THE APPRENTICE
- ALLE ORIGINI DI TRUMP di Ali Abbasi - L'iraniano danese
Ali Abbasi è uno dei più grandi autori sulla fascinazione del
male. Giunto al terzo film dopo i Troll assatanati del magnifico
BORDER, il serial killer "specchio" del superbo HOLY SPIDER,
affronta due dei più grandi demoni del "Declino dell'impero
Americano" : Donald Trump e Roy Chon. Quest'ultimo già
affrontato drammaturgicamente nel Capolavoro Teatrale ANGELS IN
AMERICA di Tony Kushner (di cui in Italia resta memorabile la
meravigliosa messinscena ad opera del Teatro dell'Elfo di quasi
7 ore che vidi 6 volte, dove Roy Chon era interpretato da un
gigantesco Elio De Capitani anche coregista) esce di nuovo come
un Demone creatore di altri Demoni, un Frankenstein creatore di
mostruose creature, un Mefistofele in cerca del suo Faust. Un
corruttore ipercorrotto, che da avvocato nella New York Anni 70
corrompe e ricatta tutti pur di vincere sempre. Infestatore
infetto tra i primi ad essere colpito dall'Aids per la sua
promiscuità omosessuale peraltro, come mostra bene ANGELS IN
AMERICA, negata a favore della sua immagine di uomo tutto d'un
pezzo che mandò alla sedia elettrica anche Ethel Rosenberg.
Tutore fasullo e ipocrita dei falsi valori americani, minacciati
dal comunismo e dalla comunità gay. Un mostro a tutto tondo che
Ali Abbasi, grande autore audacissimo che non si ferma davanti a
nulla com'è giusto che sia, ci mostra anche nudo in un'orgia
omosessuale degna di un film porno gay pre-esplosione dell'Aids,
poco dopo aver inneggiato in smoking ai valori morali della
Società Americana durante un party in cui appare anche Andy
Warhol. Corruttore corrotto trova in un giovane Donald Trump, di
cui sappiamo tanto ma non sapevamo questo, la sua Creatura, il
suo Faust, il suo Troll da mutare in demone assoluto. Il Film
stupendamente vintage come un reperto Anni 70 fra Disco Music a
balla (adoro) e il grande Circo newyorchese di quegli Anni,
autenticamente caduta dell'Impero post-romano (altrochè il
pastrocchio indigeribile del Coppola di MEGALOPOLIS) va
assolutamente nel fondo e nel centro del Male. In uno scavo
senza mezze misure che diventa, come nell' IRRESISTIBILE ASCESA
DI ARTURTO UI di Bertolt Brecht, un ritratto infernale di
un'ascesa al contrario, di un'ascesa/discesa agli inferi del
potere del denaro del comando dittatoriale. Con pagine, sempre
nello stile Abbasi che non fa sconti, di inaudita violenza come
lo stupro di Trump nei confronti della moglie Ivana disprezzata
in privato ed esibita in pubblico. Il resto è Storia nota di cui
fra breve potrebbe scriversi una nuova pagina delirante della
Storia Americana. Non esitate correte a vederlo, ne uscirete
sconvolti ma illuminati.
(Carlo Confalonieri)
VERMIGLIO
di Maura Delpero - Come
nel capolavoro pittorico IL DOLORE CONFORTATO DALLA FEDE di
Giovanni Segantini - dove due angeli sovrastano la scena del
funerale di un bimbo in un cimitero innevato di montagna - anche
in VERMIGLIO, magnifica opera seconda dopo MATERNAL di Maura
Delpero - si ha sempre la sensazione che ogni immagine, ogni
inquadratura sia sovrastata da un' altra che non vediamo. Perché
il procedere del film e delle storie intrecciate è sempre
ellittico: ci viene mostrata una parte, ma non il tutto. Questo
rende l'affresco umano di uno sperduto paesino alpino sul finire
della seconda guerra mondiale, incalzante nella sua
indeterminatezza. Se fossimo in un paesaggio marino penseremmo
alle onde, una incalza l'altra. Ma in fondo anche le montagne
mutano pur nella loro immobilità. E questo mutare, questo
movimento musicale e stagionale, assecondato da Vivaldi nella
colonna sonora, va tutto in direzione delle donne del paese.
Madri, figlie, sorelle anch'elle sovrastate dalla figura
maschile patriarcale, ma in fondo libere vitali e soprattutto
fertili come le donne di oggi non sono più. Il desiderio di
Maternità come in MATERNAL è fortissimo e travalica ogni
difficoltà (e la religione stessa). Anche quella di abbandonare
un figlio dalle suore (come in MATERNAL e qui l'impronta diventa
autoriale) per andare a servire in città come ne IL SOLE NEGLI
OCCHI di quel grande cantore dell'anima femminile che fu e resta
Antonio Pietrangeli. E poi più Scola de LA FAMIGLIA per
l'assenza di un vero dialogo all'interno di questa istituzione,
che Olmi a cui Delpero è addirittura antitetica con un'impronta
fortemente anticlericale e a tratti cruda e spietatamente vera
per quanto riguarda la sessualità e le ideologie politiche. Un
po' come l'Haneke de IL NASTRO BIANCO. Anche il paesaggio passa
dalla fertilità uterina alla disperazione della sterilità. Ombre
sulla neve, poco sole anche d'estate, la vita dei diseredati
come ne LA TERRA TREMA di Luchino Visconti. Ma sempre vista come
da uno spiraglio, da un buco nel muro che nel rigore delle
inquadrature ci impedisce di andare oltre, per andare subito
altrove. Mentre sopra a tutto le donne giganteggiano anche
quando si decide per loro. In un certo senso un altare laico a
tutte le donne di ieri, alla loro forza silenziosa senza
proclami capace di muovere le montagne. Gran Premio della Giuria
a Venezia e Candidato agli Oscar per l'Italia. (Carlo Confalonieri)
LA MISURA DEL DUBBIO di
Daniel Auteil - LA RAGAZZA COL BRACCIALETTO di Stephane
Demoustier, SAINT OMER di Alice Diop, ANATOMIA DI UNA CADUTA di
Justine Triet, IL PROCESSO GOLDMAN di Cedric Kahn e LA MISURA
DEL DUBBIO, nuova prova del grande attore Daniel Auteil anche
come regista. Cinque titoli tutti magnifici con cui il Cinema
Francese in questi anni ha riscoperto e riscritto il genere
giudiziario. Anche Auteil fa, infatti, dell'aula di un Tribunale
lo specchio di un tortuoso percorso psicologico. L'avvocato Jean
Monier ,mirabilmente interpretato da Auteil, dopo aver lasciato
il diritto penale a seguito dell'assoluzione di un suo cliente
poi tornato ad uccidere, ritorna in Corte d'Assise trascinato
dal caso di Nicolas ( Gregory Gadebois indimenticabile) un mite
padre di famiglia accusato della morte della moglie. Dopo anni
di detenzione prevenzione si approda al processo. Ma nel
frattempo per Monier il caso di Nicolas è diventato
un'ossessione. Convinto della sua innocenza, la sua
imperturbabile professionalità vacilla portandolo a travalicare
il ruolo di un normale difensore. In uno scavo e a tratti
un'identificazione morale col suo cliente, che lo rende via via
sempre più determinato, ma anche fragile. Mentre Nicolas pare
quasi rassegnato ad accettare una condanna e un errore
giudiziario. Sarà proprio Nicolas su cui gravano indizi, ma non
vere prove, a diventare non solo la fissazione di Monier, ma il
centro di un'attenzione che sfiora il dubbio, senza risolversi
completamente. Come fosse tutto troppo chiaro. Incrociando le
udienze processuali con i flashback dell'accaduto, sezionato da
vari punti di vista. Finendo per diventare tutto scivoloso e
paludoso come i luoghi della Camargue, dove Auteil ha trasferito
(conoscendoli bene essendoci nato) questa vicenda processuale,
ispirata a una delle storie vere pubblicate dall'avvocato Jean
Yves Moyart. Come i titoli citati in apertura, anche il film di
Auteil riscrive il genere processuale, con un affondo
psicologico fortissimo, nonché un senso della suspense che passa
dal noir al polar, fino ad infrangere schemi che pur restando
rigorosi diventano altro. Trasformandosi a vista nei gradini di
una discesa agli inferi, dove il delitto diventa una delle
rifrazioni più patologiche - eppur umanamente possibili –
dell'anima. Mentre anche il buon Nicolas si trasforma in una
sfinge terrificante, come i tori nelle corride di quei luoghi
resi da Auteil con occhio antituristico e potentemente
simbolico. Un film assolutamente perfetto. (Carlo Confalonieri)
L'INNOCENZA (MONSTER) di
Kore-eda Hirokazu - Da un Maestro e un Gigante capace di fare di
ogni immagine reale un simbolo (come nei sogni) e di ogni
inquadratura l'inquadratura di qualcos'altro rispetto a ciò che
vediamo, arriva la Summa immensa di tutto il suo Cinema. Ne
L'INNOCENZA (Monster) confluiscono infatti tutti i temi di
Kore-eda Hirokazu: il segreto di "Nessuno lo sa"; le tante
verità rashomoniane de "Il terzo delitto"; la destrutturazione
della famiglia tradizionale e la sua sostituzione - come in "Un
affare di famiglia"- con single, vedovi, orfani, assassini
involontari, omosessuali (non a caso a Cannes oltre al premio
alla sceneggiatura di Yuji Sakamoto, il film si è meritatamente
aggiudicato la Queer Palm destinata al miglior film a tematica
Lgbt); la tempesta climatica di "Ritratto di famiglia con
tempesta" che diventa tempesta interiore. Dopo la narrazione di
un incidente scolastico che 1) per Saori, la madre del piccolo
Minato, è persecuzione del maestro Hori nei confronti del figlio
- orfano di un padre mitizzato come esempio virile dalla madre -
2) per il maestro Hori è un episodio di bullismo da parte di
Minato verso il suo compagno di classe effeminato - Eri 3)
infine, nel lungo flashback che rivela tutto, attraverso lo
sguardo di Minato, è ben altro. Sono infatti i "Segreti e bugie"
(prendo a prestito il titolo del Capolavoro di Mike Leigh),
inconfessabili gli uni e mistificatrici le altre, di una verità
che fa star male un adolescente, fino a fargli tentare il
suicidio (ma Hirokazu è un grande saggio e non un acerbo
principiante come il Lukas Dohnt dell'insopportabile "Close" e
non ce lo propina). Perché come sempre accade in Hirokazu
arrivano le immagini a fare luce in un buio assoluto, come su
quel vetro nero che Saori e Hiro tentano di pulire con grande
fatica per salvare Minato e Eri mentre incombe la tempesta. Quel
vetro che nonostante i loro sforzi e le gocce di pioggia resta
sempre scuro. Come è oscura l'anima profonda e nascosta negli
esseri umani. Ma d'un tratto arriva la luce di una bellissima
giornata, presagio di verità, bellezza, amore. Quello vero, che
non dice e non può dire il suo nome, ma urla al mondo il bene
dell'amore, della fratellanza, dello spirito e dei sensi. Le
ultime note composte per il film da quell'altro gigante della
Cultura e dell'Arte Giapponese che è Ryuchi Sakamato
intensificano la simbologia e nell'inquadratura della preside -
prima sfingea e algida - che nasconde un altro segreto e si
scioglie nella disperazione guardando il fiume sotto la
tempesta, si compone uno dei punti massimi visivi del Cinema e
dell'Arte figurativa contemporanea. Sublime, Magistrale,
Mostruosamente Bello. (Carlo Confalonieri)
MARCELLO MIO di Christophe
Honore' - Meraviglia delle Meraviglie. Ma quanto dolore per
arrivare alla Meraviglia, lo narra come sempre mirabilmente
Christophe Honore', uno dei più grandi Registi e Autori che
hanno davvero cambiato il Cinema, i suoi linguaggi, la sua
morale e persino la sua sessualità. In uno dei Film più liberi
che l'immaginario possa concepire, Honore' ripercorre il
tortuoso cammino dell'identità come in uno psicodramma, come in
una seduta psicanalitica, come in un film di Bergman e Fellini.
Federico che trovò il suo alter ego in Marcello Mastroianni,
passa infatti il testimone alla figlia Chiara, da sempre
splendida, unica, complessa attrice feticcio e musa di Honore'.
Spesso suo alter ego e parte femminile della sua omosessualità
in film di assoluta bellezza e audacia psicologica (LES CHANSONS
D'AMOUR, NO MA FILLE TU N'IRA PAS A DANSER, L'HOMME AU BAIN -
insieme al divo del Cinema porno gay Francois Sagat - e quel
capolavoro assoluto che è L'HOTEL DEGLI AMORI SMARRITI). Chiara
Mastroianni stavolta diventa Marcello Mastroianni,quasi in un
processo di metamorfosi (METHAMORPHOSES da Ovidio d'altronde è
un altro bellissimo titolo di Honore') che la conduce ad
indossare i panni paterni del divino Marcello. Aggirandosi per
le vie di Parigi quasi fosse Julie Andrews nell'indimenticabile
VICTOR VICTORIA di Blake Edwards. La ragione è la sua profonda
inquietudine, che le fa ritrovare una mattina anziché se stessa,
L'IMMAGINE ALLO SPECCHIO (e qui e' Bergman) del padre, a cui
Chiara peraltro assomiglia in modo impressionante. Ha voglia sua
madre, la regale Catherine Deneuve - che fu stupenda ne LES BIEN
AIMEE di Honore' al fianco nientemeno di Milos Forman in veste
d'attore - che è anche figlia sua e che assomiglia anche a lei
(ma dove? Chiara maturando è proprio la sosia di Marcello). La
partita Psy è tra lei e il padre, tra lei e quel maschile
meraviglioso e seducente che fu anche spesso femminile, senza
timore di perdere un briciolo della sua virilità: nel Capolavoro
di Scola UNA GIORNATA PARTICOLARE dove Mastroianni interpreta un
incantevole omosessuale o ne IL BELL'ANTONIO di Mauro Bolognini
dove Mastroianni non teme di vestire i panni di un affascinante
impotente. Tutto diventa viaggio nel Cinema e nella Psiche, in
questo MARCELLO MIO, fin dall'incipit scioccante in cui Chiara
per uno spot pubblicitario diventa Anita Ekberg in una fontana
parigina, ma senza riuscire ad esserlo e soffrendo tantissimo
perché lei invece si sente Marcello. Finche' si legittimera' e
darà un nome al suo dolore, proprio come fosse in un percorso
psicanalitico, andando a cercare il padre, vestendone i panni.
Per giorni e notti, incontrando, come ne LE NOTTI BIANCHE di
Luchino Visconti, un soldato su un ponte che attende l'uomo di
cui si è perdutamente innamorato. Ma poi si innamorerà di Chiara
credendola un uomo (una svolta cosi è solo di un Genio del
Cinema come Honore'). O finendo in caotico studio televisivo
italiano come in GINGER E FRED, stupendo e amaro di Federico
Fellini, per ritrovare Stefania Sandrelli che fu sua partner
("sua" di Marcello) in DIVORZIO ALL'ITALIANA di Pietro Germi. La
corsa nell'inconscio non è una fuga - anzi - e Chiara, che da
bimba il padre chiamava polpetta, ritroverà se stessa, come
Giulietta Masina che in GIULIETTA DEGLI SPIRITI Fellini
ribattezzo' "la bistecchina", mettendola sulla graticola onirica
rivelatrice. Honore' in questo Film stupefacente, che con
ESTRANEI di Andrew Haigh e CONFIDENZA di Daniele Lucchetti sale
al primo posto ex aequo nella mia TOP 2024, fa lo stesso
Miracolo, con quella libertà assoluta che solo il Cinema e la
Psicanalisi hanno, quando seguono però percorsi invisibilmente
rigorosi. Capaci di sciogliere il dramma, il dolore, il
malessere nella serenità finale di quel grande mare che è
l'inconscio. Che appare nel finale di questo Capolavoro del
Cinema Moderno, quell'inconscio in cui finalmente si riesce a
nuotare liberi, consapevoli e rasserenati. Il più bel regalo da
Cannes, premiarlo sarebbe il minimo. (Carlo Confalonieri)
IL
GUSTO DELLE COSE (La passion de Dodin Bouffant) di
Tran Ahn Hung - Il cibo come fonte lussureggiante di piacere
diventa nel magnifico film del franco vietnamita Tran Anh
Hung-noto per l'indimenticabile IL PROFUMO DELLA PAPAYA VERDE -
una funebre fonte di morte. In uno dei film visivamente più
splendidi (merito anche della fotografia degna di un quadro
impressionista del grande direttore della fotografia Jonathan
Riquebourg, (si pensi al suo lavoro immane riguardo a LA MORTE
DI LUIGI XIV di Albert Serra), l'arte culinaria portata alle
soglie dell'ossessione, diventa una delle cose più mortifere che
l'essere umano abbia creato. Nel continuo rituale gastronomico
fra il gourmet Dodin Bouffant e la sua cuoca e amante Eugenie (Benoit
Magimel e Juliette Binoche all'apice della loro arte) nella
Loira dei Castelli di fine 800, è silenzio assoluto,
eliminazione di qualsiasi psicologia, per far posto alla
materia. Lavorata forse anche elevata ad 'arte', ma pur sempre
materia senza vita, fonte di un piacere istantaneo e illusorio
legato a pochi centimetri di palato e di papille gustative.
Nell'immenso cerimoniale lungo oltre 2 ore, il grande regista
premiato non a caso a Cannes per la Miglior Regia, si concentra
sugli ingredienti dei piatti preparati con un occhio magistrale.
Mostrandone l'arma a doppio taglio: fonte di piacere e orale
veicolo di morte. La passione di Dodin Bouffant, che diventa
passione liturgicamente funerea. Siamo infatti nell'ottica
opposta rispetto al sublime IL PRANZO DI BABETTE di Gabriel Axel,
dove il cibo diventava autentica fonte spirituale. Qui è e resta
fonte di morte, incarnata da Eugenie, che pare avviata a un
masochistico ruolo di vittima designata dell'incapacità di amare
le persone di Dodin Bouffant, patologicamente vittima della sua
ossessione. Che lo portera' non solo a confessare che Eugenie
non è una moglie, ma la sua cuoca. Nonche' a tentare di
sostituirla con un procedimento identificativo esteriore, simile
a quello che porta James Stewart a sostituire Kim Novak in
VERTIGO, capolavoro dei capolavori di Alfred Hitchcock e il film
piu' "malato" di tutta la Storia del Cinema. Raramente sono
uscito più devastato da un film, che pare luminoso mentre in
realtà è quanto di piu' cupo si possa immaginare. Perché quest'opera
magistrale ti fa capire, senza mezzi termini, quanto ci siamo
ridotti a vivere nella più assoluta oralità consumistica,
rinunciando a una vera spiritualità. Di cui però c'è ancora
traccia in quei templi dell'anima del sogno e dell'inconscio che
sono i Cinema. Ancora in grado di regalarci simili trattati
filosofici, psicologici ed esistenziali, che - ferendoci -
riescono a farci pensare e riflettere in quel deserto spirituale
che è il nostro mondo. MAGNIFICO FILM CARDINE DEL NOSTRO TEMPO
OSCURO, dominato non a caso dagli Chef più o meno stellati
celebranti la chiesa dell'oralità più sfrenata.
