisione e talora anche rabbia le tiene in vita l'un l'altra. Moriranno si, resteranno per sempre fra loro e in quella casa. Una vestita da ballerina come il suo sogno giovanile infranto, una a farsi mettere il rossetto dalla sorella maggiore facendo - lei rimasta bimba per sempre - una boccuccia che a vederla da' i brividi (i piccoli gesti dei nostri morti come li ricordiamo), una a prepararsi per il proprio funerale rimestando nelle stanze cechoviane dei giochi d'infanzia e ritrovandosi poi in una bara affacciata sul cielo come in una veduta cinematografica Tarkovskijana. E allora in questo film nato dal teatro e così pieno di Cinema e Letteratura da far esplodere occhi e cuore, potremmo non essere più a Palermo ma nella Russia dei Karamazov, nella Napoli della Ortese, nella Rimini di Amarcord con il monumentale Charleston palermitano affacciato frontalmente nell'inquadratura come il Grand Hotel Felliniano, nel salotto della Hollywood al tramonto e sporca di CHE FINE HA FATTO BABY JANE? dove due sorelle si fanno a pezzi accusandosi di un tragedia che le riguarda da bambine, o nella dacia delle TRE SORELLE di Cechov. Ma tutto è unificato da quello stile personalissimo, grandioso, passionale e furioso di quella che è la più grande drammaturga e regista teatrale vivente. Colei che un giorno si studierà a scuola come ora si fa con Pirandello. Colei che guarda al Tadeus Kantor de LA CLASSE MORTA e ci porta per mano in un aldilà presente. Qui cinematograficamente scatenata con incursioni elettrizzanti nel musical, facendoci vedere da quel buco i ricordi, le meraviglie, le fantasie come fece anche Tsai Ming Liang nel suo fantasmagorico THE HOLE. Dalla miseria, dalla mancanza, dalla sofferenza, nascono infatti meraviglie, incanti, prendono il volo le colombe, nascono amori (la scena nell'Arena Sirenetta delle due fanciulle che si baciano coreografandosi è un altissimo momento di Cinema), si riavvolge il tempo come nello stupefacente BALLARINI che componeva in parte LA TRILOGIA DEGLI OCCHIALI. E la cinepresa trasformata in strumento di una rabdomante dell'anima, estrae da ogni attimo di quest'opera cruciale, modernissima e antica sulla visionarietà dell'esistere che ne dà senso e sopportazione, una linfa vitale che si dipana miracolosa sulla morte trasfigurandola in una bellezza terrena e celestiale, cupa e luminosa. In concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Se non sarà Leone scendero' in piazza.  (Carlo Confalonieri)

STAY STILL -  Pare la versione pop di PERSONA di Bergman.  Spostato dall'isola di Faro a un ospedale psichiatrico, che astrae quello di QUALCUNO VOLO' SUL NIDO DEL CUCULO col sarcasmo dei film al vetriolo di Todd Solondz, il rapporto fra una paziente eccentrica e la sua infermiera ha molti punti in comune con quello fra Liv Ullman e Bibi Andersson. Julie ricca ereditiera piena di fascino manipolatore si chiude nell'inazione per rifiuto dei meccanismi sociali (porta sempre guanti di gomma gialli come per non farsi contaminare). Ciò non le impedisce ogni tanto di dar fuoco a qualcosa per cui entra ed esce da una clinica psichiatrica. Lì le viene assegnata Agnes giovane infermiera, che nella vita ha invece fatto quanto c'era da fare (famiglia e lavoro). Entrambe un rapporto irrisolto col materno. La madre di Julie si uccise quando lei era una bambina, la figlia di Agnes di 3 anni non  parla alla madre praticamente la rifiuta. Scattano identificazione, transfert malato, manipolazioni, ribellioni, attrazione sessuale. D'altronde proprio lo SCHERMO VELATO, il bellissimo saggio di Vito Russo sul Cinema Omosessuale definisce PERSONA un rapporto lesbico al rallentatore. I ritmi, i tempi,  i suoni, i colori della regista tedesca Elisa Mishto sono diversissimi da quelli onirici di Bergman. Il taglio è assolutamente pop, esposto, a tratti grottesco con incursioni felliniane, per un modo eccentrico di guardare alla malattia mentale. Che Mishto ha comunque approfondito attraverso la frequentazione di vari istituti psichiatrici