(Carlo Confalonieri)
ANSELM
di Wim Wenders - A formare quasi un dittico col meraviglioso
PINA, ritratto poetico danzante surreale dell'immensa Pina
Bausch, Wim Wenders immortala e rende allo stesso tempo umano
un'altra figura titanica dell'Arte Teutonica, discendente dai
Miti e diventata Mito nella più pure accezione Junghiana. Ovvero
quella che attraverso i Miti e la Mitologia riscrive, interpreta
e simbolizza la Storia. Nessun altro Artista delle Arti
Figurative discende dal Mito e si inoltra nella Mitologia più di
Anselm Kiefer, che come un Sigfrido o un Parsifal prende la
materia e la trasforma in Sogno e Incubo, per poter rileggere e
viaggiare attraverso la Storia, tentare di risolverne i destini
non scritti, le tragedie inevitabili, gli orrori e gli errori,
specchio e risultato gli uni degli altri. Wenders ha un
approccio assolutamente intimo con Kiefer fin dal titolo ANSELM,
fin dall'incipit, che nell'immenso atelier di Bajrac in Francia
lo vede attraversare in bicicletta enormi saloni e immensi
hangar dove alloggiano le sue opere monster colossali e
gigantesche. Come fossero scenografie di una dimensione
totalmente onirica, un pò come al tempo creò Luca Ronconi per il
suo indimenticabile ORLANDO FURIOSO. E le Furie, le Benevole che
danno il titolo al più grande Capolavoro letterario sul Nazismo
LE BENEVOLE di Jonathan Littel, anch'esso opera monster ma di
lettura obbligatoria, sono presenti in quelle Creazioni
gigantesche, incombenti, eppure assolutamente astratte e
immateriali pur nella loro totale materialità. E lì che - usando
il piombo, il ferro, l'acciaio fuso, il cemento armato - Kiefer
ricostruisce e decostruisce l'incubo del Nazismo, l'onta
incancellabile della sua nazione, il peccato primigenio della
Storia dell'Uomo diventato demone. Cresciuto come Wenders tra le
macerie di una Nazione devastata e autodevastata, Anselm si
aggira nei labirinti dell'Arte in cerca del Filo d'Arianna della
Memoria. Wenders segue quel filo di piombo e con il suo genio
visivo, proprio come Kiefer, lo rende più leggero mettendoselo
sulle spalle, facendone carico fino in fondo. Guardandolo negli
occhi spettrali in un procedimento opposto e ugualmente geniale
a quello usato da Jonathan Glazer nel magnifico LA ZONA
D'INTERESSE. Wenders con la macchina da presa, Kiefer con tutti
i marchingegni che fanno del suo Atelier una fabbrica. Come
intitolai una rassegna Cinematografica molti anni fa IL PESO DEL
MONDO, solo così può diventare sostenibile. Tirando fuori dalle
tombe gli scheletri della Storia e 'abbracciandoli' come fa
anche il il genio di Pedro Almodovar nel finale bellissimo di
MADRI PARALLELE. Solo così forse si troverà la pace e il sonno
ristoratore degli uomini diventati Dei. (Carlo Confalonieri)
E
LA FESTA CONTINUA! di
Robert Guediguian - Penso che il solo modo per fare oggi film
ancora autenticamente di sinistra e al contempo fare film
meravigliosi sia quello di Robert Guediguian. Lontano dagli
intellettualismi ammuffiti di Nanni Moretti e dallo schematismo
naturalistico di Ken Loach, il grande autore di Marsiglia parla
di politica in modo assolutamente umanistico, privato e poetico.
Anche nel suo nuovo Capolavoro ET LA FETE CONTINUE! intreccia
come già in GLORIA MUNDI, magnifico, persone e idee in modo
strettissimo. Con un'osservazione delle vite così mirabilmente
sensibile da trasformarle, modellarle, condurle verso versanti
che da ideologici diventano inaspettatamente umani, civili e
sociali in senso privatissimo. Rosa, la sempre gigantesca Ariane
Ascaride complice artistica e compagna di vita di Guediguian, è
Rosa infermiera prossima alla pensione, capolista alle elezioni
comunali dei verdi, perché come lei stessa dice al fratello di
comunisti è rimasto solo lui. Ma mettere insieme un programma
per una che ci crede come lei non è facile. Finchè conosce il
padre (Jean-Pierre Darroussin, magnifico) della futura nuora e
lei vedova da molti anni si innamora di nuovo. Ed è proprio
amando e anche sessualmente aprendosi di nuovo alla vita, che
trova il suo vero equilibrio politico. Dare amore, non solo
idealizzare un'idea di dare. E qui il film pur mantenendo
l'andamento di una sublime rapsodia composta da tanti
personaggi, svetta nella costruzione di un personaggio di una
sincerità assoluta e disarmante. Rosa che mentre nuota si chiede
se voglia ancora impegnarsi politicamente o se invece voglia
dare amore nell'ultimo scorcio della propria vita. E così
diventare ancora più vera e autentica. Un pò come tutti i
personaggi, i figli la futura nuora, il fratello, la giovane
infermiera, al bivio delle loro esistenze, che troveranno un
modo personale di renderle politiche (il figlio accetta la
sterilità della futura moglie, lui che voleva tanti figli,
perché si puo' anche adottare ecc.). Guediguian inoltre fa
politica con un'armonia visiva e musicale di livello altamente
emotivo. Usando le musiche di Schubert (la danza notturna e
aerea da' i brividi), Mozart, Aznavour e il Georges Delerue de
IL DISPREZZO di Godard, nonchè immagini sacre come il Cenacolo o
il Cristo del Mantegna che ispirò Pasolini in MAMMA ROMA in
chiave laica e simbolica, ovvero di una spiritualità
appartenente all'umanità, ai giusti, ai buoni, non solo alla
Chiesa. E la circolarità attorno al crollo di un palazzo
popolare di Marsiglia e alle proteste avvenute anni dopo, ha una
teatralizzazione cosi importante da divenire quasi liturgica.
Proprio come il monologo finale di Rosa nell'arena sulle parole
di Rosa Luxembourg. Forse lascerà il partito forse no, ma avrà
comunque detto ai componenti delle fazioni di sinistra che a
loro degli ideali non frega nulla, importando solo la propria
affermazione personale. Parole che arrivano come sassate, ma
anche moniti e stimoli visto che a Marsiglia una donna di
sinistra ha veramente buttato giù la giunta di destra che
dominava da 35 anni. Sicuramente il film più bello che potete
vedere. (Carlo Confalonieri)
MAY DECEMBER di Todd
Haynes - "Quell'estate del 42" di Robert Mulligan narrava
mirabilmente l'amore romantico fra un ragazzino e una donna
matura. Dimenticatelo. Se vedrete il nuovo film di quel genio
assoluto della tossicità dei rapporti umani che èTodd Haynes,
capirete che nulla di romantico c'è nella love story fra Gracie
(Julianne Moore per la terza volta psychomusa di Haynes dopo le
psicosi psicosomatiche, di "Safe" e le rimozioni psicosessuali
di "Lontano dal Paradiso" metamelo sirkiano) e Joe, lei 36enne
lui 13enne. Li ritroviamo molti anni dopo, apparentemente
felicemente sposati ("May December" è una coppia con molta
differenza d'eta') con tre figli, dopo che lei abbandonò marito
e figli e si fece pure la galera incinta di Joe. Un caso
mediatico da tabloid che fece esplodere il perbenismo Usa e su
cui si girerà un film indipendente, interpretato da Elizabeth (Natalie
Portman mostruosamente brava) che raggiunge Gracie e Joe nel
loro nido di Savannah, dove ricevono ancora molti anni dopo
scatole piene di merda dagli abitanti del posto. Elizabeth è una
di quelle attrici che indaga sui personaggi reali che deve
interpretare, sicchè inizia a vampirizzare senza il minimo
scrupolo Gracie, Joe e tutto il loro entourage. Fino a scoprire
il vero vampirismo perpetrato da Gracie nei confronti di Joe (Charles
Melton oscuro oggetto del desiderio, in età diverse, delle due
donne, Gracie col triplo dei suoi anni, Elizabeth alla stessa
età). Segreti e bugie, false felicità che nascondono dominazioni
possessi manipolazioni e controlli. Gracie controlla tutto di
Joe, Elizabeth come un detective controlla tutto di Gracie,
dietro al cui perenne self control e al sorriso tiratissimo
appare una psicosi galoppante. E qui arriva Ingmar Bergman col
suo PERSONA, che Haynes prende come punto di riferimenti
mettendo le due donne, spesso riprese allo specchio, di fronte
ai loro demoni e fondendo quelli dell'una in quelli dell'altra.
L'America frantumata di Haynes diventa cosi la psiche frantumata
rappresentata dal Maestro dei Maestri svedese, con punte
identificative nella scena dell'amplesso di Gracie con Joe
postbambino rivissuta (più che interpretata) da Elizabeth o
nella lettura bergmaniana a fondale neutro della lettera di
Gracie a Joe da parte di Elizabeth, che in 5 minuti immensi di
Cinema diventa "Un'altra donna" come Gena Rowlands nel
capolavoro di Woody Allen, come Liv Ullmann e Bibi Andersson nel
capolavoro di Bergman. Il film parla anche di Cinema come
riproduzione vampiresconirica della realtà, mettendo il lato
oscuro e inconscio di tutti i personaggi in cerca d'autore in
una metarappresentazione umana non diretta, ma da proiettare su
uno schermo. "Come in uno specchio" bergmaniano, specchio da cui
non sfuggi e in cui sei costretto a guardarti. Struccato, senza
maschera, senza un ruolo altrui da interpretare se non il tuo.
Già di diritto fra i grandi film sulle "Dark Waters" (titolo del
precedente magnifico film di Todd Haynes) che scorrono dentro di
noi, come un fiume in piena, celate dalla maschera delle regole,
delle convenzioni, della "normalità" da rimettere ogni giorno al
risveglio per non finire pazzi o in manicomio. SUPER. (Carlo Confalonieri)
LA SALA PROFESSORI
di Ilker Catak - Fa
paura, come potrebbe far paura un film di Polanski.
Il giovane regista tedesco Ilker Catak ha infatti un
pò la stessa capacità di prendere la realtà e
rivoltarla come un guanto, facendola precipitare
dalle sue sicurezze ai suoi orrori. Carla Nowak (la
strepitosa Leonie Benesch che ricordo ne IL NASTRO
BIANCO di Michel Haneke e in LEZIONI DI PERSIANO di
Vadim Perelman) è un'insegnante di una scuola media
tedesca. Giovane brava idealista nei confronti del
suo ruolo educativo. Al punto, di fronte a vari
furti avvenuti nella scuola, da trasformarsi in una
sorta di investigatrice. Ma le si ritorcerà tutto
contro, con le prove raccolte che diventano armi
contro di lei. Perche' filmare è vietato, ma
soprattutto è vietato filmare il vero pronto a
trasformarsi nel falso, nell'incubo, nel delirio.
Trovo che la sequenza della moltiplicazione delle
camicette a stella (vedrete di cosa si tratta) abbia
la stessa potenza di alcune sequenze di REPULSION di
Roman Polanski, dove Catherine Deneuve scivolava
dalla ragione al delirio, dalla visione lucida a
quella psicotica. Perchè per ingiurie e delazioni si
può anche impazzire, lo hanno dimostrato i recenti
suicidi di persone diffamate via social, passata dal
ruolo di vittime a quello di carnefici costruiti. LA
SALA PROFESSORI non è infatti un film sulla Scuola,
per quanto vi sia claustrofobicamente ambientato, ma
un astratto scardinamento visivo e progressivo del
reale che diventa virtuale, attraverso la
costruzioni di nuovi sentimenti o meglio odi mai
visti prima in natura. Una valente psichiatra mi ha
detto che ultimamente appaiono patologie mai viste
prima, addirittura quasi inaffrontabili perché non
previste e studiate in letteratura clinica. LA SALA
PROFESSORI parla di questo, del presente distopico e
capovolto (non certo quello del Generale Vannacci),
della società surreale che abbiamo costruito e della
perdita di ogni punto fermo. Al punto da divenire a
vista quanto di più scivoloso e inafferrabile oggi
possa mostrare il Cinema asciutto e sintetico della
modernità. (Carlo Confalonieri)
PAST LIVES
di Celine Song - Più Harold Pinter che Alain Resnais.
Più "Old Times" di Pinter con la ricostruzione
enigmatica di ciò che è stato ed è, che "Smoking No
Smoking" magnifico divertissement di Resnais su ciò
che poteva essere se avessimo preso un'altra strada.
Celine Song non a caso è una commediografa e proprio
come in Pinter divide il suo splendido debutto
cinematografico in atti, che scardinano il tempo.
Hae Sung e Nora erano ragazzini con una forte
attrazione reciproca a Seul, prima che Nora con la
famiglia si trasferisse in Canada dividendoli e poi
lei adulta a New York per diventare scrittrice e
incontrare suo marito, un americano, conosciuto in
un ritiro per artisti. Tre tempi, tre atti.
L'infanzia che si conclude con una separazione e con
Nora, già volitiva e ambiziosa, che si avvia per una
strada in salita. Il ritrovarsi dei due ai tempi di
Skype con una corrispondenza in video che li
riavvicinerà, ma che poi Nora più pratica chiederà
di interrompere. E infine il ritrovarsi per un
giorno a New York, dove l'uomo va trovare la donna,
lui con alle spalle una relazione finita, lei calata
in un solido matrimonio. Un breve incontro che nello
sguardo di Celine Song rifugge ogni tentazione di
ricatto sentimentale, rileggendo in modo
personalissimo il melo un pò come fece Wong Kar-Wai
in "In the Mood for Love", ovvero lavorando dietro
all'immagine per lasciarla profondamente evocativa
ed enigmatica. La riprova è nel prologo in cui le
voci di un uomo e una donna in un bar di notte a New
York osservano Hae Sung, Nora e il marito di lei
chiedendosi chi siano e quali siano le combinazioni
sentimentali fra loro. Perché se anche il film le
narra, in fondo non lo sapremo mai con certezza. Non
tanto per il richiamo buddista all' inyeon che si
basa sulle vite passate determinanti gli incontri
presenti. Ma per un senso di astrazione dal tempo e
dai luoghi (New York inedita bellissima straniante)
che rende tutto indeterminato. Proprio come in un
film di Michelangelo Antonioni, punto di riferimento
di molto Cinema Asiatico (si pensi al Maestro
sudcoreano Lee Chang-Dong) che la coreana Celine
Song mostra di ben conoscere e amare, in una cura
dei dettagli e dei silenzi assolutamente precisa
magica e incantevole. Quanto i suoi meravigliosi
attori Greta Lee, Teo Yoo bellissimo quanto
commovente e John Magaro. Un debutto prezioso, con
tanto Teatro e Cinema alle spalle, i quali arrivano
come miracoli sempre presenti da vite passate. (Carlo Confalonieri)
PERFECT DAYS
di Wim Wenders - Ugo Locatelli grandissimo Artista
del Vedere, grandissimo Amico e Maestro che tanto mi
insegnò, angelo sulla terra tornatosene
silenziosamente in Cielo il giorno di Natale avrebbe
adorato - come accadde e accade a me - il nuovo
Capolavoro di Wim Wenders. Fu proprio Ugo a farmi
conoscere Marcel Duchamp, sua guida e sua quieta
"magnifica ossessione". Duchamp rappresentò
l'universo con "Fontana", opera ready made composta
da un orinatoio capovolto. Hirayama - interpretato
dal sublime Koji Yakusho, il bellissimo attore
giapponese di film stupendamente erotici di Shoei
Imamura - è un uomo maturo felice di alzarsi ogni
mattina, lavarsi, innaffiare le piante, uscire e
recarsi al lavoro: quello di addetto alle pulizie
delle toilette di Tokyo. Pur reinventati dai
futuristici architetti nipponici i bagni pubblici
restano in apparenza un luogo di miserie umane. Ma
come l'orinatoio di Duchamp vengono trasfigurati da
Hirayama, attraverso un processo Junghiano di
intensificazione della realtà, che li rende doni di
un'essenza "divina". La quale permea tutto il
visibile, rendendolo vivente ovvero animato dallo
spirito dell'esistere. Cogliendo e ascoltando questo
vento silenzioso che attraversa in modo animistico
ogni cosa, Hirayama - e suppongo Wenders stesso - ha
raggiunto l'apice della sua esistenza, della sua
serenità. Contemplando le foglie che mutano sulle
piante, come pulendo i gabinetti. Dal punto più
basso al punto più alto del suo osservatorio
esistenziale. Ripetendo ogni giorno un
apparentemente identico rituale di gesti e azioni.
Solo apparentemente simile, invece diversissimo a
ben guardare, perchè se è riproducibile è anche
irriproducibile perchè ogni istante è diverso
dall'altro e ora è solo ora. Wenders torna come per
magia ai grandi silenzi virili di "Nel corso del
tempo" il suo film più bello e personale, con questo
Canto Visivo che, 37 anni dopo, ne riprende
l'orizzontalità. Attraverso linee di ripresa che,
come nel Cinema di Ozu, attraversano le vite come
uno sguardo parallelo al terreno. Ma anche
verticalizzandosi verso l'alto, con una
contemplazione delle piante e del cielo. E come in
Ozu affiorano dolorosi legami famigliari, qui
sepolti, superati, addirittura rinnegati con la
rinuncia alla ricchezza e alla materia in nome della
libertà. Di godere della propria verità interiore,
che prende voce attraverso le canzoni di Lou Reed
giunte da desuete e preziose musicassette, reperti
di un passato da conservare e preservare. O dai
libri ( appare un Faulkner, omaggiato anche
dall'immenso Lee Chang-Dong di "Burning") che
Hirayama legge prima di addormentarsi. Solo,
quietamente felice di essere e di esserci in ogni
istante di quel mistero che è la vita. Vidi questo
film a Giugno in un'anteprima poco dopo la
presentazione al Festival di Cannes, dove Koji
Yakusho fu incoronato miglior attore. L'ho rivisto
oggi all'uscita nei Cinema italianI. Allora dedicai
la visione del film a me stesso, oggi la dedico a
Ugo, Anima gentile e radiosa come Hirayama.
FOGLIE AL VENTO
di Aki Kaurismaki - Insieme alla meravigliosa
canzone di Kosma/ Prevert resa celebre da Yves
Montand, il nuovo Capolavoro di Aki Kaurismaki,
premio della Giuria a Cannes, potrebbe avere come
sottotitolo "Cronache di poveri amanti" come il bel
film di Carlo Lizzani tratto da Vasco Pratolini.
Proprio per l'amore puro fra Ansa e Holappa, così
simile a quello fra Gabriele Tinti e
l'indimenticabile Antonella Lualdi. Amori che
riscattano la solitudine, la tristezza, la sfortuna,
la malinconia, la miseria e persino la guerra (là
era il fascismo, qui il conflitto Ucraino che arriva
dalla radio 80 anni dopo a parlare ancora di
repressione della libertà). Ma si sa in Kaurismaki
arriva tutto come ovattato, come sotto vetro, come
da un quadro di Edward Hopper. Persino l'alcolismo,
che Kaurismaki conosce. E l'immensa solitudine,
miseria e sopravvivenza di due cuori solitari in una
Helsinki dove si licenzia quasi senza ragione, si
sfruttano i lavoratori (come in tutta Europa e in
gran parte del mondo), si impedisce alle persone di
avere un futuro, la salvezza arriva ancora
dall'amore e dalla sua tenacia, nonché dal Cinema
che fa da sfondo a ogni inquadratura di questo film
miracoloso. Visconti con "Rocco e i suoi fratelli",
Bresson con "Pickpocket" e "L'argent" (i suoi due
film in cui il denaro ha diabolica importanza), "Le
Mepris" di Godard, gli Zombie di Jarmush, molti
altri e un omaggio finale a Chaplin a dir poco
fulminante. Ansa e Holoppa si danno il primo
appuntamento in un Cinema d'essai, poi perdono il
biglietto col numero di telefono, accadono sfortune
di vario tipo, ma resistono e la loro resilienza
verrà premiata. Kaurismaki torna sul tema del lavoro
dopo tre film bellissimi e cupi come "Ombre sul
paradiso", "Ariel" e "La fiammiferia". Stavolta con
un film più ottimista, di cui abbiamo assolutamente
bisogno e con quella sintesi propria dei Grandi
Maestri, i quali raggiungono una semplicità umana e
divina insieme. Dandoci luce, speranza nella Vita e
nel Cinema, guida maestra e specchio delle nostre
esistenze. (Carlo Confalonieri)
THE OLD OAK
di Ken Loach - Il
probabile addio al Cinema del grande vecchio
indomabile Ken Loach è un'opera somma sulla
compassione e l'armonia che ne scaturisce.
Comprendere e soccorrere coloro che sono in pena
crea serenità, pare dirci il più combattente dei
registi, insieme al suo fedele sceneggiatore Paul
Laverty, il quale stavolta ha scritto dialoghi non
solo molto belli, ma anche molto utili. Cosi' come
le immagini attente partecipi sempre essenziali, mai
casuali, di Loach, ci dicono che il "fuori"
devastato del mondo e della società possa ancora
essere visto attraverso un "di dentro", ovvero una
sensibilità umana e un'accoglienza civile nate dal
profondo dell'anima. Nonostante Loach resti fedele
alla propria immanenza, stavolta traspare infatti
qualcosa di "divino", rapportato a una dimensione
strettamente umana. Per cui l'arrivo in una
cittadina inglese ex mineraria-teatro nei funesti
anni 80 tatcheriani di scioperi e crisi
irreversibili che condussero ad impoverimenti e
chiusure (un po' come sta accadendo oggi) - di un
gruppo di rifugiati siriani, dà la svolta.
Inizialmente contestati dagli abitanti, proletari
seppur ancorati alle loro briciole di benessere,
troveranno infatti in Tj Ballantyne, il proprietario
del vecchio pub locale "La vecchia quercia" (quale
migliore definizione per Ken Loach?) e nella giovane
siriana Yara, i paladini di una renaissance umana
sociale interraziale. E non a caso, perché l'uomo
non più giovane guarda il mondo attraverso il filtro
di fallimenti privati che lo spinsero a un tentato
suicidio (salvato da una cagnolina come in "Umberto
D" di Vittorio De Sica), mentre la giovane donna lo
guarda attraverso l'obiettivo della sua inseparabile
macchina fotografica, che le fa ritrarre il mondo
non come è ma come dovrebbe essere. Lo stesso fa Ken
Loach con questo film bellissimo commovente e colmo
di speranza. Non utopistico, perché davvero vibrante
di un credo nell'essere umano, tanto da modificarlo
nel film rispetto alla realtà. Rendendolo meno
respingente e prevenuto verso l'altro e più
autenticamente aperto a chi chiede aiuto. Perché
nella solidarietà umana-pare dire Ken Loach, in una
processione finale multietnica - che riporta alla
mente quel Capolavoro Assoluto che è "Viaggio in
Italia" di Roberto Rossellini - risiede il vero
miracolo, forse possibile con altri occhi e altri
sguardi. Quelli della memoria che illumina il
presente, come le foto dei minatori che prendono
nuova vita attraverso le foto di Yara circa quarant'anni
dopo. Cambia lo sguardo, ma l'essenza
compassionevole e solidale resta. (Carlo Confalonieri)
ANATOMIA DI UNA CADUTA
di Justine Triet - "Anatomia di un omicidio" di Otto
Preminger e "Scene da un matrimonio" di Ingmar
Bergman, riuniti come poli opposti in un'opera
magistrale giustamente premiata al Festival di
Cannes con la Palma d'Oro. L'operazione
apparentemente rischiosa della francese Justine
Triet, con alle spalle 3 film corali ruotanti su un
personaggio femminile ("La battaglia di Solferino","
Victoria" e "Sybil") mantiene il fulcro femminile e
postfemminista, ma lo isola spietatamente,
inchiodandolo in un interno matrimoniale che pare
uscito da Strindberg. Una sorta di "Danza di morte"
di coppia, condotta dalla donna che prevale
sull'uomo, destinato e predestinato a precipitare
non solo dal terzo piano. A far da collante al
mistero di coppia è il figlio cieco di dieci anni,
che a sorpresa avrà visto la vera verità o forse
l'avrà immaginata per por fine al processo dove la
madre è accusata dell'omicidio del padre. Caduto o
buttato di sotto? Il film grandioso di Justine Triet
fa del processo seguente una metafora del processo
alla coppia, alle sue impalcature incrinate, alle
sue fondamenta scricchiolanti. Con Sandra che
diventa scrittrice di successo, mentre Samuel il
marito scrittore perde l'ispirazione e la capacità
di scrivere. Con Sandra che forse non gli perdona
l'incidente che ha reso cieco il figlio, tradendolo
con la sua bisessualità e rubandogli idee per i suoi
romanzi. Prosciugandolo forse silenziosamente nella
creatività e nella virilità. Samuel a cui resta solo
l'espediente di una musica martellante e assordante,
per interrompere dispettosamente le interviste fatte
alla moglie famosa. Tassello dopo tassello,
scollamento dopo scollamento, fra realtà e finzione,
verità e menzogna, affiorano molte versioni di
quella caduta mortale. Ma sarà quella più
psicologica data dal figlio, forse per salvare la
madre, a far luce. Luce nell'ombra, nel buio della
visione della cecità che diventa più sensibile alle
sfumature. L'aula del Tribunale è quella dei film
americani come quello citato di Otto Preminger, ma
gli interni domestici in quello chalet isolato dal
mondo sono quelli del sublime Cinema scandinavo di
Ingmar Bergman. La tenuta e la suspense sono
mirabilmente hitchcockiane, con quelle sfaccettature
della realtà che diventano sue rifrazioni. Dove la
certezza si dissolve e la verità diventa ambigua.
Lasciando affiorare il gioco al massacro, anche un
pò da "Shining" visto il contesto nevoso, fra un
uomo nell'inferno dell'impotenza creativa (e
sessuale) e una donna se vittima o carnefice non si
sa. E a giocare tutti i toni del doppio e
dell'ambiguo è la grandissima attrice tedesca Sandra
Huller, notissima per "Toni Erdmann" il capolavoro
di Maren Ade, affiancata dal tagliente sguardo di
Swann Arlaud nel ruolo dell'avvocato che la difende
e un tempo la amò. Lui difensore e 'amante', lei non
si sa, se non abbandonando le leggi del codice
penale per quelle del codice morale/immorale, l'uno
specchio dell'altro. Maestosamente autoriale e
personale, tanto da lasciare l'impressione di non
aver mai visto nulla di simile. Assolutamente
Superlativo. (Carlo Confalonieri)
DOGMAN di Luc
Besson - Come la ragazzina dell'indimenticabile
WHITE GOD di Kornel Mundruczu, anche Doug ha il
potere di divinizzare i cani. Ovvero di
elevare i cani a livello divino, sopra gli uomini,
per le loro assolute bontà e fedeltà che riversano
sull'uomo senza chiedere nulla in cambio. E in
un'inversione letteraria rendere Dog, God ...Dio,
come quel genio del Cinema ungherese che è Mundruczu
faceva fin dal titolo di WHITE GOD. Besson
però va persino oltre rendendo la parabola di Doug,
seviziato dal padre e dal fratello buttandolo in una
gabbia per e di cani per molto tempo, una sorta di
martire. Sopravvissuto agli orrori della famiglia,
grazie ai prodigi del regno animale. Ridotto su una
sedia a rotelle sempre dal padre, Doug da adulto
decuplicherà l'amore canino, scegliendo stavolta di
vivere proprio in mezzo a loro in una specie di
comunità dove i reietti sono considerati gli umani.
Sfidati, derubati (già nella Storia del Cinema il
furto canino sulle note di So What di Miles Davis),
puniti da Doug attraverso i suoi tantissimi cani,
istruiti a dovere. Una sorta di Regno da "Carica dei
101" in versione shakespeariana, l'autore più amato
da Doug grazie all'unica donna che lo affascinerà.
Addirittura lo Shakespeare delle vendette più cupe,
quello di Machbeth sanguinario e assassino. Il
film meraviglioso e strepitosamente Cinematografico
di Luc Besson parla di metamorfosi dopo la tragedia,
dopo la caduta. Quelle che ti consentono di
continuare a vivere, di andare avanti con una
maschera che copra tutto il tuo dolore. Era cosi per
il sublime JOKER di Todd Phillips dove l'immenso
Joaquin Phoenix si trasformava in un'orrida
caricatura, è così in questo stupendo DOGMAN dove lo
stratosferico Caleb Landry Jones indosserà maschere
multiformi da Drag Quenn (Edith Piaf, Marylin Monroe,
Marlene Dietrich) per trovare almeno una volta alla
settimana un precario equilibrio identitario. Che
invece questo capolavoro di Luc Besson, già
indimenticabile a fine proiezione come un'ombra
elettrica che ti si incolla addosso, ha solidissima,
attraverso una memoria di tanto Cinema maiuscolo
Americano d'autore e indipendente, che va dal Sam
Peckinpah di CANE DI PAGLIA, al Jonathan Demme de IL
SILENZIO DEGLI INNOCENTI e di PHILADELPHIA citati
nella figura della psichiatra dell'ottima Jonica
T.Gibbs e del suo rapporto con la figlioletta, a cui
porterà dopo l'incontro con Doug quel grande amore
che Tom Hanks ispirava a Denzel Washington, in quel
film epocale e di svolta che fu PHILADELPHIA.
Inoltre lo sguardo di Besson torna a vestirsi di
tutta la sua grandeur pop pulp e camp, proprio come
ai tempi del folgorante NIKITA, sostituendo i colori
saturi della fotografia memorabile di Thierry
Arbogast con quelli ancor più al neon ed elettrici
di Colin Wandersman, anche capace di ritrarre il
passato come un incubo sotto la cenere. Sezionando
anche i generi cinematografici dell'Horror, Giallo e
Melo, Besson li reinventa spingendoli verso un
abisso psicologico vertiginoso, che fa loro da
specchio trasformandoli in puro Cinema d'Autore .
Vigoroso, potente, personale. Che ti inchioda
alla poltrona fotogramma per fotogramma, impedentoti
quasi di muoverti per la gioia infinita di trovarti
finalmente davanti a un FILM a lettere maiuscole,
immaginabile e concepibile solo al Cinema e per i
suoi schermi Divini e Demoniaci , onirici e sublimi
come le pagine della Divina Commedia. Un'esperienza
creativa artistica e sensoriale assolutamente dello
stesso livello. Non ci sono scuse per
non vederlo.
AS BESTAS
di Rodrigo Sorogoyen - Sarebbe troppo semplice
ricondurre il nuovo magnifico film di quel grande
regista spagnolo che è Rodrigo Sorogoyen a un
postwestern contemporaneo o a una rivisitazione di
"Un tranquillo week end di paura". Siamo infatti
altrove, direi oltre. La vicenda di Antoine e
Olga,coppia di intellettuali francesi - trasferitasi
in Galizia per vivere secondo i dettami di una
riscoperta dei valori rurali ed ecologici,
attraverso la coltivazione bio e la ristrutturazione
di ruderi per farne un agriturismo - sotto la
direzione di quello che oggi è il più estremo e
sottile regista spagnolo, diventa infatti una
discesa negli abissi ancestrali della bestialità,
già sottolineata dal titolo "Le bestie". Non quella
degli animali veri e propri, nulla infatti è
didascalico in Sorogoyen, che come sempre inizia in
un modo e poi ti trascina altrove. La strepitosa
sequenza iniziale in ralentì della lotta fra gli
uomini e un cavallo è pura dominazione e ribellione
istintiva, furia primordiale. Quella con cui
dovranno fare i conti i due "bobos" francesi, messi
a confronto con la totale ignoranza e il disprezzo
cieco di ogni forma culturale ed elaborazione
esistenziale, dei nativi del luogo, abbruttiti da
anni di privazioni e lavoro puramente materiale, che
li ha equiparati agli animali e alle terre che
dominano, ma da cui in realtà sono dominati. Natura
e cultura in uno scontro totale, diretto, sempre più
in crescendo. Quasi senza parole, se non per le
esternazioni razziste e deliranti dei due bifolchi
vicini di casa, sempre più minacciosi e violenti nei
confronti della coppia francese. Sorogoyen intreccia
in quest'opera maiuscola i suoi grandi temi della
discesa agli inferi morali ("Che Dio ci perdoni"),
dell'ossessione (" Madre") e della corruzione
metafisica del contesto sociale ("Il regno"), in
un'opera magistrale e complessa fatta di sguardi,
silenzi, minacce sotterranee. In un crescendo di
pura tensione psicologica, che con grande coraggio
narrativo si spezza a due terzi del film passando il
testimone da Antoine (il superlativo Denis Menochet)
a Olga (Marina Fois, che supera se stessa in una
prova mutevole e severa, costruendo un
indimenticabile ritratto femminile, il quale in
un'audace piano sequenza di 10 minuti nel confronto
con la figlia fa pensare alle attrici di Ingmar
Bergman. Senza un attimo di cedimento, questo grande
saggio di Cinema del silenzio è uno degli urli più
potenti mai visti sullo schermo. Assolutamente da
vedere.
(Carlo Confalonieri)
LA COSPIRAZIONE DEL CAIRO
di Tarik Saleh - Come
il grande Ali Abbasi ("Border" e "Holy Spider") è un
regista iraniano naturalizzato danese, Tarik Saleh
nasce in Svezia da padre egiziano, ma in Egitto non
può più tornare dopo il suo bellissimo polar
"Omicidio al Cairo", sulla corruzione della polizia
egiziana. Eppure col suo nuovo thriller vi fa
ritorno cinematograficamente e lo fa in grande stile
intrecciando le atmosfere letterarie di John Le
Carré, Graham Greene e dell'Umberto Eco dell'epocale
giallo ecclesiastico "Il nome della rosa ". Con
quelle cinematografiche di Sidney Pollack e Costa
Gavras. Ne risulta una sontuosa spy story
esotico-religiosa ambientata nel cuore della
prestigiosa università Al-Azhar del Cairo, sede del
potere dell'Islam sunnita, durante la successione
del grande Imam controllata dalle frange politiche
del potere. Che scelgono come "talpa" il giovane
Adam (il bravissimo Tawfeek Barhom) arrivato dal suo
villaggio di pescatori ad Al-Azhar, con una borsa di
studio per la sua grande intelligenza. Che la
macchina del potere sfrutta reclutandolo come
"angelo" ("Boy from Heaven" il titolo internazionale
lo mette giustamente al centro). Ma la sua
intelligenza e il suo coraggio smaschereranno più di
un meccanismo corrotto fuori e dentro le mura del
complesso religioso. Filmato da Tarik Saleh come un
labirinto di rigore architettonico e di fascinazione
coreografica, che a tratti rimanda alla perfezione
visiva dell'Hitchcock del meraviglioso e
sottovalutato "Topaz". A fare da ponte fra
corruzione politica e religiosa è di nuovo Fares
Fares, carismatico attore feticcio di Saleh, qui in
una veste umana quasi caricaturale che sovrasta il
suo ruolo di poliziotto.
UNA RELAZIONE PASSEGGERA
di Emmanuel Mouret - Negli ultimi film della sua
preziosa filmografia, l'eccellente nuovo cantore
della commedia francese Emmanuel Mouret, aveva
allargato la visione all'intreccio romanzesco nello
splendido film in costume "Mademoiselle de
Joncquires" o all'affresco contemporaneo nel
meraviglioso "Les choses q'on dit ,les choses q'on
fait". Restando sempre nella
composizione/scomposizione delle relazioni
sentimentali, raggiunge il sublime restringendo il
campo nel nuovo superlativo "Una relazione
passeggera". Una coppia di amanti: Simon introverso
sposato impacciato e problematico, Charlotte
estroversa disinvolta madre single risolta almeno
all'apparenza. Si incontrano, si piacciono, decidono
di andare a letto senza nessun tipo di progetto o
aspettativa, per "farsi del bene' aprendo una
parentesi senza complicazioni sentimentali nè
passionali. Vediamo solo loro, nulla loro privato,
come fossero cavie di un esperimento. Si può star
bene insieme, fare l'amore, provare felicità senza
innamorarsi? Lo scudo è nelle parole, nei dialoghi
strepitosi che Mouret e il co-sceneggiatore Pierre
Giraud mettono in bocca ai due, fondendo il
filosofeggiare di Eric Rohmer e il disincanto
nevrotico di Woody Allen. Risultato un ritmo
frenetico e armonioso, che punteggia la commedia
sentimentale come una sinfonia, sempre trascinante,
sempre sull'onda del tempo inafferrabile che fugge e
le parole non trattengono, tantomeno i pensieri o i
gesti. E proprio il tempo scandisce con le
didascalie delle date, che scorrono come un
calendario, questa relazione passeggera come le
nuvole, inafferrabile come la vita. Eppure 3
improvvise zoommate sui personaggi nel corso del
film ci fanno capire chiaramente che, dietro al
castello di carta degli intenti e delle parole, si
cela qualcosa di profondo, di inalienabile dalla
natura umana e dal suo bagaglio di sentimenti. Ha
voglia Charlotte a smontare l'amore con qualcosa di
leggero e indolore e Simon a nascondersi dietro alle
sue paure. Il sentimento c'è, non ammesso, remoto,
eppure presente in ogni istante. E Mouret con una
zampata da Maestro lo fa venire a galla nel momento
in cui le cose sembrano finire fra i due, mostrando
sulle note stupefacenti di "Les Biches" di Poulenc
(la scelta non è casuale e capirete perché) i luoghi
dove sono passati Charlotte e Simon : parchi, musei,
alberghi, strade di campagna, gallerie d'arte ecc.
scevri della loro presenza, suscitando un senso di
profonda intensa malinconia. Corretta prima e dopo
da un'ironia che omaggia a piene mani il Cinema
magistrale di Allen, addirittura con tre precise
citazioni (il tennis ,il temporale, l'incontro al
Cinema per un film di Ingmar Bergman - in questo
caso "Scene da un matrimonio") da "Manhattan" e "Io
e Annie". Charlotte e Simon sono la radiosa Sandrine
Kiberlain e i goffo Vincent Macaigne, bravissimi
all'apice della loro arte attoriale. Perfettamente
intonati a tutte le sfumature di questo film
semplicemente incantevole.
(Carlo Confalonieri)
DECISION TO LEAVE
di Park Chan-Wook - Un capolavoro del thriller non
può prescindere da Hitchcock. E "Decision to Leave"
che un capolavoro lo è, rispetta la regola, come già
accadde per il Brian De Palma di "Vestito per
uccidere" e "Omicidio a luci rosse". Anche per il
maestro coreano non è la prima volta, visto che nel
bellissimo "Stoker", girato a Hollywood, omaggiava
ampiamente "L'ombra del dubbio", con Matthew Goode
che entrava da inquietante sconosciuto nella vita di
Mia Wasikowska, così come nel film di Hitch Joseph
Cotten entrava in quella di Teresa Wright. In "Decision
to Leave" i film di riferimento sono i due massimi
capolavori hitchcockiani "Vertigo" e "La finestra
sul cortile". Siamo infatti in un'indagine per un
possibile delitto prima e per due poi da parte di un
investigatore (qui ancora nella polizia a differenza
di "Vertigo") che in entrambi i casi sospetta della
stessa donna, sposata a entrambe gli uomini deceduti
in tempi e luoghi diversi. Ma sempre nel suo
distretto di competenza. Il detective Hae-joon
(superbo Park Hae-il) soffre d'insonnia e tende alla
depressione. Spostatosi sempre in Corea da un
distretto di polizia all'altro per star vicino alla
moglie, in entrambe i casi dovrà indagare sulla
doppia vedova Seo-Rao (la stupefacente Tang Wei di
"Lussuria" di Ang Lee) di origini cinesi. Ma da
subito se ne innamora, di un amour fou
irrefrenabile, accentuando tutte le sue ossessioni
nevrotiche (come accadeva per l'acrofobia di James
Stewart in "Vertigo", ossessionato da Kim Novak).
Anche Seo-Rae come Madeleine Estler in "Vertigo" è
femme fatale, dark lady e oscuro oggetto del
desiderio, tutto alla massima potenza. Al punto che
il detective si trova più volte ad insabbiare le
prove contro di lei. E durante le osservazioni a
distanza della donna e le ricostruzioni dei delitti
si ritrova proiettato psicofisicanente accanto alla
donna, con un effetto binocolo, come accadeva per il
voyeurismo di James Stewart ne "La finestra sul
cortile ". "Decision to Leave" appare quindi molto
classico, ma attenzione perché la sublime maestria
registica di Park Chan-wook, premiata a Cannes,
trasporta il tutto in qualcosa di straordinariamente
mai visto. Dall'inizio alla fine "Decision to Leave"
diventa infatti un esperimento ipermoderno sul
vedere. Perché se fin da subito l'investigatore si
mette il collirio per schiarirsi la vista, lo stesso
dovremo far noi spettatori per tutto il film.