anche italiani per la lavorazione di un suo documentario sul tema, quasi una premessa al film. E si sente, nel disincanto con cui si osserva talora l'inutilità dei trattamenti psy rispetto alla funzione di contenimento temporaneo, che tale deve restare per il minor tempo possibile. Le due attrici, la russa Natalia Belitzki, una Julie un pò Charlotte Gainsbourg in NINPHOMANIAC di Lars Von Trier e la tedesca Luisa Celine Gaffron post Schygulla, sono efficacissime e brave. Stabilendo un corto circuito femminile, che le sonorità elettroniche di dj Apparat (già collaboratore di Martone per lo splendido CAPRI REVOLUTION) insieme alla bellissima fotografia postcolorata e popcolorata di Francesco di Giacomo (figlio del grandissimo Franco compianto direttore della fotografia per Taviani, Bellocchio, Moretti, Argento, Scola ecc.) portano su un piano di pura astrazione. (Carlo Confalonieri)

MATTHIAS E MAXIME  -  In TOM A LA FERME incombe uno sfregio sul volto come vendetta omofobica. In MATTHIAS E MAXIME, il nuovo film di Xavier Dolan, sul viso di Maxime c'è una grossa voglia viola che pare una lacrima. E' l'opposto, un segno di diversità e d'amore espresso. Nei due film, opposti, uno negativo uno positivo, entrambi STUPENDI, Xavier oltre che autore è anche attore. Come TOM era vittima quasi consenziente in un ingranaggio hitchockiano,come MAXIME è invece uno degli artefici di una poesia amorosa che nasce da bambini e si sviluppa da adulti. L'altro e MATTHIAS (Gabriel D'Almeida che 'si perdera' nuotando e si sa l'acqua è simbolo dell inconscio) amici d'infanzia capiranno d'amarsi. Ma come? Qui viene il tocco magistrale dell'enfant prodige canadese, che fa confluire i tasselli delle due vite, partire insieme poi diventate diversissime fra loro nel fiume magico del destino. Max è povero ha una madre alcolizzata a cui badare (la strepitosa Anne Dorval di MOMMY) decide di andarsene da Montreal per due anni per fare il barista in Australia. E' molto solo,lo guarda qualche ragazzo ma non accade nulla. Matthias è ricco, avvocato figlio d'avvocato, con una professione davanti e una fidanzata vicino. La magia si chiama Rivette come Jacques Rivette il grande regista della Nouvelle Vague maestro nel portare la fantasia nella realtà. Erika Rivette, amica dei due e snob aspirante regista,li coinvolge in un corto  in cui devono baciarsi sulla bocca. Il bacio che vediamo si e no è pressoché a inizio film. Non vedremo altro di apparentemente sentimentale tra i due fin quasi alla fine. Tutto sarà non detto,ellittico,inteso o sottinteso. Tante tracce disseminate spostamenti sguardi vibrazioni battiti gelosie emozioni. L'esatto opposto dell'esposizione televisiva tagliata col macete dei personaggi gay degli orrendi film gay di Ozpetek. Dolan non fa film gay, parla di personaggi psicologici ancor prima che omo/sessuali. Stavolta travolge da cima a fondo con i frammenti di un discorso amoroso che vanno a formare un tema esistenziale, forse il tema clou dell'esistenza quello dell'identità psicologica Tout Court, quindi anche sessuale. E i tanti splendidi centratissimi primi piani pieni di gioventù e vitalità finiscono per allargarsi (un po' come in MOMMY) su un quadro d'insieme assolutamente  magistrale durante la scena del temporale. Con i ragazzi che corrono a togliere i panni stesi, mentre Max e Matthias si baciano stavolta per davvero. Un momento di Cinema sublime di un'intensità quasi insostenibile. Si corre ai ripari, ma la forza della natura dei sentimenti delle emozioni prevale. Analoghe sensazioni le diedero la corsa in auto di Trintignant in UN UOMO UNA DONNA di Lelouch o quella a piedi di Woody Allen in MANHATTAN. Là erano maschi e femmine, qui due maschi. Non cambia nulla. L'amore la vita il desiderio di cominciare sono gli stessi. Travolgenti. Film meraviglioso fatto pensato girato evidentemente (la fotografia strepitosa di Andre Turpin, il montaggio folgorante dello stesso Dolan, la dimensione pazzesca delle inquadrature e dei punti di vista). 