Immagine dopo immagine pensiamo di afferrare una
"visione", mentre istantaneamente la perdiamo,
sostituendosene subito un'altra più potente e più
ambigua. In un percorso visivo perfetto, complice la
fotografia stratosferica nell'impastare luci ombre e
nebbie di Kim Ji-yong, assolutamente inedito, dove
la realtà diventa sogno, la montagna diventa mare,
il sospetto passione amorosa delirante. Le
componenti romantiche sensuali e sessuali slittano
anch'esse una nell'altra, attraverso gesti minimali
simbolici così potenti da far tremare lo schermo.
Specchio labirintico di tutte le nostre pulsioni più
segrete, dei nostri desideri più nascosti, rimandati
alla nostra mente da uno scavo nel gesto quotidiano
che diventa astrazione onirica. Ponendoci
continuamente il dubbio se la vita sia sogno o
realtà. In entrambe le ipotesi varcando quel confine
fra il sonno e la veglia, dove alberga l'insonnia
del detective e dove prendono forma le sue e le
nostre ossessioni. Scendendo dalla montagna
inquietante e freudiana a forma fallica del primo
delitto, verso il mare simbolo junghiano
dell'inconscio. Scendendo o meglio salendo, sempre
in crescendo verso uno dei finali più belli della
Storia del Cinema, dove il melodramma diventa
moltiplicatore dell'enigma della vita dell'amore e
della morte. Monumentale, già nella Storia del
Cinema classico e sperimentale a un tempo.
(Carlo Confalonieri)
MASQUERADE
di Nicolas Bedos - Tra i molti nuovi
interessantissimi autori del Cinema Francese, due
hanno caratteristiche simili e solidissime Nicolas
Bedos ed Emmanuel Mouret. Entrambi attori passati
dietro la macchina da presa, entrambi maestri nel
rivisitare i generi, entrambi abilissimi costruttori
di architetture cinematografiche semplici
all'apparenza, sontuose nella sostanza. Accade a chi
sa manovrare i sentimenti e far diventare "le choses
de la vie" Cinema. Di Bedos citerò i primi due film
"Mr e Mme Adelman" e "La belle epoque". E parlerò
del terzo "Masquerade" ora nelle sale italiane. Non
fatevelo sfuggire per carità, se avete amato come me
le sue due opere precedenti, perché ne ritroverete
tutti gli eccezionali ingedienti. - 1)
Frammentazione della narrazione quasi frenetica, per
creare suspense, attesa, sorpresa continua, cambi di
prospettiva psicologica - 2) rivisitazione e
ricostruzione dei generi americani (la commedia
coniugale alla Cukor nel primo, la cinica
rivisitazione del passato alla Billy Wilder nel
secondo), il giallo hitchcockiano e il melo alla
John Stahl di "Femmina folle" in "Masquerade" - 3)
la donna vista come essere umano pensante e
cresciuto, l'uomo come come bambino da crescere poco
pensante di fronte al richiamo sessuale femminile -
4) Il tempo che fugge a tutta velocità e che non
torna, anche se fai di tutto per riavvolgere la
"pellicola" - 5) la vita come Teatro, finzione,
messinscena. Tutto ciò è in "Masquerade" sontuosa
incursione nelle vite artificiali sulla Costa
Azzurra, che ricercano la giovinezza a tutti costi
se l'hanno perduta (con giovani amanti a letto o sui
palcoscenici, come la strepitosa Adjani che rifà
Norma Desmond di "Sunset Boulevard") e la vendono al
miglior offerente se ce l'hanno, trasformandosi in
escort (uomo o donna non importa). Bedos incastra il
tema del tempo perduto e della sua inutile recherche
nel giallo Hitchockiano alla "Caccia al ladro ",
facendo della Costa Azzurra un grande palcoscenico
di finzioni e inganni, dove ogni personaggio,
interpretato da magnifici attori (Pierre Niney,
Marine Wacth bellissima, Francois Clouzet,
Emmanuelle Devos, Laura Morante e la già citata
Isabelle Adjani) è ben diverso da quello che sembra.
In un continuo ribaltamento di ruoli e prospettive,
lanciato a tutta velocità tra thriller e melo, con
la donna che ancora non solo vince, ma stravince.
Elettrizzante !
(Carlo Confalonieri)
IL
CORSETTO DELL'IMPERATRICE (CORSAGE)
di Marie Kreutzer -
La regista austriaca Marie Kreutzer nel 2019
partecipò alla Berlinale con un film che mi piacque
e colpì moltissimo "The ground behaind my feet"
ritratto di una manager inflessibile, che a un
tratto crolla rispecchiandosi nella follia della
sorella schizofrenica. Da perfetta autrice quale è
nell'affrontare il personaggio dell'imperatrice
Elisabetta d'Austria, detta Sissi, ritrae un'altra
donna a cui a un tratto la "terra inizia a tremare
sotto i piedi". La scadenza sono i 40 anni età in
cui una donna nel 1877 era considerata finita.
Allora Sissi inizia a rifiutare la sua immagine
reale, fisica e si rifugia via via in una proiezione
delirante di sé, proprio come Lola, la manager del
film precedente della Kreutzer. Prima rifiutando il
cibo per restare in perfetta forma, poi
sottoponendosi a martiri fisici di altro tipo
(assistiamo a una sorta di autoannegamento per
aumentare la respirazione), a tentativi estremi di
seduzione con giovani istruttori d'equitazione per
compensare il disinteresse sessuale che il marito,
l'imperatore Francesco Giuseppe le sbatte in faccia
in ogni modo, anche corteggiando poco più che
bambine. In fondo le basta sentirsi ancora
desiderata, finché anche questo non le basta più. E
il doppio folle arriva anche per lei con la
costruzione di una controfigura, che continui a
perpetuare e a simulare la sua giovinezza, proprio
come in "Fedora" capolavoro assoluto di Billy Wilder,
dove Marthe Keller sorta di Greta Garbo si faceva
sostituire dalla figlia sosia. Il film stupefacente
di Marie Kreutzer è formalmente sublime come "Ludwig"
di Luchino Visconti (dove Sissi era interpretata
proprio da un'immensa Romy Schneider, ormai
lontanissima dalla serie mediocre dell'imperatrice
d'Austria che la rese celebre in gioventù), ma è
anche cupamente e follemente femminile come un film
in costume di Jane Campion, da "Lezioni di piano" a
"Bright Star". Andando alla radice della follia
prodotta da un ruolo costrittivo, come quel corsetto
mai troppo stretto per apparire più magra, giu' fino
in fondo, persino con l'attrazione per i manicomi e
il suicidio. Visivamente sempre stratosferico il
film evita qualsiasi estetismo, ricorrendo ad
aggiornamenti scioccanti (un telefono, il
cinematografo, un mocio vileda, le musiche
contemporanee) come terapia d'urto ad una
rappresentazione mai calligrafica. Che trova in
quella meraviglia di attrice che è Vicky Krieps - di
ruolo in ruolo sempre più bella, dolente, intensa,
astratta, al punto da renderla proprio l'erede di
Romy Schneider - un'incarnazione inquietante sfingea
erotica e folle ad un tempo. Il premio come migliore
attrice al Certain Regard di Cannes la rende, a mio
avviso, l'unica possibile concorrente ai prossimi
Oscar, di Cate Blanchett nel superlativo "Tar" visto
a Venezia e nel 2023 sugli schermi italiani.
(Carlo Confalonieri)
LES AMANDIERS (nella versione italiana "FOREVER
YOUNG") di
Valeria Bruni Tedeschi - Conobbi Valeria Bruni
Tedeschi nell'aprile 2011 dopo aver assistito al
Teatro Strehler di Milano alla rappresentazione di "Reve
d'automne" di Jon Fosse con la regia di Patrice
Chereau, in cui sosteneva mirabilmente il ruolo
della protagonista. Nella bella conversazione che
ebbi dopo lo spettacolo mi parlò, fra le altre cose,
proprio degli anni della sua formazione alla Scuola
del Theatre des Armandiers di Nanterre diretto da
Patrice Chereau. Ritrovarmi, undici anni dopo la sua
narrazione verbale di quegli Anni, di fronte alla
sua rappresentazione filmica degli stessi mi ha dato
una doppia vertigine. Prima per la bellezza
struggente del film, poi per un senso d' ingresso
nella dimensione privata di una persona, prima
narratami a voce poi mostratami per immagini. La
sensazione avuta ora è identica a quella d'allora,
di una confidenza. Esco per un attimo dall'esegesi
del film, perché questa premessa mi è indispensabile
per comunicare quanta verità ho colto in questo film
meraviglioso. La verità di un'artista che si narra
al suo pubblico, con la stessa spontaneità con cui
lo fece con un suo ammiratore. Senza filtri. Basta
già la veste formale straordinaria, fra documentario
e diario intimo, affidata alla fotografia di Julien
Poupard, per abbattere ogni barriera e confine fra
vita e rappresentazione, non solo
teatralcinematografica ma esistenziale tout court.
Come se Bruni Tedeschi si mettesse totalmente a
nudo, o ancor peggio (o meglio) si levasse la pelle
per arrivare al ricordo come anima. Fonte vitale del
vivere, motore dell'esistenza di oggi costruita su
quella di ieri. E quella dei "Les Amandiers "- che
negli Anni 80 narrati dal film avevano circa vent'anni
ed erano incendiati dal sacro fuoco della
recitazione - è potentissima nella ricostruzione del
film. Affresco corale di una gioventù spensierata,
ispirata, devota all'arte e anche drammaticamente
colpita da nuovi spettri chiamati Aids, Overdose,
Chernobyl. Bruni Tedeschi firma in modo
assolutamente autoriale (si pensa ad Assayas,
Desplechin, soprattutto a Mia Hansen-Love, di cui "Les
Amandiers a tratti riprende quel bellissimo memoir
tossico che è "Tous est pardonne") il suo "The way
we were" pieno di riferimenti autobiografici, ma
soprattutto universalmente psicologici della mia
generazione, in parte perduta, in parte salvata,
comunque elaborata ed elaboratasi su un approccio
culturale e sentimentale oggi totalmente scomparso
nei fatti, nel concreto, nel quotidiano. Non in
questo film splendido, autenticamente vitale e
commovente, minuzioso nei sentimenti e nei pensieri
come un racconto di Cechov. Quel Cechov che Chereu
portò in scena col suo turbine geniale proprio con "Platonov",
interpretato proprio da quei giovani allievi della
Scuola del suo Theatre des Amandiers. Valorosi
angeli in volo, alcuni feriti, alcuni caduti, alcuni
sopravvissuti per narrarsi e per narrarli.
Proustianamente.
(Carlo Confalonieri)
TRIANGLE OF SADNESS
di Ruben Ostlund - Di
quanti capolavori si nutre il capolavoro- seconda
palma d'oro (dopo "The Square) - di Ruben Ostlund?
Molti. "E la nave va " di Federico Fellini,
"Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare
d'agosto" di Lina Wertmuller, "Un film parlato" di
Manoel de Oliveira, "La grande abbuffata" e "Il seme
dell'uomo" di Marco Ferreri, "La selva dei
dannati","Il fascino discreto della borghesia" e "Il
fantasma della libertà" di Luis Bunuel. Per
apprezzare fino in fondo l'operazione di
rivisitazione pop del Cinema, della Cultura e del
contesto sociopoliticoeconomico del Novecento -
nello stile assolutamente perfetto, elaborato,
attento ad ogni dettaglio di cui è invasa o
spogliata ogni inquadratura di Ostlund - penso
vadano visti tutti. Non è invece necessario leggere
"Il Capitale" di Karl Marx perché il senso classista
poggiato sul denaro è chiarissimo ed evidente.
Perche' questo film bellissimo e definitivo su
un'epoca storica, di cui stiamo vivendo gli
strascichi disastrosi, è sì ideologico ma in modo
visivo. Trasformando come vuole il grandissimo
Cinema le idee in immagini. Per questo occorre
conoscerne le origini, per apprezzarne fino in fondo
la rielaborazione, che Ostlund da profondissimo
conoscitore del Cinema, sfoggia con una disinvoltura
trascinante e personalissima, estetica e
psicologica. Quest'ultima basata su quella
triangolazione facciale dell'essere umano, situata
davanti al lobo frontale del cervello. Quello delle
emozioni, dei sentimenti, della morale, che pare -
nell'affondo satirico fino al sadismo di Ostlund -
essere geneticamente mutata per fattori esterni,
quali il denaro, la materia, il lusso. Tutti
concentrati e suddivisi non a caso in tre
capitoli-specchio, sulle relazioni umane. Che dalla
superficialità di una coppia di modelli influencer
devastati dall'ossessione per la fama e il denaro (1
Carl e Yaya), passa alla crociera sullo yacht ( 2 Lo
Yacht) miliardario per miliardari, dove si vomita
letteralmente tutta la materia accumulata in forma
di cibo, succhi gastrici e feci ("vendo merda"
dichiara l'oligarca russo al capitano della nave
americano marxista e alcolizzato), fino al naufragio
totale (3 L'isola) dove si gioca la partita finale e
il ribaltamento classista con i servi che dominano i
padroni, li ricattano persino sessualmente per
sfamarli, li tengono in pugno anche con la morte (ma
quella dell'asino ucciso per fame appare più crudele
di quella di un influencer che non serve a nulla).
Un'opera summa soprattutto da vedere e da godere (si
ride amaro, ma come accadeva per la grande Lina
Wertmuller si ride tantissimo) e poi, se ancora ci
riesce di formulare un pensiero in quest'epoca che
il pensare lo nega, da pensare e ripensare, da
pensare e ripensare, da pensare e ripensare…
Monumentale.
(Carlo Confalonieri)
LA NOTTE DEL 12
di Dominik Moll - Un noir bellissimo, un polar
avvincente, un thriller ricostruttivo. Soprattutto
una porta su uno scenario cupo, torbido, disumano
che si apre e non si chiude più. Quello della
barbara uccisione di una giovane donna bruciata
viva. Un delitto che diventa atto immorale,
perturbante, ossessionante la mette di Yohan (Bastien
Bouillon di convincente introspezione) giovane
capitano di polizia di un paesino francese di
montagna, che svolge l'indagine interrogando i molti
uomini di Clara. Nessuno la amava, era solo sesso
anche brutale. Allora il suo rogo era meritato?
Questo il pensiero subdolo e giudicante che si
insinua in un caso di femminicidio narrato da
Pauline Guena nel suo libro inchiesta "18.3-Un annee
a la P.J", da cui Dominik Moll ha tratto il film che
lo conferma - dopo l'ottimo recente "Only the
animals" - autore maiuscolo di inquietudini
all'ombra di delitti dell'anima oltre che del corpo.
L'ambientazione poliziesca nell'ambito di una
squadra investigativa rimanda al magnifico "L.627"
di Bertrand Tavernier, alle linee geometriche della
ricerca della verità, che Moll spezza in
continuazione creando una suspense, che da basata
sui fatti diventa puramente psicologica per non dire
patologica, contaminando tutto e tutti, poliziotti
sospettati vittime e carnefici. In un vero e proprio
carnage oscuro, dove tutti mettono le proprie
nevrosi e vi si rispecchiano. La metafora visiva di
Yoahn che corre in bicicletta girando in tondo in un
velodromo, rende la claustrofobia di un enigma da
cui non si esce e che inchioda nell'ossessione.
Clara la donna del peccato, la sfinge ricoperta di
fango, la vittima che meritava quella fine? Domande
orribili a cui Marceu (grande Bouli Lanners) il
collega devastato dai propri fallimenti personali e
coniugali risponde con una considerazione che fa
paura: fra gli uomini e le donne c'è qualcosa che
non funziona, gettando così un'ombra ulteriore in un
caso inesplicabile. L'ambientazione spoglia,
esaltata dalla fotografia sporca e anch'essa
molto autoriale di Patrick Ghiringhelli, che
trasforma interni ed esterni in un unico scenario
asfissiante, rende i luoghi come assenze. Dove manca
qualcosa, non solo una certezza o una risposta,
soprattutto un appiglio per non sprofondare. Nel
girone infernale del lato ombra, scatenato senza
possibilità di salvezza né di ritorno. Solo i versi
di Verlaine "Dans le vieux parc solitarie et glacé/Deux
formes ont tout a l'heure passé" evocono a un tratto
gli spiriti, i fantasmi che si aggirano fra
poliziotti, assassini, vittime, morti tra i vivi per
perseguitarli, come dira' la giovane allieva della
squadra investigativa (Mouna Soualem, notevole).
Rispolverati dopo anni dal delitto da una
procuratrice (Anouk Grinberg magnifica ed enigmatica
come in "Trompherie" di Desplechin) da sotto pile di
pratiche di delitti irrisolti, sepolti come le loro
vittime da quell'ombra profonda, impenetrabile
dell'animo umano e/o disumano.Festival di Cannes
2022. Imperdibile - il miglior film in
circolazione. (Carlo Confalonieri)
MAIGRET di
Patrice Leconte - Oltre 30 anni dopo il suo
capolavoro " Monsieur Here" , Patrice Leconte
ritorna a Georges Simenon. Di nuovo con un film
ossessione, dove un'indagine del Commissario Maigret
("Il Commissario Maigret e la giovane morta") si
trasforma in un incubo privato del più celebre
personaggio di Simenon. La morte violenta di una
fanciulla finita in giri poco puliti (si pensa a
"Dalia nera" di James Ellroy) è sì l'oggetto di
un'indagine da parte di Maigret, ma è anche il suo
requiem per le precarie condizioni di salute fisica
e per le derive della sua psiche minata dal lutto di
una figlia (come Simenon). Leconte è un regista
malinconico e introspettivo, capace di celare
ossessioni patologiche dietro apparenti armonie ("
Il marito della parrucchiera") nonché di giocare
sottilmente coi trasformismi dei personaggi
("Confidenze troppo intime"). Senza troppo dire ne'
svelare, anzi tacere suggerire nascondere
ellitticamente. Questo suo "Maigret" è un
concentrato di tutte le sue qualità, in primis
quella di seguire e perseguire un'idea, una traccia
ossessiva, persino omaggiando l'Hitch di "Vertigo"
in una sequenza di metamorfosi, ai confini del
patologico, nei confronti di un'altra ragazza
somigliante alla vittima. Il volto e il corpo di un
magistrale Gerard Depardieu incarnano il lutto, un
antico dolore e la prospettiva accettata della morte
in un ghigno granitico, in un incedere stanco
provato esperto della vita. Tra le brume grige della
fotografia sublime di Yves Angelo, così simile a
quella (sempre sua) di "Un cuore in inverno" di
Claude Sautet, in cui raggelo' un altrettanto
crepuscolare ingorgo di passioni. Perche' questo
bellissimo "Maigret" di Leconte rivela dietro la
trama gialla, l'incendio delle passioni in molte
loro declinazioni. Non accese, non spente,
semplicemente bloccate nella nebbia del ricordo.
ESTERNO NOTTE PARTE 2 - TRE DONNE, come nel capolavoro assoluto di Robert
Altman, uno dei più grandi film onirici, che ha
segnato la mia vita. Ma tre donne sono anche le tre
sorelle di SUSSURRI E GRIDA, apice sublime di Ingmar
Bergman. Anche ESTERNO NOTTE PARTE 2, dopo il girone
di pazzi, nevrotici e psicotici della PARTE 1, tutti
uomini, svolta nella PARTE 2 verso un universo
femminile di pura follia, lucida o offuscata non
importa, tutta muliebre. E sceglie simbolicamente
proprio tre donne metafora, affidate a tre attrici
immense. 1) Adriana Faranda (Daniela Marra, che
ricordo già bravissima e scorticata ne LA TERRA DEI
SANTI di Fernando Muraca) rappresenta, dopo la
psicosi politica della PARTE 1, la psicosi
rivoluzionaria della PARTE 2. Le Brigate Rosse viste
come un pugno di folli avulsi dalla realtà,
totalmente autistici al punto di non accorgersi
della vita attorno a loro, in una scena di potenza
inaudita in cui dibattono di rivoluzione in una
piazza affollata. Senza nemmeno accorgersi della
miseria, degli scippi, dello sfacelo che li
circonda. Quattro gatti impazziti che persino
ammettono di non poter fare la rivoluzione, mentre
fantasticano di farla. Con Faranda - furia
mitologico archetipica - che, in una scena da
Bellocchio totale, corre nei corridoi di casa
impazzita di gioia alla notizia della strage e del
sequestro di Via Fani. Puro delirio dinamico, come
l'indimenticabile marcia 'sacrale' di Isabelle
Huppert ne LA BELLA ADDORMENTATA. Sognando poi i
cadaveri dei politici trascinati da un fiume, mentre
lei guarda dalla riva - impotente e femmina folle
come Gene Tierney in LEAVE HER TO HEAVEN - per non
averli uccisi lei. 2) Eleonora Moro (Margherita Buy,
sublime, mai vista cosi espressiva solo con gli
occhi) metafora della nevrosi della famiglia
cattolica, dove non si parla, non si comunica, ma si
confessa al confessore la propria infelicità
matrimoniale e gli si chiede l'assoluzione mentre
tutta Roma è solcata dagli elicotteri dopo la strage
di Via Fani, vista da un altro punto di vista, in
un'altra location, con uno spostamento di
prospettiva magistrale. Noretta che caccia fuori i
politici da casa, venuti in finte lacrime a
consolarla, dicendo 'vuole farsi consolare lei...vada'.
Noretta che dice ai figli che bisogna capire e
perdonare i rapitori del loro padre, perché loro (i
Moro) sono credenti. Noretta nevrotica nella
scissione dei valori, ma di certo l'unica che nella
rappresentazione bellocchiana ha una qualche dignità
e che non varca il confine che da nevrosi diventa
psicosi. 3) La madre superiora della grandissima
Federica Fracassi, la nostra più grande attrice di
Teatro, di nuovo patologicamente inarrivabile,
simbolo della psicosi della Chiesa. Non tanto lei,
che vede davvero, quanto la concezione di
visionarietà accetta dal sistema ecclesiastico. Lei
vede davvero infatti, e denuncia come avesse
assistito a un miracolo il via vai sotto il suo
convento, a cui assiste salendo sul W.C. (e qui
l'unghiata sarcastica di Bellocchio nei confronti
della religione e delle sue 'ore' è fenomenale).
Fracassi, che già portò in scena una 'santa' uscita
dalla penna maestra di Antonio Moresco, con poche
scene importantissime disegna un delirio religioso,
che delirio non è e si rivela Cinema tout court.
Siglando NEL NOME DELLA MADRE questo capolavoro
assoluto da vedere assolutamente al Cinema, perché
del Cinema è essenza, metafora e simbolo in tutta la
sua potenza psicanalitica.
(Carlo
Confalonieri)
LA DOPPIA VITA DI MADELEINE
COLLINS di
Antoine Barraud (Giornate degli Autori Venezia 78) -
In una delle sue identità Virginie Efira-ormai nuova
luminosa e seducente star del Cinema Francese (SYBIL,
ADIEU LES CONS, BENEDETTA e in uscita LUI e EN
ATTENDANT BOJANGLES) - non poteva non chiamarsi
Madeleine, come Kim Novak in VERTIGO.
Hitchcockianissimo, il nuovo film di Antoine Barraud
(suo LE DOS ROUGE sagace ritratto del mondo
dell'arte con Jeanne Balibar e il regista
Bertrand Bonello in veste d'attore) narra di una
DONNA CHE VISSE DUE VOLTE dalla parte di lei. Quindi
non dalla parte di James Stewart, ma di Kim Novak.
Judith in Francia ha un marito famoso direttore
d'orchestra e due figli (uno èThomas Gioria il
magnifico giovane attore di L'AFFIDO e ADORAZIONE).
In Svizzera un compagno e una figlia di 3 anni. La
realtà qual'è? Un castello di carte identitario che
prende il via dal sublime piano sequenza iniziale,
dove una giovane donna anch'ella bionda come
Virginie Efira e altrettanto bella si aggira per un
elegante atelier in cerca di un abito, finché le
accade qualcosa di irreparabile. Da lì è thriller
esistenziale-Hitchcock, De Palma, Cronenberg - con
Judith che mente dicendosi in viaggio come
traduttrice, in realtà continuando la spola fra
Parigi e Ginevra fra due identità e due famiglie.
Dopo Bonello, Barraud coinvolge altri due registi
come attori, Valerie Donzelli e il grande israeliano
Navid Lapid di SINONIMES nel ruolo di un falsario.
Nonche' la sempre splendida Jaqueline Bisset del
mitico EFFETTO NOTTE di Francois Truffaut. Non è un
caso. Barraud dopo un film sull'arte, realizza un
film sulla quintessenza del Cinema come arte
dell'illusione e dello sdoppiamento. E attraverso la
via secondaria del thriller, entra nei meandri del
nostro proiettarci sullo schermo immaginando
personaggi e altre personalità. Il risultato è
spiazzante, frenetico (Polanskianamente FRANTIC)
inarrestabile, facendo a pezzi ogni certezza visiva
costruita sullo splendore della Efira. Conducendoci
nei meandri più oscuri della follia di chi non sa
più chi è. Travolto dall'irrazionalita' dei
sentimenti, sempre più lontano dalla ragione. Lo
psyco thriller più Cinematografico, autoriale,
frantumato e compatto che si possa oggi immaginare,
lontano mille anni luce dalle serie pseudogialle
abortite dalle solite vomitevoli piattaforme. Per
chi ama e amerà sempre e solo il Cinema. Non a caso
il mio 'colpo al Cuore' dell'ultima Mostra del
Cinema di Venezia.
(Carlo
Confalonieri)
ONLY THE ANIMALS Storie di spiriti amanti di Dominik Moll - Claude Chabrol aleggia maestoso
dal principio alla fine del nuovo labirintico
thriller esistenziale del francese Dominik Moll,
tratto dal romanzo di Colin Niels. La provincia
francese innevata del Lozere, la borghesia a
contatto con le sue pulsioni oscure, i segreti
inconfessabili di vite ai margini. Da IL
TAGLIAGOLE a IL COLORE DELLA MENZOGNA (dove recitava
guarda caso una giovane Valeria Bruni Tedeschi) la
lezione chabroliana influenza il film di Moll, che
però resta molto personale, complicato e morboso
com'è nel suo stile (HARRY UN AMICO VERO, DUE VOLTE
LEI). Avanti e indietro nel tempo limitato di
qualche giorno, si intrecciano vite apparentemente
slegate fra loro. Alice, assistente sociale
insoddisfatta in un matrimonio sterile ha come
amante un assistito problematico. Suo marito
intreccia amori fasulli sulle chat. Evelyn Ducas
affascinante signora borghese (splendida Bruni
Tedeschi per la terza volta in un ruolo omosessuale)
annoiata dal marito, intreccia una torrida relazione
con una cameriera di vent'anni più giovane e
poi scompare nel nulla. Fili invisibili, piste che
inaspettatamente s'intrecciano, indizi inquietanti e
lontanissimi (finiamo in Costa d'Avorio ma non
rivelo perché) per risolvere un enigma, ma
soprattutto per far luce su un paesaggio umano
disperato per l'assenza e la simulazione dell'amore.
Tutto sotto ghiaccio, sepolto dalla neve, con le
passioni implose e la violenza esplosa. Diviso
in capitoli che, focalizzando i personaggi uno a
uno, fanno ordine in un caos passionale e sessuale,
lucidamente esplicato fra sperimentazioni carnali e
virtuali. Che non colmano il vuoto di un panorama
umano di assoluta incapacità di amare davvero. Film
di enormi incomunicabilità, che disegnano il nostro
vivere come un thriller senza senso. Invece molto
significante nei suoi tormenti e nelle sue
incolmabili insoddisfazioni. Il cast è da urlo col
meglio del Cinema Francese di oggi. A parte la
fuoriclasse Bruni Tedeschi, che ha raggiunto
un'espressività irraggiungibile e audace, si rubano
con equilibrio la scena tre assi assoluti: Denis
Menochet, Laure Calamy, Damien Bonnard. Da vedere
assolutamente!
(Carlo
Confalonieri)
ESTERNO NOTTE PARTE 1
di Marco Bellocchio -
In una delle prime sequenze della prima parte del
magnifico sontuoso affresco -grondante disagio e
finzione del vivere da ogni fotogramma firmato da
Marco Bellocchio sul rapimento Moro, appare il
manifesto di un film che amo alla follia e che parla
di follia. E' ANIMA PERSA capolavoro gotico di
Dino Risi tratto da Giovanni Arpino con Gassman e
Deneuve. Compare di sfondo all'assalto da parte dei
manifestanti di sinistra ad un'armeria. A mio avviso
non è scenografico, né casuale, ma una precisa
dichiarazione d'intenti. Perche' ESTERNO NOTTE PARTE
1 è un grande balletto macabro di anime perse, un
girone di folli, psicopatici, nevrotici, bipolari,
masochisti e in varia misura malati di mente. Tutti
sdoppiati: politici, papi, segretari di partito,
prelati, mariti, mogli, preti di vario rango,
brigatisti. Nessuno è se stesso, ciascuno ha assunto
un ruolo devastante per la psiche, terminale per uno
straccio di salute mentale. Roma vista come un
grande manicomio a cielo aperto, con tanti reparti:
dal Parlamento, al Vaticano, dai Tribunali alle case
borghesi dove regna l'infelicità e
l'incomunicabilità. Insonnie, visioni distorte di
sé, simulacri di integrità. Nessun dialogo. Prega
dice la moglie a Moro, stringi dice il Papa al suo
segretario mentre gli mette il cilicio. Moro vaga in
un incubo con una Croce sulle spalle nella
processione del Venerdì Santo sulla musica
terrificante del magnifico Requiem di Verdi. Mai
vista una tale concentrazione di follia, quasi una
summa del Cinema psichiatrico di Bellocchio,
immediatamente da accostare al suo Capolavoro sulla
follia: SALTO NEL VUOTO. ESTERNO NOTTE PARTE 1
ovvero le prime 2 ore e 40 di quella che sarebbe una
serie, mentre è a giudicare dalla prima tranche un
tortuoso morboso thriller psicanalitico, che si
segue col fiato sospeso tra mostruosità
psicosomatiche e bestiari umani-horror visivamente
degni de LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO di Dreyer.
Potrebbe entrare da un momento all'altro la Bette
Davies del periodo horror al posto della Buy nei
panni di Eleonora Moro e non ti stupiresti. Tanto
che Gifuni /Moro ha gli occhi infossati come un
Dracula esangue e Fausto Russo Alesi, strepitoro
Cossiga, pare un internato da camicia di forza.
Totalmente visionario e potentissimo, ESTERNO NOTTE
1 è un nuovo IL TRADITORE per dinamicità
elettrizzante. Un Bellocchio grandissimo, non
traditore ma fedele a se stesso in tutto per tutto,
fino all'ultimo respiro cinematografico.
Grandioso!!!
UN EROE di
Asghar Farhadi - Kafka e il De Sica di LADRI DI
BICICLETTE si intrecciano nel nuovo thriller sociale
e morale di Asghar Farhadi. Perche' proprio di
thriller si tratta, quando il maestro iraniano
innesca nella realtà del suo paese (ma gli è
riuscito anche nella Francia de IL PASSATO e nella
Spagna di TUTTI LO SANNO) un meccanismo tortuoso,
che copre la verità fino a renderla irriconoscibile,
indimostrabile, colpevolizzante anche quando non lo
è. Alle prese con l'Iran come in questo caso,
subentra anche la descrizione scivolosa di un
tessuto sociale e politico dominato da una
burocrazia farragginosa, da regole e leggi assurde
(come avvenne in quel capolavoro che è UNA
SEPARAZIONE). Rahim Soltani - un povero diavolo
incarcerato per non aver potuto onorare, perché
truffato dal socio, un debito - durante un permesso
si trova tra le mani una borsa d'oro che potrebbe
risolvere i suoi problemi. Decide di restituirla.
Sara' eroe per un giorno, finché farà comodo al
sistema carcerario macchiato da troppi suicidi. Ma
poi tutto gli si ritorce contro, come in incubo
kafkiano che prende i contorni di un giallo, dove
Rahim come il personaggio di LADRI DI BICICLETTE
(anche lui ha un bimbo al seguito che, bloccato
dalla balbuzie, parla e strazia con gli occhi come
quello indimenticabile del film di De Sica) si
dibatte tra speranza e disperazione sempre con
dignità. Lo strazio procede implacabile, con un
incastro quasi Hitchcockiano, che come in IO
CONFESSO non permette alla verità di venire a galla
e pure nel momento in cui affiora diventa un'arma a
doppio taglio. Amir Jadidi bravissimo costruisce un
Rahim immutabile dal principio alla fine, sempre con
quel sorriso di fronte alla sua Via Crucis, martire
della società, dei media (anche in Iran tecnologia
equivale a follia), del sistema carcerario, persino
di se stesso. Vittima sacrificale su cui il sistema
Iran espia le proprie colpe, i propri torti, i
propri abusi. In questo Farhadi è assolutanente
spietato come sempre, demolendo la facciata di un
paese che erge l'ipocrisia a sistema burocratico,
illegale e di vita. Fino a contaminare tutto persino
gli affetti. Che però nel magistrale piano sequenza
finale, si affacciano sul buio come una luce di
speranza. Gran Premio della Giuria meritatissimo al
Festival di Cannes. (Carlo Confalonieri)
NOWHERE SPECIAL
di Uberto Pasolini - Due film bellissimi sulla morte
firmati da Uberto Pasolini, nipote di Luchino
Visconti, raffinato e personalissimo regista
produttore sceneggiatore italiano artisticamente
trapiantato nei paesi anglosassoni: STILL LIFE con
un grande Eddie Marsan (2013) sul dopo e ora NOWHERE
SPECIAL con il bravissimo affascinante James Norton
e il piccolo Daniel Lamont, entrambi prodigiosi, sul
prima. John lavavetri 33enne di Belfast sta per
morire. Con le assistenti sociali gira varie
possibili famiglie (ma la scelta sarà sorprendente e
stupendamente anti-famigliare in senso tradizionale)
a cui affidare il piccolo Michael di 4 anni, senza
madre andatasene via e senza alcun famigliare
sostitutivo. Girano insieme in questa scelta
dolorosa, passano il tempo a casa a preparare
ricordi o per strada a camminare insieme, mano nella
mano verso l'ignoto più cupo. Sempre col sorriso. Ed
ecco di nuovo il tocco meraviglioso, l'Uberto
Pasolini Touch capace di rendere per immagini
sentimenti indicibili, senza retorica, con sintesi
maestra, quasi con rigore fotografico che stringe
sui personaggi con un senso dell'inquadratura
perfetto e naturale. Lontano da retoriche, vuote
commozioni, sempre centrato, di intensità profonda,
poetica e realistica. Un po' AMANDA, altro magnifico
film di Michael Hers su un lutto a carico
dell'infanzia, un po' LADRI DI BICICLETTE, per
quegli occhi che si incontrano senza parole fra
padre e figlio e le loro mani che si intrecciano.
Quasi impossibili da narrare oltre, a parole.
E' stupendo e triste, triste e stupendo. Va visto! (Carlo Confalonieri)
È STATA LA MANO DI DIO
di Paolo Sorrentino -
Napoli dolente, folle e bella come zia Patrizia
(Luisa Ranieri meravigliosa) che vede San Gennaro e
il Monachello, come proiezioni della sua follia,
sofferenza e diversità. Il Monachello, alla fine di
uno dei viaggi più tristi dolorosi e conoscitivi, lo
vedrà pure Fabietto (Filippo Scotti grande
rivelazione) alter ego di Paolo Sorrentino, nel
momento in cui la sua 'follia' creativa - il
desiderio di diventare regista cinematografico - lo
salverà dall'orrore della vita, che gli ha riservato
in adolescenza la più terribile delle disgrazie.
Come in uno dei giochi di prestigio da giocoliera o
in uno dei suoi scherzi telefonici, la madre lo
abbandonerà infatti insieme al padre entrambi
amatissimi, - hanno le fattezze dolci e rassicuranti
degli splendidi Toni Servillo e Teresa Saponangelo -
per una fuga di gas, che addormenterà entrambi per
sempre come in una fiaba. Che all'inizio è fatata
come una gita in campagna o un giro in barca, ma poi
diventa nera, come la notte in un pronto soccorso
dove nessuno dei medici trova il coraggio di dire a
Fabietto e al fratello, orfani, la verità.
Dall'abbandono, dal vuoto, dalla mancanza di figure
di riferimento genitoriali a un incubo bunueliano,
dove persino la Baronessa vicina di casa (Betti
Pedrazzi immensa attrice napoletana) si trasforma in
una virago nave scuola, in una scena di alta
mostruosità, Maradona viene invocato, dal
monumentale Renato Carpentieri, come salvatore nella
tragedia. Siamo tra Polanski e Bunuel, Fellini si
intravede sul set di un provino di mostri, Antonio
Capuano bravo regista napoletano è un fantasma
acquatico e inquietante. AMARCORD non c'entra nulla,
lo rifece Woody Allen in RADIO DAYS, ma Sorrentino
piuttosto - se proprio si vuol citare Fellini -
guarda a I VITELLONI. Perche' il suo film,
bellissimo e tristissimo, non parla dell'incanto
della memoria, bensì della formazione del dolore. Di
cui è così pervaso da rendere un abbraccio tra due
fratelli una sorta di pietà Michelangiolesca a
Stromboli o la visita alla zia Patrizia in
manicomio, un momento di cognizione del dolore,
altrui e proprio. Quel dolore che eleva la vita a
gioia vera, perché la fa conoscere davvero e che
trasfigura la memoria di Sorrentino in un
memorabile, intimo, trattenuto (nulla a che fare
anche stilisticamente con LA GRANDE BELLEZZA)
sublime canto dell'anima, come quei due fischi con
cui comunicano senza parole quei genitori che non ci
sono più e che ci sono stati troppo poco. Lasciando
solo Fabietto/Sorrentino, ma anche libero di tentare
di sognare col Cinema. Follia salvifica che può
fargli vedere il Monachello salvatore, proprio come
zia Patrizia che scelse alla realtà crudele il
manicomio. Sontuosamente e semplicemente straziante. (Carlo Confalonieri)
IL POTERE DEL CANE
di Jane Campion -
Fino a ieri i due grandi capolavori
sull'omosessualità repressa che diventa omofobia
erano RIFLESSI IN UN OCCHIO D'ORO di John Huston e
TOM A LA FERME di Xavier Dolan. Oggi si aggiunge il
film magistrale che Jane Campion ha tratto dal
romanzo omonimo di Thomas Savage. Un affondo
visionario, morboso, torbido e sensuale nella mente
di un cowboy del Montana Anni 20, schiavo del mito
virile e machista, ma nel profondo segnato da
un'attrazione verso il proprio sesso. Che dal
ricordo del suo cavaliere mentore e probabile amante
defunto (con la cui sciarpa fa l'amore come ne L'APRES
MIDI D'UN FAUNE, in una scena di una potenza erotica
come solo la Campion può girare come ai tempi di
LEZIONI DI PIANO), passa all'attrazione/odio per il
figlio della moglie del fratello, efebico e
sensibile all'apparenza, in verità forte
intelligente e coraggioso nell'animo. Sara' lui a
ripulire il mondo da quell'obbrobrio vivente che lo
perseguita, insieme alla madre. Uno con l'omofobia,
l'altra con la misoginia. Jane Campion filma da
genio del Cinema qual'è, gettando ombre ovunque e
segnali sessuali latenti dove non ti aspetteresti.