(CARLO CONFALONIERI)

LE EREDITIERE - Da IL LUOGO SENZA CONFINI di Arturo Ripstein a IL BACIO DELLA DONNA RAGNO da TI GUARDO di Lorenzo Vigas a UNA DONNA FANTASTICA di Sebastian Lelio nel cinema latinoamericano, il tema dell'omosessualità spesso è diventato metafora della condizione di un paese. Un argomento sotterraneo in quei luoghi, specchio di un  disagio sociale e politico. Il notevole debutto del paraguayano Marcelo Martinessi, scelto come rappresentante all’Oscar per il miglior film straniero, segue questa via. Il ritratto di Chela e Chiquita due signorine agè di buona famiglia che convivono da trent'anni nella bella casa ormai usurata (come il loro rapporto) ereditata dalla prima, mascherando ma solo fino a un certo punto la loro relazione,fotografa in filigrana la stanchezza di una nazione logorata dalle dittature e ancor di più da una trasformazione del tessuto economico e sociale. 'Quelle due' a differenza del film di William Wyler tratto da Lillian Hellman sono infatti accettate, pur frequentando un giro di lesbiche locali, dalle signore della borghesia mogli o vedove di professionisti e latifondisti. Alle quali, Chela - dopo che la più intraprendente Chiquita va in carcere per  truffa per salvare la loro disastrosa situazione economica (la villa si spopola di quadri e argenteria ma resta la domestica come facciata di un passato benessere) - finisce un po' per caso un po' per bisogno a far da taxista sulla vecchia Mercedes ritornata a guidare senza patente. Inizia così un tardivo risveglio, sottratta agli psicofarmaci somministratale da Chiquita, al letargo domestico e alla dipendenza dalla compagna. Per le strade di Asuncion la donna ritrova faticosamente se stessa, la voglia di vivere e persino il desiderio nei confronti nella più giovane e disinibita Angy (Ana Ivanova quasi una sosia dell’indimenticabile splendida Florinda Bolkan). Un paese metaforizzato attraverso una storia privatissima, che sarebbe piaciuta al Fassbinder di VERONIKA VOSS, ma che Martinessi allontana dal melodramma. Prevalentemente in interni chiaroscurati, più di sguardi che di parole, affidati alla straordinaria Ana Brun premiata alla Berlinale come migliore attrice.  (Carlo Confalonieri)

GIRL - Ancora come nel miracoloso film di Ildiko Enyedi che ha aperto un 2018, cinematograficamente stupefacente. La componente psicologica e quella fisica assolutamente compenetrate alla ricerca di un equilibrio, come base per l'esistenza. E la loro disarmonia, causa di immani fatiche e sofferenze. Si parte in adolescenza dove il corpo muta e può prendere  direzioni che la mente non contempla. Né tanto meno le regole comportamentali indotte. Il maschile e il femminile entrambi dentro di sé, devono essere l'uno o l'altro fuori di sé. E se non c’è coincidenza è una battaglia contro se stessi. La dittatura del corpo (pene o vagina)che predispone a dare o ricevere. Ma non è così. Lo sa bene Victor che a 15 anni si prepara a diventare Lara con una transizione sessuale e ormonale fortemente voluta per trovare un'immagine nitida della propria identità (tanti specchi nemici attorno, persino l’ultimo nel sottofinale drammatico tenta di sdoppiarne l’immagine). La  psiche di Lara sa bene chi è e non solo. Non solo la  rincorsa di un'immagine femminile senza pene (scotchato fra le gambe in attesa di essere tolto), con un seno che non spunta nonostante gli ormoni e bellissimi lineamenti e capelli muliebri. Ma una sua precisa collocazione come Etoile di danza classica, la più ardua delle discipline imposte al corpo femminile per esaltarlo in tutta la sua grazia ed armonia. Victor disposto al martirio per essere Lara e danzare. Nell impaziente attesa dell’amputazione di quel pene subìto, i piedi troppo lunghi nelle scarpette a punta subiscono le stimmate del sacrificio estremo per essere donna ed esserlo al massimo (le unghie massacrate il sangue fra le dita un dolore allucinante coperto dal sorriso per il desiderio di essere se stessa). Non gli artifici del culturismo per essere più macho o del botox per essere più giovane. Solo la costruzione del sé: corpo e anima. Il film meraviglioso è opera prima del giovane fiammingo Lukas Dhont, che incolla in ogni fotogramma la cinepresa mobile su Lara. Danza soffre combatte. L'impazienza