Disegna un'altra figura femminile potentissima come
ai tempi di LEZIONI DI PIANO, minacciata da un
maschile orrendo e grezzo che ne nega il potenziale
umano e la spinge a bere. Così come la dolcezza del
figlio diventa un bersaglio per il cognato
patologico. Solo l'occhio visionario e trasformativo
della Campion poteva inventare un nuovo west e un
nuovo western che diventa un thriller hitchcockiano
così come TOM A LA FERME. I personaggi affidati ad
attori superlativi sono simboli del male (Benedict
Cumberbacht), del bene (Kirsten Dunst),
dell'ambiguità fra i due (Kodi Smeet McPee). E come
in una tragedia Greca all'ombra di praterie come
deserti (gialli, ma come quelli Antonioniani, rossi
per la nevrosi devastante), si consuma la lotta fra
sane pulsioni inconsce e la ragione malata che le
rifiuta, come hanno fatto i senatori che hanno
bloccato il DDL ZAN lasciando la società che avanza
ai pali di un DESERTO ROSSO. Da vedere per
dimensione visiva solo e unicamente al Cinema, a
meno che non si voglia vedere la copia distorta di
un Capolavoro. (Carlo Confalonieri)
UN ANNO CON SALINGER
di Philippe
Falardeau - New York 1995 isola intellettuale così
ben descritta da Woody Allen in MANHATTAN del 1979.Vi
approda Joanna(nella realtà Joanna Rakoff autrice
del romanzo da cui il film è tratto) aspirante
scrittrice e poetessa. Per avvicinarsi al mondo
letterario diventa segretaria dell'inflessibile e
sofisticata agente letterario Margaret. In realtà
così si allontana ,perché non solo Margaret non
assume scrittori (e Joanna mente, ancor prima a se
stessa), ma le affida il compito di filtrare (ovvero
leggerla, rispondere con un modulo standard e infine
buttarla) la corrispondenza destinata al suo cliente
più celebre, il J.D.Salinger de IL GIOVANE HOLDEN,
lo scrittore più schivo e misterioso d'America. Il
film del bravo regista canadese Philippe Falardeau -
che apprezzammo per il delicato e sottile MONSIEUR
LAZHAR - poteva esaurirsi in altre mani nel solito
match fra 'apprendista' (Joanna che ha lo sguardo
fiero dell'ottima Margaret Qualley rivelata da
Tarantino in C'ERA UNA VOLTA A HOLLYWOOD) e
'stregone' (l'altera Margaret della sempre
superlativa Sigourney Weaver). Invece via via
diventa tutt'altro: uno studio sulla distanza fra
l'artista e l'uomo. Uno spazio a volte incolmabile,
se non dal mito come nel caso dell"irraggiungibile
Salinger. Lo capirà a sue spese Joanna che tenterà
di rispondere personalmente ai fans di Salinger,
tentando così di colmare quella distanza. Cosa
sbagliata perché un conto è l'uomo e un conto
l'artista le cui opere diventano proprietà
dell'umanità, ma non deve esserlo la sua persona nel
bene e nel male. Annullando però il mito dello
scrittore dentro di sé, Joanna troverà se stessa
come scrittrice vera e non come intermediaria col
mito. Una grande verità che chi è un artista vero
conosce, avendo lasciato la strada altrui comoda e 'mitologica',
per la propria sofferta e umana. E nella scena
fantastica e vertiginosa della danza nei corridoi
del Waldorf Hotel, Falardeau non solo alza il film
dalla mediocrità e dal deja-vu, ma lo porta
improvvisamente in una dimensione profonda, dove le
scelte diventano vocazione inconscia, che porteranno
a perseguirla per tutta la vita. Anche in
solitudine, al di là del successo e della fama,
sempre effimeri di fronte al vero senso/scopo di una
vita. Da vedere e da riflettere. (Carlo Confalonieri)
L'ARMINUTA di Giuseppe
Bonito - Dal romanzo duro, poetico, bellissimo di
Donatella Di Pietrantonio un film duro, poetico,
bellissimo. Con dentro ad ogni immagine l'anima del
premiatissimo romanzo. Ovvero la barbarie della
famiglia più o meno legale e la verità invece dei
sentimenti autentici. L'arminuta è la restituita,
che a 13 anni viene riconsegnata dopo essere stata
cresciuta fra gli agi di una famiglia di parenti,
alla miserabile famiglia d'origine. L'Abruzzo
borghese della famiglia putativa diventa di colpo
quello ancestrale della FIGLIA DI IORIO di
D'Annunzio e a ben guardare quello miserabile dell'Acitrezza
de LA TERRA TREMA di Luchino Visconti. L'italiano
della ragazzina viene così a contatto con silenzi
pesanti come muri e una lingua incomprensibile
(avrei tolto anche i pochi sottotitoli che ogni
tanto appaiono). Le immagini parlano: soprusi,
miseria nera, ignoranza, superstizione. Ma l'Arminuta
che ha il volto dolcissimo e bello di Sofia Fiore,
molto simile alla prima Dominique Sanda di COSÌ
BELLA COSÌ DOLCE di Robert Bresson, troverà lo
stesso la via della cultura grazie ai suoi meriti e
all'affetto senza confini nè regole della sorellina
minore Adriana, a cui la stupefacente piccola
Carlotta Leonardis dà tocchi magnifici e ribelli del
Truffaut de I 400 COLPI e I SOLDI IN TASCA. Il
rapporto inscindibile fra le due sorelle diverse, ma
legatissime da sangue e anima - che Pietrantonio
svilupperà nel successivo mirabile BORGO SUD
(sintetizzando una grande saga sororale che mette in
ombra l'interminabile AMICA GENIALE dell'enigma
Elena Ferrante) - si ferma nel film come nel libro
in un'inscindibile promessa muta di eterno affetto,
di fronte al mare e poi nell'acqua e alle sue
profondità inconsce. Stupendo film italiano di un
regista finalmente uscito a pieni voti dal ruolo di
assistente dopo il rutilante FIGLI con Cortellesi e
Mastandrea, cui pur provenendo da un romanzo non
servono parole. Perché le immagini al Cinema le
sostituiscono. E quel vestito da ALICE NEL PAESE
DELLE MERAVIGLIE della fanciulla precipitata in
quell'incubo è già un'intima dichiarazione
d'intenti, di come affrontare quel viaggio a ritroso
nella memoria, nella negazione della cultura e
dell'amore per ritrovarli tutti ancora più potenti e
indispensabili per vivere. (Carlo Confalonieri)
TITANE di
Julia Ducournau, Palma d'oro al Festival di
Cannes - È la grande
opera filosofica, sociopolitica, psicologica e
religiosa del nostro tempo. In cui domina il corpo e
la macchina (auto, computer, telefono ecc.). Lo
spirito non è più previsto e senz'anima l'uomo non
esiste più. Resta la carne generata da padri e madri
che non trasmettono altro che quella. Il padre nella
prima scena è colui che rimprovera la figlia
recalcitrante, messa e dimenticata sul sedile
posteriore. Ne segue un incidente, che porterà la
piccola Alexia (da adulta Agathe Rousselle
prodigiosa) in fin di vita, salvata con
l'applicazione nel cranio di una placca di titanio.
Uscita dall'ospedale non bacerà né il padre né la
madre, perché è diventata definitivamente un oggetto
negato da chi l'ha creata come materia senz'anima.
Titanio è un metallo, ma Titani furono anche gli dei
che si ribellarono al padre. Alexia lo fa prima
diventando una donna che si esibisce in live show
sessuali sulle auto, poi addirittura seppellendolo
(in un incendio) come consigliano Freud e Jung, ma
da macchina senz'anima (che uccide liberamente senza
un padre interiore) va allo sbando. Julia Ducournau
racconta col linguaggio dei sogni (ancor meglio
degli incubi ) il folle viaggio di Alexia alla
ricerca del padre che la accoglierà, la aiuterà a
diventare donna e dar la vita a sua volta. Non
importa se il padre putativo sarà un pompiere dal
maschile ipertrofico gonfiato dagli anabolizzanti,
anzi il suo maschile mostruoso verrà a sua volta
corretto dal femminile mostruoso di Alexia,
riequilibrando i ruoli del maschile e del femminile.
Perché Alexia che si fingerà il figlio scomparso da
10 anni del pompiere per ricostruirsi un'identità,
con quell'uomo diventerà davvero figlio poi figlia e
poi madre, del figlio a sua volta concepito in un
amplesso con un' automobile. Ducournau procede
sempre su un piano simbolico, conferendo ad ogni
immagine una retrolettura interpretativa e rendendo
così il suo film classicamente e potentemente
autoriale, come potrebbe essere un film di Bergman.
Sentire il pompiere del magistrale Vincent Lindon
difendere Alexia come intoccabile in quanto lui è
Dio e lei/lui è Gesù Cristo introduce il tema
dell'incarnazione, vero tabù dei nostri tempi, in
cui esiste la carne, non l'anima incarnata. La carne
che era anche al centro di RAW folgorante opera
prima di Ducournau, carne priva di anima anche lì,
oggetto di cannibalismo. Il suo Cinema si ammanta
così di un alto profilo filosofico e religioso, che
attraverso il linguaggio psicanalitico delle
immagini fortissime che urlano per chiarezza e
immediatezza non lascia dubbi interpretativi. È il
Cinema dell'oggi, ma anche di ieri e forse del
domani perchè in ogni tempo è forte la tentazione di
negare l'evidenza dell'inconscio, della psiche
intesa come anima. Oggi però non è più possibile, ce
lo ha ricordato anche una pandemia che ha minato
ogni certezza materiale. Il film girato durante
essa, urla e si dibatte fino a ritrovare la strada
dello spirito, dell'anima, del maschile e del
femminile come poli centrali dentro ognuno di noi.
Perchè non esiste ragione senza spirito, nè maschile
senza femminile, nè padri nè madri senza figli anche
se solo spirituali. TITANE rimette in moto sensi,
emozioni, strati profondi, oltrepassa la materia con
una furia titanica in una battaglia ambientata in
ambienti quotidiani (altro notevolissimo pregio del
Cinema non di fuga nel fantastico di Ducournau) per
approdare a un puro misticismo pasolinianamente
laico e religioso, persino attraverso l'uso finale
de LA PASSIONE SECONDO SAN MATTEO di Bach, usata da
Pasolini stesso nel suo immenso IL VANGELO SECONDO
MATTEO. Quando l'uomo risorge dalla materia e si fa
Dio, in terra in cielo e dentro di sé. Film chiave
di questo secolo. (Carlo Confalonieri)
A CHIARA
di Jonas Carpignano - Carmen Consoli sublime
cantautrice siciliana, nel suo ultimo bellissimo
album racconta che crescendo dovette rivolgere lo
sguardo da un altra parte per non vedere gli orrori
della mafia. Non riesce o meglio non vuole farlo
Chiara,15enne di Gioia Tauro, felice e spensierata
in apertura alla festa dei 18 anni della sorella
Giulia. Una festa colorata debordante e kitsch
tipica di una piccola borghesia di paese. Di lì a
poco la sua vita cambia, prima con l'esplosione
dell'auto del padre, poi con la fuga dello stesso
come latitante per traffico di stupefacenti e
collusione con l'ndrangheta. Jonas Carpignano dopo
il magnifico A CIAMBRA sulla comunità rom, torna a
Gioia Tauro seguendo da vicino la sua giovane
protagonista, Swamy Rotolo, nei panni di Chiara. Tra
finzione e semidocumentario con lo stile tutto suo,
Carpignano si conferma Autore maiuscolo, vincendo
peraltro per la seconda volta - dopo A CIAMBRA - la
Quinzaine des Realisateurs del Festival di Cannes
(ora è tempo di metterlo in concorso e magari
assegnargli una Palma d'oro). Grandissimo occhio,
racconta la voragine che si apre nella vita di
Chiara, che indomita vuol sapere, conoscere cos'è
successo al padre e quali segreti nasconde. E farà
di tutto, fino a trascorrere una notte col padre
latitante che le mostra il suo lavoro di smistamento
degli stupefacenti, in una sequenza cinematografica
di potenza assoluta in quanto equivalente a un rito
di iniziazione al male. Un giudice del Tribunale dei
minori che vuol sottrarre Chiara al suo destino
segnato, spiega che l'ndrangheta si radica agendo
sulle famiglie, attraverso una subdola trasmissione
fra i suoi membri. Chiara dopo tanto cercare e
capire, non ci starà e anche qui Carpignano riesce
perfettamente nel suo intento di narrare un percorso
di salvazione, sottraendosi agli affetti famigliari
più amati ma tossici. In questo A CHIARA assume la
statura di una Tragedia Greca, con la giovane
protagonista bella e fiera come Antigone. Ritratta e
inquadrata sempre da Carpignano come una creatura
meravigliosa e dolente, sempre esteticamente
bellissima, come sono belli il coraggio e la
consapevolezza. Con un senso del Cinema personale,
assoluto e travolgente, capace di passare da un tono
all'altro in un crescendo di pura emozione visiva,
sonora, sanguigna. Grandissimo Cinema, che toglie il
fiato e che si può imparentare a MOUCHETTE di
Bresson a ROSETTA dei Dardenne e ad Antoine Doinel
de I 400 COLPI di Truffaut, rendendo monumentale lo
sforzo adolescenziale di Chiara di crescere nel
segno di una libertà negata dagli adulti.
MAGNIFICO MAGNIFICO MAGNIFICO !!! (Carlo
Confalonieri)
FALLING - STORIA DI UN PADRE
di Viggo Mortensen - Due maschili si fronteggiano
titanicamente nel debutto alla regia di Viggo
Mortensen, attore bravissimo, colto, autenticamente
alternativo sia nel Cinema d'autore che in quello di
genere. Il padre Willis ormai nel declino senile
viene recuperato nella sua fattoria rurale dal
figlio John, pilota d'aereo e portato in California
dove vive col compagno asiatico Eric e la
figlioletta adottiva. Willis è il peggio del
maschile, quello mostruoso che non ammette altro che
se stesso, quindi razzista, omofobo, intollerante.
John al contrario è il maschile accogliente
protettivo, capace di ascoltare e capire, quindi
autenticamente virile. Laddove della virilità il
padre è una patetica parodia, costruita su schemi
come un castello di carta. Dai flashback apprendiamo
che neppure il matrimonio di Willis rimase in piedi
per la sue odiose intolleranze e incomprensioni nei
confronti della moglie. E neppure una seconda
relazione finì bene. FALLING come caduta, decadenza,
fallimento del maschile tutto d'un pezzo e di quell'America
che lo incarna da John Wayne a Trump. Mentre John è
il maschile che regge la caduta, la fragilità della
vita e ne esalta affetti e sentimenti, vivendo la
sua omosessualità come un completamento del più
solido maschile, Willis fa tutto a pezzi anche se
stesso. Uno scontro cinematografico grazie
all'andirivieni drammatico fra passato e presente,
infanzia e maturità, maturità e vecchiaia. Ma anche
superbamente teatrale, calibrato su ottimi dialoghi
talora ferocissimi che potrebbero appartenere a una
piece di Edward Albee tipo CHI HA PAURA DI VIRGINIA
WOOLF? capostipite degli inferni domestici Usa. Come
su ring al match finale si fronteggiano Viggo, anche
magnifico interprete nel ruolo di John, un
monumentale coriaceo Lance Henricksen nel ruolo del
padre che da giovane ha il volto del bravo Sverrir
Gudnason. La sorella anch'ella testimone della
follia del padre, da adulta ha la dolcezza assoluta
della meravigliosa Laura Linney spesso attrice per
Clint Eastwood, al cui cinema questo film molto
bello, maturo, equilibrato nella forma e tumultuoso
nei contenuti si imparenta strettamente. (Carlo Confalonieri)
WELCOME VENICE
di Andrea Segre - Come nell'indimenticabile TRE
FRATELLI di Francesco Rosi del 1981- con Placido,
Noiret, Mezzogiorno, stupendi - ancora tre fratelli
simbolo di pensieri e vite diversi, nel nuovo
bellissimo film di Andrea Segre. Che torna dopo il
magico IO SONO LI nella sua Venezia, corpo
geografico e ancor prima motore psicologico e
simbolico di tre approcci alla vita. Alvise,
Piero,Toni (Andrea Pennacchi, Paolo Pierobon,
Roberto Citran, tutti bravissimi) eredi di una
famiglia di pescatori di moeche (i granchi di
laguna), han fatto scelte diverse. Alvise,
l'arrivismo commerciale, Piero il radicarsi dopo un
passato burrascoso alle radici e alle tradizioni di
famiglia,Toni una mite dedizione alla famiglia.
Centro della contesa, che esploderà poco a poco, la
casa di famiglia alla Giudecca. Venderla e
trasformarla in un B&B di charme per turisti
distratti o tenerla così com'è e continuare a
pescare. Dalla riunione iniziale di famiglia dove il
nipotino di Piero canta "Nina tu te ricordi" in un
momento di Cinema caldo e struggente, alla guerra
fratricida tra chi lascia Venezia e chi non può
DIMENTICARE VENEZIA, (titolo del capolavoro a torto
dimenticato di Franco Brusati con Mariangela Melato
e Erland Josephson). Film visivamente elegiaco e
vibrante tra albe e scorci lagunari di immensa
poesia resta di fondo amaro, crudele, spietato. E'
un meraviglioso cast di attrici superlative di
enorme espressività, guarda caso tutte arrivate dal
Teatro (Ottavia Piccolo, Giuliana Musso, Anna
Bellato, Sandra Toffolati) nei ruoli di mogli,
figlie, amiche a smussare gli angoli del maschile in
conflitto, a dar mille sfumature, a interiorizzare
la vicenda. Il film cresce a vista, ti prende e non
ti molla più, adombrando la Tragedia Shakespeariana
e la Commedia Umana di Carlo Goldoni (LE BARUFFE
CHIOZZOTTE e IL CAMPIELLO negli allestimenti divini
di Giorgio Strehler tornano alla memoria) fino
a un finale paurosamente surreale che piacerebbe a
Polanski, Cronenberg e David Lynch. Il grande Cinema
può tutto, anche fondere il più puro classicismo
alla sperimentazione estrema, nel nome dell'uomo e
della sua psiche simbolizzata artisticamente. Segre
con WELCOME VENICE ci riesce, un appuntamento
immancabile col VERO Cinema. (Carlo Confalonieri)
QUO VADIS, AIDA ?
- Tragica magnifica ricostruzione degli ultimi
giorni del conflitto della ex Jugoslavia, quando
Srebrenica viene occupata dai serbi e i suoi
cittadini bosniaci fuggono verso un fortino messo in
piedi dai caschi blu olandesi inviati dall'Onu.
Molti entreranno, molti resteranno fuori. Tutti in
attesa dell'arrivo delle truppe serbe, che li
condurranno sui camion verso uno dei più grandi
genocidi che la Storia ricordi. Nella base Onu regna
la più totale confusione, i caschi blu si mostrano
inadeguati, la massa bosniaca si ritrova in una
trappola organizzata. Nella babele di lingue, Aida
insegnante bosniaca al Liceo di Srebrenica e moglie
del preside assume il ruolo di interprete fra l'Onu,
serbi e bosniaci. Il film splendido e terrificante
della grande regista bosniaca Jasmila Zbanic - gia'
premiata nel 2006 con l'Orso d'Oro alla Berlinale
per IL SEGRETO DI ESMA - intreccia pubblico e
privato attraverso la figura potentissima e
altamente tragica di Aida, che percorre da un capo
all'altro come un' anima in pena tutto il film, il
suo spazio scenico immenso e claustrofobico insieme,
alla ricerca di una salvezza per il suo popolo e per
la sua famiglia. Per la quale cercherà anche
favoritismi che si riveleranno inutili, perché la
follia della guerra fratricida non guarda in faccia
nessuno. Aida ha il volto dell'attrice immensa Jasna
Djuricic, che guarda in macchina travolgendo
l'obiettivo e proiettandosi nelle nostre anime di
spettatori come fece Anna Magnani in ROMA CITTÀ
APERTA di Rossellini o IRENE PAPAS in Z L'ORGIA DEL
POTERE di Costa Gavras, due film a cui QUO VADIS
AIDA? rimanda per il senso incombente e dinamico
della ferita storica che si sta aprendo e che non si
rimarginera' mai. Potentissimo, girato spesso con la
macchina a mano che affianca Aida che corre come una
furia e un'eroina biblica tra il fiume di gente che
si riversa ovunque in cerca di scampo. Sara'
carneficina programmata e non impedita con
responsabilità anche dei Caschi Blu assolutamente
inadeguati, con quei soldatini in bermuda vestiti
come boy scout schiaffeggiati e presi a pugni dagli
uomini di Mladic, il colonnello dell'esercito serbo
responsabile del genocidio di Srebrenica, il cui
culmine è suggerito. Poi la macchina da presa si
sposta all'esterno dell'edificio dove si compie la
carneficina, dove la vita si svolge ignara. In fondo
le stragi non erano nemmeno lontane da noi, che
continuavamo a vivere come nulla fosse. Il dopo sono
le fosse comuni e la ricostruzione dei resti
disseppelliti dagli esperti nella composizione dei
cadaveri. Fra quegli scheletri si aggirerà ancora
Aida, stavolta lenta fino a svenire dal dolore.