dell’adolescenza di trovare se stessi (credi che sia nato subito uomo le dice il padre amorevole comprensivo suo compagno di battaglia). Lo scarto mente corpo che diventa sempre più forte, l’una supera l’altro che diventa drammaticamente inaccettabile. Una grandissima opera gender, uno dei 3 più grandi film sull’identità psicosessuale (insieme a UN ANNO CON 13 LUNE di Fassbinder e LAURENCE ANYWAYS di Xavier Dolan). Una sfida vinta in una narrazione che esclude quasi del tutto il mondo esterno e punta su un match con se stessi. Vinto da un grande occhio cinematografico e dall’interpretazione magica totalmente convincente del giovane Victor Polster, dolce sfingeo marziale. La Camera d’Or, il premio al suo attore prodigioso e il premio Fipresci conferti a Cannes credo siano solo l’inizio trionfale della carriera di un film importante assolutamente privo di ambiguità, destinato a scolpire una nuova pagina ferma sulla ricerca dell’identità. (Carlo Confalonieri)  

DOPO IL MATRIMONIO - Da domani 30 Maggio in Prima assoluta in streaming per l'Italia - Nel 2006 la grande regista e autrice danese Susanne Bier girò un film che mi travolse DOPO IL MATRIMONIO. La sua potenza e originalità erano nella perfetta fusione degli stilemi del melo, con le regole estetiche del Dogma di Lars Von Trier che vi partecipò con la sua Zoetropa. Gli attori erano tre assi meravigliosi del Cinema Scandinavo: Mads Mikkelsen consacrato con la Palma d'oro a Cannes per IL SOSPETTO di Thomas Vinterberg; Sidse Babett Knudsen bellissima e intensa poi approdata al Cinema d'Oltralpe con 150 MILLIGRAMMI della Bercot e LA CORTE con Luchini; Rolf Lassgard grande svedese indimenticabile in MR. OVE. Questo per dire che il remake Usa che ne ha fatto ora Bart Freundlich ha dovuto vedersela con un pezzo da Novanta, sia filmico sia interpretativo. L'idea molto bella è stata di ribaltare i due ruoli maschili in femminili affidandoli alla moglie di Freundlich, Julianne Moore e a Michelle Williams, splendide. Affiancate da Billy Crudup come sempre super nel ruolo che era della Kundsen: amante nel passato della Williams, coniuge nel presentre della Moore. Il gioco complesso di agnizioni, volontà testamentarie, passaggi del testimone affettivo assume cosi una connotazione tutta femminile, rendendo il film più lieve arioso seppur metropolitano e newyorchese. Rispetto al film della Bier, assolutamente magnifico e tragico, più giocato sulla scacchiera del femminile che da un iniziale possibile EVA CONTRO EVA, si trasforma a vista in una sorta di commedia morale alla Paul Mazursky. Scegliendo toni introspettivi pur calati nell'analisi di un milieu mondano più accentuato. All'ombra più di un modello insuperabile come RICCHE E FAMOSE di George Cukor, che degli evidenti richiami bergmaniani della Bier. Quindi un film da vedere e magari confrontare col suo prototipo, per studiare i diversi linguaggi con cui può essere raccontata una stessa storia. Assolutamente da non raccontare a parole, per non togliere le sorprese continue, previste da un plot persino più intrigante di un thriller. (Carlo Confalonieri)

LES MISERABLES
- L'ariosa sequenza d'apertura, girata davanti all'Arco Trionfo durante i festeggiamenti per la Coppa del Mondo 2018, mostra un popolo unito sotto le bandiere tricolori francesi. Dura poco. Con uno scarto improvviso Ladj Ly ci catapulta nel quartiere di Montfermeil oggi ,dove è cresciuto e girò un cortometraggio che porta lo stesso titolo del romanzo di Victor Hugo, non a caso proprio come questo suo primo lungometraggio che ne è lo sviluppo e che l'anno scorso vinse al Festival di Cannes un meritatissimo Premio della Giuria. Dai Miserabili ai Nuovi Miserabili. Dall' illusoria libertè egalitè fraternitè, alla più totale frammentazione della cittadina inferno-prigione, polverizzata in clan, sette religiose, racket, polveriere islamiche, giri di spaccio, prostituzione e compravendita di ogni refurtiva. Ci introduce nei suoi gironi una squadra di polizia che la carismatica Jeanne Balibar ha messo in piedi al commissariato. Tre agenti psicologicamente diversi e complementari: Chris (Alexis Manenti) detentore di ogni sopruso, Gwuada (Djebril Zonga) nero atletico scattante e Stephane (Damien Bonnard) eclettico astro nascente del Cinema d'Oltralpe), il nuovo arrivato introverso, trasferito per star vicino al figlio, ignaro dell'incubo in cui verrà precipitato. Il film parte classico come un ottimo polar nella prima parte. Via via se ne discosta, prendendo un duplice andamento anomalo che diventa la sua forza.  Da un lato riuscendo perfettamente in quella fusione documentaristica e di finzione che lo aggancia a una visione potentissima del reale (cosa che sfuggì di mano a Mathieu Kassovitz nel pur interessante L'ODIO). Dall'altro percorrendo la traccia di quel meraviglioso film di Bertrand Tavernier che è L.627. Mostrando cioè l'impossibilità di applicare una legge scritta in una realtà che la travalica. Il film di Ladj Ly nella sua furia visiva procede infatti per sfumature, arrivando in una terra di nessuno dove bene e male non sono più distinguibili, concentrandosi su un elemento umano in formazione fatto di bambini preadolescenti senza un'identità etica ben precisa. Saranno loro l'obiettivo su cui dovrà concentrarsi la squadra di polizia ,in un gioco al massacro estenuante continuamente ribaltato,filmato (l'idea geniale del drone) ricattato e ricattabile. Fino a uno spostamento identitario dei ruoli guardia-ladro, scivoloso sotto l'aspetto etico e umano. Splendido esempio di Cinema 'en plein air' con la macchina a mano elettrizzante di Julien Poupard, che a parte i pochi interni in auto nel Kebab e nel Commissariato, vola tra i vicoli, le strade e i palazzoni tutti uguali come fosse anch'essa un drone.  Il risultato toglie il fiato, scava nella coscienza, scortica la visione.    (Carlo Confalonieri)


ROSETTA (Palma d'Oro 1999 Festival di Cannes)
- L'indomabile macchina da presa a mano di Jean-Pierre e Luc Dardenne, freneticamente all'inizio inseguimento di Rosetta nella sua via crucis di miseria e disoccupazione, è come una lama. O meglio un bisturi, che nello squallido paesaggio di una cittadina industriale (e più simbolicamente nel panorama della civiltà industriale del profitto) isola il cancro della disumanità. Non direttamente quella che causa sofferenza altrui, ma quella generata dal dolore provocato dall'indifferenza, dal materialismo e dalle spietate regole dell'interesse. Anche se la catena non s'interrompe e chi soffre fino a disumanizzarsi farà a sua volta patire qualcun’altro. Come accade alla giovane Rosetta, presa a calci dalla vita, emarginata, con la madre alcolizzata in una roulotte dell'hinterland di Liegi, continuamente licenziata causa i contratti a termine e la lotta da giungla per avere un posto di lavoro. Sempre vicina al baratro della catastrofe, da cui rifugge con la furiosa volontà di integrarsi in una società che non la vuole. Al punto limite - raramente rappresentato con altrettanta brutalità da un'opera d'arte (da NEL FONDO di Massimo Gorkji in avanti) sul mondo dei miserabili, - di vendere anche i sentimenti propri e altrui per un pezzo di pane. Che è quanto avviene nei confronti del suo unico amico, prima quasi lasciato morire e poi tradito pur di rubargli il lavoro (da notare che il 'tradimento' costituiva uno degli snodi anche de LA PROMESSE, precedente film dei Dardenne). Con stile neorealista e controcorrente, i due registi belgi piegano il loro passato di documentaristi a una fiction che non sembra assolutamente tale. Sia per una ragione oggettiva, grazie a una scelta espressiva estrema e rigorosa che concentra quasi costantemente l'obiettivo su Rosetta e in particolare sul suo volto indurito e straziante, isolandolo nella sua tragicità dalle immagini circostanti (la performance di Emilie Duquenne è impressionante, soprattutto sapendola un'attrice che in fondo sta recitando). Sia per una ragione soggettiva -che è un po' conseguenza dell'altra- di percezione dello spettatore, pressoché indotto a vedere le cose con gli occhi di Rosetta. Con risultati sconvolgenti, brutali, talora sgradevoli, che senza la mediazione di una presa di distanza potrebbero persino falsare il giudizio nei confronti di un film ostico e senza consolazioni, ma innegabilmente bello e provocatoriamente coraggioso. PALMA d'ORO al FESTIVAL di CANNES. (Carlo Confalonieri)

SHOPLIFTERS - UN AFFARE DI FAMIGLIA (Palma d'Oro 2018 Festival di Cannes)