Dovrà poi convivere, nelle città tornate serbo
bosniache, con i carnefici di allora e il vedo-non
vedo mimato dai bimbi alla recita finale è il grande
horror storico, a cui Aida rivolgerà il suo sguardo
finale immobile, impenetrabile. Aperto su un futuro
costruito sullo sterminio insensato, che come fu per
il nazifascismo ha lasciato molti carnefici in
libertà pronti a riprodursi fino a oggi. Un grande
grandissimo film che pare perdonare, ma non lo fa.
In Concorso a VENEZIA 77 e Candidato all'OSCAR per
il miglior film straniero. (Carlo Confalonieri)
SUPERNOVA
-
Quando alla fine del viaggio in camper,al termine
del loro amore trentennale, Sam e Tusker arrivano
alla meta è musica. Sam si esibirà in concerto al
pianoforte nello splendido SALUT D'AMOUR di Edward
Elgar, mentre Tusker afflitto da demenza precoce
forse raggiungerà le stelle. Per tutto il tempo
questo on the road sentimentale irradia la luce
delle stelle nel cielo, che Sam e Tusker contemplano
come il loro amore passato, presente e futuro. Che
oscurato dalla malattia diventa un abbraccio, una
protezione di un uomo verso un altro uomo, un saluto
d'amore a chi non si vuole lasciare andare, ma che
forse ha scelto di farlo.Harry MacQueen giovane
attore e regista inglese è indubbiamente il nuovo
Andrew Haigh, ormai acclamato nuovo maestro dei
sentimenti omo e etero e anch'egli inglese (WEEK
END, 45 ANNI, CHARLEY THOMPSON, tutti meravigliosi).
Lo conferma il fatto che questo suo secondo film sia
prodotto dallo stesso illuminato Tristan Goligher
che ha prodotto i film di Haigh. Anche MacQueen
mette insieme le relazioni (in questo caso quella
amorosa e di vita di due compagni omosessuali) con
un tocco assolutamente umano, scevro come in Haigh
di ogni artificio e sensazionalismo. La vita che
era, che è e sarà, null'altro, in attesa di destini
e scelte (la malattia e i vari modi di affrontarla)
con un coinvolgimento fortissimo osservato
delicatamente al microscopio. Sguardi, silenzi ma
soprattutto mani che si sfiorano, si stringono e
corpi che si abbracciano e proteggono. Quelli di due
attori magistrali, Colin Firth (Sam) e Stanley Tucci
(Tusker), calati dalla luce del grande Dick Pope
(l'operatore di Mike Leigh) in due persone buone e
innamorate. Che hanno dato in silenzio l'esempio
dell'amore a chi li circonda e dopo una vita insieme
devono scegliere come 'suonare' il loro SALUT
D'AMOUR. Malinconico, autunnale, proiettato oltre la
vita verso il cielo e le stelle. (Carlo Confalonieri)
NOMADLAND
- Il paesaggio dell'anima, il paesaggio
della natura. Stessa cosa nella cifra visiva di
Chloe' Zaho, che al terzo film dopo SONGS MY
BROTHERS TAUGS MY (girato in una riserva Sioux) e
THE RIDER (tra i rodei in Dakota Sud - di cui
rimando la mia recensione del 2019), raggiunge la
fusione totale fra cinepresa e interpreti ovvero
Frances Mcdormand e i luoghi (come Antonioni in
ZABRISKIE POINT o PROFESSIONE REPORTER). Luoghi come
attori alla stregua di esseri viventi perché loro
proiezioni interiori, ma ancor più loro
sperimentazioni, moltiplicazioni geologiche di
vissuti sentimenti memorie. Guardare attraverso un
sasso bucato equivale a entrare in una dimensione
tra vita e morte (come avveniva guardando nel buco
della parete ne ‘LE SORELLE MACALUSO’ di Emma
Dante). Perché quel sasso è appartenuto a una
persona defunta, che non si abbandona ma si ricerca
attraverso il viaggio.
In NOMADLAND tutti si sono messi in viaggio sui Van
attraverso l'America. Non tanto perché il lavoro
manca e lo cercano qua e là precariamente passando
dai contratti flash di Amazon a quelli stagionali
della raccolta di barbabietole. Perche' devono,
vogliono viaggiare. NOMADLAND attenzione non è
infatti un film sulla crisi economica Usa che ha
reso molti senza casa. Fran/Frances Mcdormand
precisa infatti di non essere una senzatetto, ma di
non aver una casa. Perché dopo la morte del marito e
la chiusura della fabbrica a Empire, piccolo centro
che verrà cancellato dalle carte geografiche, Fran
lascia tutto e parte. Perché la vita, la sua vita, è
un viaggio e vuole riprenderlo. Quindi non è la
Mona/Sandrine Bonnaire nichilista di SENZA TETTO NÉ
LEGGE di Agnes Varda, né la Jiuliette Binoche de GLI
AMANTI DEL PONT NEUF che va a fare la barbona sotto
i ponti. A Fran - lo dice all'ufficio di
collocamento - piace lavorare (frase ripetuta e
fatta sua dalla Mcdormand alla consegna dell'Oscar
come migliore attrice, meritatissimo per l'ulteriore
perfezionamento granitico della sua arte
recitativa). Fran nel viaggio diventa luce, pietra
(le sue rughe lo mostrano ), alba, notte, orizzonte.
E in questo film meraviglioso a cui non si può
resistere, l'orizzonte è sempre davanti, dando un
immenso senso di pace e serenità proprio di chi ha
capito che la vita è proiettata verso la morte. E
quindi va 'abitata' nei luoghi interiori ed
esteriori che conducono ad essa nella libertà e
nella consapevolezza spirituali. Luminoso e
rasserenante, ora più che mai dopo tanto buio. (Carlo Confalonieri)
VIVIANE
- Tra i film, tutti belli e interessanti, proposti
da Mio Cinema in una rassegna sul Nuovo Cinema
Israeliano, svetta uno dei miei film del cuore,
un'opera che al tempo (2014) amai moltissimo e che
resta indelebile nella mia memoria. VIVIANE racconta
un'aberrazione della legge israeliana, mostrando un
processo in cui una donna per cinque lunghi anni
(tra rinvii e ostacoli) cerca di ottenere il
divorzio dal marito, dopo averlo lasciato per
incomprensioni insanabili. Di fronte a un tribunale
religioso, scopriremo infatti che una donna finchè
il marito accetta il divorzio resta praticamente una
reietta di fronte alla società, non potendosi rifare
alcuna vita. La sua vita passata presente e futura è
quindi nelle mani del marito, che deciderà a suo
piacimento. Scandito dalle udienze ai limiti del
grottesco, spesso riprese frontalmente in
un'estetica che trasforma e muta l'aula di
tribunale, VIVIANE ha la potenza di una sorta di
moderna Via Crucis, riportando a tratti alla mente
la spoglia essenzialità de LA PASSIONE DI GIOVANNA
D'ARCO di Dreyer. Primi piani, piani medi a
macchina fissa, unità di luogo, eppure tutto ha una
mobilità inarrestabile e travolgente, senza un
attimo di calo. Potentissimo nella scrittura, nelle
scelte registiche e nell'interpretazione davvero
monumentale di un'attrice a mio avviso tra le più
brave del Cinema moderno: Ronit Elkabetz, che qui
firma la regia e la sceneggiatura insieme al
fratello Shlomi Elkabetz. Prematuramente
scomparsa da qualche anno, buca come poche lo
schermo con una chioma corvina e uno sguardo di
brace pieno di fierezza o di sensualità (come si può
vedere in un altro bel film della rassegna Mio
Cinema LA BANDA di Eran Korilin), VIVIANE è tutto
sulle sue spalle, una prova d'attrice grandiosa,
fatta di sfumature che diventa anche una gran prova
di donna. Ribadisco che il film è
assolutamente meraviglioso e merita la visione. (Carlo Confalonieri)
IMPREVISTI
DIGITALI - Spesso
l'osservazione della società in cui viviamo, al Cinema può
innescare straordinari effetti comici (spesso ma non sempre,
sono infatti eroicamente reduce da LOCKDOWN ALL'ITALIANA,
dove nonostante gli intenti comici di risate non ne ho fatta
una). Grandi capolavori come TEMPI MODERNI di Charlie
Chaplin o PLAYTIME di Jacques Tati scatenano perfetti tempi
comici dalla descrizione del progresso più o meno
tecnologico della società. Il duo registico francese Benoit
Delepine e Gustave Kervern, a una personalissima
orchestrazione quasi attonita dei tempi comici, ha sempre
associato un discorso sociopolitico molto accentuato. Ne
sono nati due memorabili capolavori di comicità:
LOUIS-MICHEL forse il film più spassoso che ricordi insieme
a HOLLYWOOD PARTY di Blake Edwards, dove l'operaia Yolande
Moreau, insieme a un Bouli Lanners assolutamente folle,
licenziati dalla fabbrica cercavano il padrone per ucciderlo
e MAMMUTH dove Depardieu con al seguito Isabelle Adjani
cercava di ricostruire i suoi contributi previdenziali in un
on the road picaresco. Nel nuovo IMPREVISTI DIGITALI (meglio
l' originale EFFACER L'HISTORIQUE - ovvero Cancellare il
resoconto storico) si prende di mira la nostra schiavitù
informatico/digitale a 360º, attraverso le vicende di tre
sfigati totali (tre grandi attori Blanche Gardin, Denis
Podalydes, Corinne Masiero) messi in ginocchio dai loro
smartphone, che li espongono a ricatti erotici, amour fou
per voci da call center, dipendenza dalle orride serie
concepite come mostri a mille teste per le piattaforme,
schiavitù dai like dei followers e da tutte le cazzate che
spuntano sul video del telefonino (pardon dell'Iphone numero
del cacchio). Il risultato è super o alla francese supe'r.
Momenti totalmente surreali indimenticabili (i dialoghi
della madre col figlio assente), gag attonite o mute che
parlano da sole, puro screwball comedy anni 30 ripreso
proprio come fece il maestro Peter Bogdanovich nel mitico MA
PAPÀ TI MANDA SOLA? con Barbra Streisand. La guerra a
Facebook e a tutti i marchingegni da cui siamo soffocati
(dimenticare una password può essere letale ahahah) dei tre
eroi ribelli, memori dei gilè gialli, cresce a vista
d'occhio con scansioni folli e perfette, silenzi e dialoghi
atomici portandoci spesso al soffocamento (non da Covid, non
ancora arrivato sulla scena, almeno quello) per il troppo
ridere. Si ride amaro anzi amarissimo con effetti
liberatori, quasi di inconscia protesta o presa di
coscienza. E ancora una volta la ribelle visione
sociopolitica punk trash di questo strepitoso duo
registico-autoriale coglie nel segno e asfalta tutto.
(Carlo Confalonieri)
LA
VITA STRAORDINARIA DI DAVID COPPERFIELD
- Ormai possiamo parlare di Iannucci's Touch. Dopo lo strepitoso
MORTO STALIN SE NE FA UN ALTRO il regista scozzese Armando
Iannucci conferma il suo stile assolutamente unico, alle prese
con la rivisitazione niente meno del DAVID COPPERFIELD
Dickensiano. Nulla a che fare con la trasposizione di George
Cukor del '35 bella rigorosa e romantica. Iannucci come fece di
MORTO STALIN un lugubre grottesco FUNERAL (nel senso di
veglia-resa dei conti come Abel Ferrara nel suo capolavoro)
rende Copperfield una festa trascinante, esplosiva, traboccante
vita ad ogni inquadratura. Ultra dinamico percorre le tante
pagine dickensiane d'un fiato, con ritmo travolgente, ottimismo
e felicità anche nei passaggi più tormentati. La ribellione, la
tenacia e l'ironia prevalgono sulla tristezza e la sofferenza,
che ci sono ma vengono trasfigurate. Come in STALIN le
cattiverie e le perfidie. Iannucci ha uno stile assolutamente
unico, ti travolge fino all'ultimo respiro e all'ultima battuta,
convincendoti sempre della profondità della superficie che stai
vedendo. In STALIN i baratri del male, in COPPERFIELD le
vertigini del bene. E di nuovo è una girandola attoriale
assolutamente straordinaria, orchestrata, inventata e
reinventata. Stavolta come in HAMILTON il mitico musical di
Manuel Miranda, gli attori sono multirazziali, rendendo coloured
anche ruoli solitamente affidati a bianchi. Per cui il sempre
incantevole indiano Dev Patel, bellissimo e ambrato, ha come zia
Betsy consanguinea folle ed eccentrica, la più grande favolosa
extraterrestre del Cinema di tutti i tempi Tilda Swinton, qui
elettrica ed elettrizzante. Agnes è Eliza Hittman giovane
attrice di colore di grande bellezza e temperamento. E così via…
Totalmente antibrexit e indifferente alla musealizzazione del
Cinema inglese, Iannucci ha audacia, piglio moderno e una ironia
indomita, che ha misura (a differenza dei Monthy Python e Terry
Gillian), classe e stile. Con trovate visive davvero
stupefacenti, con quei ricordi proiettati sulle pareti e quelle
parole che prendono forma. Ricordandoci sempre che la storia di
Copperfield è la storia di uno scrittore.
(Carlo Confalonieri)
THE SPECIALS-FUORI DAL COMUNE (Hors Normes)
- Una volta in un ospedale psichiatrico vidi una ragazzina con
un casco in testa amorevolmente condotta da una psichiatra. Non
lo dimenticai mai più. La stessa scena l’ho rivista nel nuovo
emozionante, umanissimo film della coppia dei re della commedia
francese Eric Toledano e Olivier Nakache. Anche qui il casco, a
protezione dei colpi auto-infertisi da un paziente adolescente,
affidato alla sempre interessante Catherine Mouchet
(indimenticabile in THERESE di Alain Cavalier) nel ruolo della
psichiatra. Chiamera' Bruno (Vincent Cassel assolutamente
magnifico) uno dei due educatori (l'altro è il sempre notevole
Rada Kateb) a capo de La Voix des Justes, centro di volontariato
che si prende in carico autistici e altri casi drammatici.
Quelli che tutti hanno rifiutato e non troverebbero dove andare.
Il motto di Bruno è 'si trova sempre una soluzione' oppure 'on
l'est pas loin'. Ottimismo puro. Quello che contraddistingue il
Cinema di Toledano-Nachake, che già affrontarono con piglio
sorridente l'handicap nel folgorante QUASI AMICI. Qui non si
ride, ma una visione positiva stempera il dramma in un
microcosmo estremamente vivace, mobile, propositivo, che non si
ferma di fronte a nulla. Il progetto viene da lontano, quando
nel 1994 Toledano e Nachake incontrarono un loro amico di
gioventù, Stephane Benhamou, creatore di un centro d'accoglienza
per bambini e adolescenti autistici, Le Silence des Justes. E
più tardi l'incontro con Daoud Tatou, direttore di Relais IDF
per il recupero e il reinserimento sociale dei giovani dei
quartieri difficili. A sostegno del loro lavoro, i due cineasti
realizzarono nel 2015 un documentario intitolato ON DEVRAIT ON
FAIRE UN FILM. Questa la genesi di HORS NORMES e ora il film si
è davvero fatto. Riuscitissimo nel dare equilibrio alle molte
componenti che vanno dal disagio, alla impotenza delle
istituzioni pubbliche che ci fanno una figura di merda proprio
come ora sta avvenendo in tutto il mondo per altre ragioni (da
noi vinceranno sicuramente il primo premio). La scena in cui
Cassell, messo alle strette dai due ispettori pubblici, si
arrende al loro assurdo fare le pulci, dicendo come sempre 'ho
la soluzione' dà i brividi fa ribollire il sangue. Perché la
soluzione è 'prendeteli voi', buttando davanti ai due funzionari
le foto dei casi strazianti e ignorati da tutti, in carico
all'associazione di volontari. Giovani di tutte le razze, tutti
attivi motivati volonterosi, accusati dai burocrati parassiti di
non avere titoli adeguati. Vomitevole burocrazia che guarda, non
fa nulla e manda a fondo chi non ha nulla e non ce la fa. Il
tocco di Toledano-Nachake però è ovunque e nelle svolte più
commoventi trasforma in sorriso le lacrime. Non in riso,
stavolta in sorriso, attraverso gli adorabili Joseph, Valentin,
Emilie, umanissimi nel loro disagio, che nel sottofinale diventa
una danza incantevole. Nel cast anche la grande Helene Vincent
che porta la sua collaudata esperienza al ruolo molto bello,
molto straziante della madre di Joseph, che vorrebbe proteggere
dopo la sua morte. E la Lyna Koudry giovane rivelazione di NON
CONOSCI PAPICHA. Tanti bei volti di uomini e donne, di ogni età,
razza. condizione mentale. Per comporre un affresco garbato
crudele e audace, pieno di quella fusione perfettamente riuscita
tra fiction e documentario in cui i francesi eccellono (si pensi
a GARE DU NORD di Claire Simon, POLISSE di Maiwenn, LES
MISERABILES di Lady Li). Un gran film per ora su piattaforma, ma
da rivedere assolutamente al Cinema, appena il
postdemocristianesimo culturale italiano - che chiude tutto e
con la candidatura all'Oscar di NOTTURNO ha ribadito il suo
‘volemose bene’ fuori tempo massimo - lo consentirà.
(Carlo Confalonieri)
ASSANDIRA - Fuori Concorso alla Mostra del Cinema di Venezia,
se fosse stato a Cannes avrebbe ben figurato nel ‘Certain
Regard’. Perche' la nuova opera di Salvatore Mereu, l'importante
autore sardo del magnifico BALLO A TRE PASSI e dell'incantevole
BELLAS MARIPOSAS, è davvero un film molto particolare e
inconsueto. Tratto dal romanzo di Giulio Angioni basa la sua
personalissima struttura filmica in un innesto della Tragedia
Greca e Shakespeariana, su un tessuto da cronaca giudiziaria
scandito a capitoli. Questo crea un insolito scavo da thriller
dell'anima in un contesto di grandi archetipi. La Sardegna è
quella dei miti atavici, segnata dalla fatica e dalla miseria,
col volto segnato dal monumentale Gavino Ledda, lo scrittore di
PADRE PADRONE che divenne capolavoro sullo schermo grazie ai
Fratelli Taviani, qui al suo debutto in tarda eta' come attore.
Assandira è la fattoria fra i monti dove ha sputato sangue per
una vita e da cui il figlio Mario se ne andò in Germania in
cerca di fortuna. Tornerà con Grete (Anna Konig, fantastica e
inquietante) che si rivelerà una Lady Macbeth, escogitando la
trasformazione di Assandira in un agriturismo per turisti
stranieri in cerca di un'immagine pittoresca e falsata della
Sardegna, già terreno di uno sfruttamento turistico insensato e
devastante. Mereu procede con una ricostruzione, scandita da
didascalie, del rogo che apre il film e distrugge tutto. Inizio
di potenza inaudita tra il fango e le ceneri con Costantino Saru
(Ledda) che vaga, lucido e impazzito insieme, in quella landa
come Re Lear. Arrivera' un magistrato a determinare le cause e i
fatti, ma sarà il labirintico noir in flashback a trasportarci
all'inferno. Per incontrare la vera natura assatanata di Grete,
assetata di potere a ogni livello passando dall'incesto alla
mortificazione delle tradizioni pur di raggiungere i suoi scopi.
Avere un figlio, avere un regno, avere tutto. Costantino cederà
per assecondare il figlio e la nuora, ma il suo sguardo chiuso
prevede la tragedia. Che scatterà di fronte alla scoperta del
più torbido dei segreti che ha infangato la sua Assandira. Con
un metraggio piuttosto lungo che ben evidenzia il tragico e la
sua ricostruzione, ASSANDIRA prende quota progressivamente.
Dalla documentazione dello sfruttamento e della ridicolizzazione
di una tradizione durissima, al degrado morale che investe
tutti. Sara' fuoco e fiamme come nell'antichità, come nei miti.
A lasciare anime morte, carcasse di animali e antichi guerrieri
sconfitti come nella più cupa delle tragedie. DA VEDERE !