- Fin dal titolo internazionale, il nuovo film di Hirokazu Kore-eda, Palma d’oro al Festival di Cannes mette il furto al centro delle sue consuete tematiche famigliari. Rubare nei supermercati, rubare persone, rubare affetti. Per ri/costruire un concetto di famiglia non più affidato al caso ma ad una scelta, a un libero arbitrio. Nell'interno orizzontalmente alla Ozu della catapecchia in cui vivono tutti insieme gli Shibata, i ruoli di padre madre figli nonna zia hanno un valore solo nominale, non consanguineo come scopriremo in parte fin dall’inizio e poi strada facendo in una serie di risvolti noir. L'affettività degli armoniosi FATHER AND SON e LITTLE SISTER incrocia la crudelta' di NESSUNO LO SA, le più verità del rashomoniano THE THIRD MURDER e il tentativo di comporre un nuovo concetto di famiglia di RITRATTO DI FAMIGLIA CON TEMPESTA. Ne esce una summa del cinema del nuovo maestro del cinema giapponese, le sue famiglie disfunzionali che diventano funzionali, le sue verità apparenti svelate in un gioco estremo dove il male diventa bene in un ribaltamento dell'ottica morale. Che giustifica il furto materiale come accadeva in LADRI DI BICICLETTE e quello sentimentale come correzione delle distorsioni umane. Kore-eda nel suo film più complesso e labirintico decostruisce la costruzione apparente di una famiglia, per arrivare all’essenza delle relazioni. Quella che dovrebbe supportarne con amore e affetto consapevoli le dinamiche, invece affidate alle regole alle leggi alle convenzioni. In un capolavoro di scrittura filmica che assolve con gli sguardi e coi silenzi (grazie e papà diranno senza voce prima una nonna - la monumentale Kirin Kiki gia' SIGNORA TOKU per Naomi Kawase - e poi un figlio che non sono tali, ma quelle due parole urleranno dentro di noi) con le lacrime e coi sorrisi, i crimini commessi in nome dell'amore. (Carlo Confalonieri)

LA VITA DI ADELE (Palma d'Oro 2013 Festival di Cannes) - Grandiosa opera umanistica, nel più alto significato di osservazione dell'animo umano. La cinepresa geniale di Abdellatif Kechiche filma per 3 ore l'iniziazione sentimentale e sessuale della giovane Adele, abbandonandosi ai più sottili dettagli psicosomatici. Le ciglia esprimono in un battito lo stupore, la saliva sulle labbra un'infantile impossibilità di restare bambini, un sorriso spezzato l'incertezza dell'adolescenza. Un mondo chiuso nei primi piani e campi ravvicinati. Adele esce, sale sull'autobus, va al liceo … ci rivediamo tutti in quei percorsi di distacco, di iniziale libertà. Poi all'improvviso arriva la ragazza dai capelli blu uscita dalla Graphic Novel LE BLEU EST UNE COULER CHAUDE di Julie Maroh. E per Adele il mondo si ferma. E' quella lesbica navigata ad aprirle il sipario della vita, della vita vera. A farla uscire dalla scuola e dall'apprendistato a vivere. Si arresta il cuore di Adele, poi batte sempre più forte e la cinepresa ne incalza e segue il ritmo. Sarà un viaggio straordinario ‘a bout de souffle’ nell’incarnazione rappresentata dal sesso e dalla sessualità, motore primario. Un'apertura alle gioie e alle ferite scandite nell'Odissea umana che tutti abbiamo intrapreso (si spera) diretti a una meta di corpo che diventa anima e viceversa. Kechiche, a meta' opera, filma un lunghissimo amplesso fra le due donne come mai si è visto al cinema, trasportando la carne, il pensiero, il desiderio, direttamente dallo schermo al grembo dello spettatore. Fecondandolo con una purificazione visiva dell'atto più nascosto della condotta umana. Fare l'amore col corpo, coi corpi che si trasfigurano nel più totale realismo. Senza parole per un tempo infinito e sublime che resta. Dopo seguirà la logica, i tradimenti le incomprensioni, ma non importa, Kechiche ha fissato una partenza che è anche un arrivo. Senza fare un film a tematica puramente omosessuale, bensì psicologica fino alle estreme conseguenze. Aperta dolorosamente e a tratti felicemente in viaggio, come la vita vera. Il grande viaggio nel desiderio, nella conoscenza di sé e degli altri. Adele Exarchopoulos rivelazione assoluta attorno a cui ruota tutto il film, che addirittura si ispira al suo nome, è sublime. Lea Seydoux conferma un talento di intensità magnetica, che cattura l'inquadratura.  La Palma d'Oro di Cannes fu all'unanimità e assolutamente indiscutibile. (Carlo Confalonieri)