(Carlo Confalonieri)
UNDINE-UN AMORE PER SEMPRE
- L'amore e il tempo. L'amore
per ora (possibile) l'amore eterno (impossibile) questo il limite
dell'amore umano. Ma non per i miti. Quello di Undine o Ondine che
dal racconto di Friedrich De la Motte Fouquè passa dai Fratelli
Grimm, arriva al teatro di Jean Giraudoux e alle pagine di Ingeborg
Bachmann è quello della naiade che tradita uccide. Un mito, un
desiderio di perfezione assoluta che arriva dall'inconscio e quindi
dall'acqua, in contrapposizione con la realtà. Nella Berlino di oggi
Undine è una storica che lavora al Museo Marche, dove illustra ai
visitatori i plastici dell'evoluzione architettonica della città
nata su una palude. L'acqua sotto la città stratificata nella sua
storia, l'inconscio sotto la psiche umana rappresentato dall'acqua.
Tutto torna lì. Undine, la splendida Paula Beer premiata alla
Berlinale per la miglior interpretazione femminile, dice a Joahannes
che la sta lasciando: dovrò ucciderti. Poi incontra Christoph -l'intenso
Franz Rogowski che con quegli occhi si conferma il miglior attore
del Cinema contemporaneo tedesco- un sommozzatore industriale. Un
acquario in un bar si romperà e li inondera' con le sue acque,
trascinando Undine verso la sua natura acquatica di cui Christoph fa
parte. L'acqua però per Undine è un segno, un ritorno, un percorso
irreale che trascinerà se stessa, il suo amore passato e il suo
amore presente in una spirale di conoscenza. La conoscenza di sé,
attraverso il profondo dell'anima. Come accadeva -e qui il Cinema si
riconosce e si innalza- in VERTIGO di Hitchcock dove lo sdoppiamento
conduceva di fronte a uno specchio oscuro. Christian Petzold, oggi
il più grande autore vivente del Cinema Tedesco, ritrova le acque
dei suoi magnifici LA SCELTA DI BARBARA e LA DONNA DELLO SCRITTORE
(già proiettato verso un'astrazione stilistica che in UNDINE si fa
perfetta) nonché il tema del doppio, del sublime IL SEGRETO DEL SUO
VOLTO. Li convoglia nel mito attraverso una città (Berlino) e una
donna, sdoppiate e raggiunge la bellezza emozionante
dell'impossibile e dell'irrappresentabile in termini razionali.
Filma scene subacquee di una tale visionarietà coreografica da far
pensare a L'ATALANTE di Jean Vigo -altro punto cardine
cinematografico sull'amore eterno e/o immanente- e raggiunge vette
simboliche con una rappresentazione cinematografica controllatissima
e misurata, propria di quel grande Cinema che attraverso le immagini
ci porta nel sogno.
(Carlo Confalonieri)
UN DIVANO A TUNISI
- Che a parlare di inconscio collettivo sia un film tunisino può
stupire. Ma se a dirigerlo è una regista franco-tunisina a cavallo
fra Oriente e Occidente allora si capisce il perché. Manele Labidi
fonde infatti due culture, quella araba e quella europea, proprio
come il personaggio di Selma e sicuramente cuce su di lei i propri
dubbi e le proprie cusiosità. Selma, psicanalista a Parigi, torna
nella sua Tunisi con l'intento di esercitare lì la sua professione.
Non a caso le note della meravigliosa LA CITTÀ VUOTA di Mina la
accompagnano. Tornare a Tunisi dopo la rivoluzione e all'inizio
della Primavera Araba è come metter piede su un terreno vergine, una
tabula rasa, una città vuota. Il colore e il folklore della città
accolgono Selma nel bene e nel male, tra ironiche pennellate di
colore sociale e affondi più drammatici nel clima poliziesco della
città. Ovvio che una psicanalista appare in un primo momento fuori
posto, lontana dal tessuto culturale del Paese. Ma la psiche umana è
un po' simile a ogni latitudine e la voglia di conoscersi si impone
anche fra un bizzarro campionario umano, prima abituato solo a
confidarsi dalla parrucchiera o nell’Hamam. Talora si pensa al
fenomenale CARAMEL di Nadine Labaki e nel confronto appare una
differenza sostanziale. L'astrazione rappresentata da Selma e dal
suo ruolo, che rendono spesso surreale il racconto dietro a un
tessuto grottesco. La conferma arriva da una scena assolutamente
magica che fa improvvisamente svettare il film verso mete molto
complesse. Quelle dell'andare oltre e del resistere con la propria
forza interiore portata a galla da un lavoro su di sé. L'apparizione
di Freud è non solo una grande trovata e una pagina di Cinema
memorabile, è anche il senso ultimo di un film molto profondo dietro
la sua aria talora scanzonata. Freud (potrebbe essere anche Jung o
chiunque abbia scoperto l'inconscio e scavato in esso) è anima e
confronto, è il vento della psiche che va ben oltre le rivoluzioni e
le dittature. E' il vento della vera libertà, quella psicologica.
Qui è la zampata di una regista che di colpo con una scena ribalta
il suo film, lo spiega e lo porta in alto. Nella vera bellezza,
nella vera profondità, incarnate dalla bellissima e profondamente
espressiva Golsfhiteh Farahani che da Jarmush (PATTERSON) a Garrel
(DUE AMICI) a Asghar Farhadi (ABOUT ELLY), sceglie e interpreta
stupendamente ruoli interessanti, rendendoli indimenticabili. Come
anche stavolta.
(Carlo Confalonieri)
THE ELEPHANT MAN - Ma sono davvero passati più di 40 anni da quando vidi per la prima
volta THE ELEPHANT MAN alla sua uscita nel 1980? Indubbiamente si.
Mi sembra ieri, soprattutto perché ricordo quanto piansi al termine
del film. Un ricordo nitido come se sentissi ancora le lacrime sul
volto e in gola che non si fermavano più. Mi era accaduto solo
un'altra volta da bambino PER UMBERTO D di Vittorio De Sica. Di
solito controllo bene le emozioni al Cinema eppure di fronte al
finale cosmico, che incornicia con un incipit altrettanto surreale
la vicenda di John Merrick - esposto come fenomeno da baraccone
nell'Inghilterra Vittoriana per una malformazione della testa - non
ce la feci. A distanza di tanto tempo so ancora bene il perché. Non
fu pietismo, nè senso di colpa per chi vive la sua disgrazia con una
dignità che tu non conosci (abituato a volte a lamentarti di chissà
quali sciocchezze). Fu ed è la rappresentazione di un Amore
Universale, attraverso la forma più inadatta a rappresentarlo:
l'orrore. L'orrore che rimuoviamo, come apice del lato oscuro dentro
e fuori di noi. Nella cui messinscena David Lynch - che diventera'
uno dei più grandi Maestri del Cinema e fino ad allora autore solo
di uno sperimentale manifesto surrealista con ERASERHEAD (1977) - lo
fonde al suo esatto opposto e al suo provvidenziale antidoto:
l'Amore. THE ELEPHANT MAN, che nella filmografia di Lynch è
considerato a torto il suo film più classico, in realtà è la sua
opera più audace proprio per la combinazione rarissima di queste due
componenti. Accade in altri capolavori: nel finale di ROSEMARY'S
BABY di Roman Polanski con Mia Farrow che guarda la culla del figlio
di Satana col più grande Amore materno, ma soprattutto nel
capolavoro dei capolavori SUSSURRI E GRIDA di Ingmar Bergman dove
solo l'Amorosa Pietà forza il confine fra vita e morte, un terreno
dove nessuno vuole entrare nè nulla può accadere senza quelle armi.
Lynch compie il rarissimo miracolo cinematografico di assemblare per
tutto il film, praticamente in ogni sua inquadratura, queste
componenti. Amore e Orrore, addirittura scambiandole e trasferendole
da un personaggio all'altro. Tanti angeli attraversano il film: il
Dr.Treves di Anthony Hopkins, la Mrs.Kendall di Anne Bancroft
entrambi superlativi. Ci prendono per mano con la loro dolcezza e ci
mostrano che l'orrore di John Merrick (John Hurt gigantesco), l'Uomo
Elefante, può creare vita bellezza arte e grazia se ne entriamo in
contatto e lo sappiamo guardare. Forse la cosa più difficile, ma più
vicina al mistero della Vita e della Morte, l'una lo specchio
dell'altra. Per questo Lynch pare abbandonare gli sperimentalismi,
affidandosi alla fotografia magnifica in Bianco e Nero, di Freddie
Francis. Ma anche qui non è cosi perché, in quei contrasti
pittorici, vi è tutto il gotico del Francis direttore della
fotografia di quel capolavoro del mistery che e' SUSPENSE (1961) di
Jack Clayton tratto da IL GIRO DI VITE di Henry James. Dove ci si
affaccia sul baratro dell'orrore, trasformando i fantasmi in esseri
umani. Lo stesso accade in THE ELEPHANT MAN dove un 'mostro' si fa
Uomo e ci insegna a esserlo. Sulla terra e fra le stelle. Sublime.
(Carlo Confalonieri)
LA VITA
NASCOSTA (HIDDEN LIFE) - Ritrovare un regista immenso in
un film immenso mi ha commosso.Terrence Malick il Grande. Un'idea di
Cinema via via sempre più gigantesca, filosofica, ardita che
proiettata all'essenziale (il senso della vita, la trascendenza, il
sacro come esperienza umana) lo visualizza come un percorso
sensoriale, che parte dall'interno e si proietta sull'esterno in
modo meditativo, metafisico, rendendo l'immagine di una potenza
inaudita. Lo fece Dreyer, lo fece Bergman, lo fa Malick e come loro
fa del suo Cinema Preghiera. La via qui come nelle sue opere cardine
(a mio avviso) 'I GIORNI DEL CIELO', 'THE TREE OF LIFE', 'TO THE
WONDER' è un'intensificazione del vivere attraverso un ascolto
interiore. Quindi le voci sono ormai quasi del tutto voice-off in
forma di pensieri e le immagini percezioni di un processo di
proiezione dell'inconscio. La vicenda di Franz Jagerstatter
contadino del tranquillo villaggio austriaco fra le montagne di St
Radegund, arruolato dal Fuhrer (nato non molto lontano a Branau)
dopo la germanizzazione dell'Austria, che si rifiuterà fino alla
decapitazione di giurare fedeltà a Hitler è la rappresentazione del
Grande Bene che si oppone al Grande Male. In modo irrazionale,
persino contro l'istinto di sopravvivenza (se smetti di voler
sopravvivere tutto cambia persino il tempo, il tuo tempo muta). Il
Grande Bene sono la terra, le montagne, gli affetti (l'amore eterno
per la moglie Fanni sul cui epistolario si basa questa vicenda vera,
che porto' anche alla canonizzazione di Franz, ma questo a Malick
non interessa perché Santo nella sua visione alta lo è anche senza
l'intervento della Chiesa). Il Grande Bene è quello inattaccabile,
come le montagne dalla bellezza impressionante, lo sguardo mite
degli animali, i tesori della Natura e dell'Amore. Malick amplifica
con l'uso di un grandangolo spinto, con l'avanzare incessante della
macchina da presa verso un dove che percepiamo oltre il visibile,
con uno sguardo perennemente ascensionale anche nelle riprese nelle
prigioni e nei tribunali nazisti (dove un Bruno Ganz monumentale
recitando anche con le mani diventa Ponzio Pilato). In una Chiesa un
pittore dipinge Cristo dicendo che lo fa per coloro che ora lo
venerano , mentre a quel tempo forse lo avrebbero condannato e che
il Cristo che vorrebbe dipingere è un altro. Il dilemma è proprio
lì, capire, vedere nella vita immanente che ci è data, senza
aspettare un altro mondo, un altro tempo, un'altra Storia. Per
questo Malick non storicizza questa pagina del Nazismo, ma
collegandosi a un verso della poetessa inglese George Eliot svela ed
illumina UNA VITA NASCOSTA, perché quella come altre ignote hanno
contribuito a migliorare il mondo. E lo fa - nel corso di 173 minuti
che volano e restano - in tre tempi. In quello di un Canto della
Natura, in cui gli esseri viventi sono calati dando voce e sguardo
anche alle pietre, ai ruscelli, al cielo fra le montagne. Uno shock
visivo fin dal fotogramma di apertura dopo le immagini di repertorio
della mostruosa innaturale avanzata del Grande Male, di Hitler, del
Terzo Reich (immagini di repertorio che torneranno fortissime per il
sogno premonitore del treno che attira i bambini e che è quello che
va ad Auschwitz). Poi il martirio, per quel diniego a giurare
fedeltà a Hitler che agli occhi degli altri (del villaggio piegato
al Fuhrer che metterà al bando tutta la famiglia di Franz, persino
della Chiesa sottomessa) è solo superbia, arroganza, pura follia. La
stessa di Cristo e ritorna la voce del pittore, mentre la clausura
delle immagini sempre illuminate da una spinta all'oltre, richiama
LA PASSIONE DI GIOVANNA D'ARCO di Dreyer. E poi è il Requiem, la
messa il canto per un defunto (sentiremo il Bach de LA PASSIONE DI
SAN MATTEO) che non morirà, perché lo sguardo si alza ancora tra le
montagne in cerca di quegli Angeli che sovrastano, nella lunetta,
quel capolavoro di Giovanni Segantini che è IL DOLORE CONFORTATO
DALLA FEDE. Dove in un cimitero di montagna due genitori piangono
sulla tomba del figlio. FILM TOP 2020. (Carlo Confalonieri)
LE SORELLE
MACALUSO - Federico Fellini ne LA VOCE DELLA LUNA dice
che deve esserci un buco che unisce i vivi e i morti. Il nuovo
meraviglioso film di Emma Dante inizia con due bimbe che fanno un
buco nel muro. Quel buco restera' per sempre in quel palazzo
decadente della periferia di Palermo, dove vivono le cinque sorelle
Macaluso, Katia, Maria, Pinuccia, Antoenella, Lia. La comunicazione
fra la vita e la morte attraversa la drammaturgia teatrale della
grande regista e autrice palermitana. In particolare - oltre allo
splendido spettacolo a cui il film di ispira (ma si tratta di
ispirazione perché il film è ben altro) - in uno dei suoi testi e
delle sue regie teatrali, parecchi anni fa cambiò la mia vita di
spettatore: VITA MIA. In esso si narra di tenere in vita le persone
care (là una madre nei confronti dei figli, uno dei quali, ma non
sappiamo chi, dopo la notte dovrà morire) attraverso l'amore. Nel
film di oggi ho ritrovato quella sensazione essenziale astratta
incombente illuminante come allora. Tutti moriremo come le sorelle
Macaluso che negli anni se ne vanno una alla volta, ma l'amore
reciproco che è condivisione e talora anche rabbia le tiene in vita
l'un l'altra. Moriranno si, resteranno per sempre fra loro e in
quella casa. Una vestita da ballerina come il suo sogno giovanile
infranto, una a farsi mettere il rossetto dalla sorella maggiore
facendo - lei rimasta bimba per sempre - una boccuccia che a vederla
da' i brividi (i piccoli gesti dei nostri morti come li ricordiamo),
una a prepararsi per il proprio funerale rimestando nelle stanze
cechoviane dei giochi d'infanzia e ritrovandosi poi in una bara
affacciata sul cielo come in una veduta cinematografica
Tarkovskijana. E allora in questo film nato dal teatro e così pieno
di Cinema e Letteratura da far esplodere occhi e cuore, potremmo non
essere più a Palermo ma nella Russia dei Karamazov, nella Napoli
della Ortese, nella Rimini di Amarcord con il monumentale Charleston
palermitano affacciato frontalmente nell'inquadratura come il Grand
Hotel Felliniano, nel salotto della Hollywood al tramonto e sporca
di CHE FINE HA FATTO BABY JANE? dove due sorelle si fanno a pezzi
accusandosi di un tragedia che le riguarda da bambine, o nella dacia
delle TRE SORELLE di Cechov. Ma tutto è unificato da quello stile
personalissimo, grandioso, passionale e furioso di quella che è la
più grande drammaturga e regista teatrale vivente. Colei che un
giorno si studierà a scuola come ora si fa con Pirandello. Colei che
guarda al Tadeus Kantor de LA CLASSE MORTA e ci porta per mano in un
aldilà presente. Qui cinematograficamente scatenata con incursioni
elettrizzanti nel musical, facendoci vedere da quel buco i ricordi,
le meraviglie, le fantasie come fece anche Tsai Ming Liang nel suo
fantasmagorico THE HOLE. Dalla miseria, dalla mancanza, dalla
sofferenza, nascono infatti meraviglie, incanti, prendono il volo le
colombe, nascono amori (la scena nell'Arena Sirenetta delle due
fanciulle che si baciano coreografandosi è un altissimo momento di
Cinema), si riavvolge il tempo come nello stupefacente BALLARINI che
componeva in parte LA TRILOGIA DEGLI OCCHIALI. E la cinepresa
trasformata in strumento di una rabdomante dell'anima, estrae da
ogni attimo di quest'opera cruciale, modernissima e antica sulla
visionarietà dell'esistere che ne dà senso e sopportazione, una
linfa vitale che si dipana miracolosa sulla morte trasfigurandola in
una bellezza terrena e celestiale, cupa e luminosa. In concorso alla
Mostra del Cinema di Venezia. Se non sarà Leone scendero' in piazza.
(Carlo Confalonieri)
STAY
STILL
-
Pare la versione pop di PERSONA di Bergman. Spostato dall'isola di
Faro a un ospedale psichiatrico, che astrae quello di QUALCUNO VOLO'
SUL NIDO DEL CUCULO col sarcasmo dei film al vetriolo di Todd
Solondz, il rapporto fra una paziente eccentrica e la sua infermiera
ha molti punti in comune con quello fra Liv Ullman e Bibi Andersson.
Julie ricca ereditiera piena di fascino manipolatore si chiude
nell'inazione per rifiuto dei meccanismi sociali (porta sempre
guanti di gomma gialli come per non farsi contaminare). Ciò non le
impedisce ogni tanto di dar fuoco a qualcosa per cui entra ed esce
da una clinica psichiatrica. Lì le viene assegnata Agnes giovane
infermiera, che nella vita ha invece fatto quanto c'era da fare
(famiglia e lavoro). Entrambe un rapporto irrisolto col materno. La
madre di Julie si uccise quando lei era una bambina, la figlia di
Agnes di 3 anni non parla alla madre praticamente la rifiuta.
Scattano identificazione, transfert malato, manipolazioni,
ribellioni, attrazione sessuale. D'altronde proprio lo SCHERMO
VELATO, il bellissimo saggio di Vito Russo sul Cinema Omosessuale
definisce PERSONA un rapporto lesbico al rallentatore. I ritmi, i
tempi, i suoni, i colori della regista tedesca Elisa Mishto sono
diversissimi da quelli onirici di Bergman. Il taglio è assolutamente
pop, esposto, a tratti grottesco con incursioni felliniane, per un
modo eccentrico di guardare alla malattia mentale. Che Mishto ha
comunque approfondito attraverso la frequentazione di vari istituti
psichiatrici anche italiani per la lavorazione di un suo
documentario sul tema, quasi una premessa al film. E si sente, nel
disincanto con cui si osserva talora l'inutilità dei trattamenti psy
rispetto alla funzione di contenimento temporaneo, che tale deve
restare per il minor tempo possibile. Le due attrici, la russa
Natalia Belitzki, una Julie un pò Charlotte Gainsbourg in
NINPHOMANIAC di Lars Von Trier e la tedesca Luisa Celine Gaffron
post Schygulla, sono efficacissime e brave. Stabilendo un corto
circuito femminile, che le sonorità elettroniche di dj Apparat (già
collaboratore di Martone per lo splendido CAPRI REVOLUTION) insieme
alla bellissima fotografia postcolorata e popcolorata di Francesco
di Giacomo (figlio del grandissimo Franco compianto direttore della
fotografia per Taviani, Bellocchio, Moretti, Argento, Scola ecc.)
portano su un piano di pura astrazione. (Carlo Confalonieri)
MATTHIAS
E MAXIME - In TOM A LA FERME incombe uno
sfregio sul volto come vendetta omofobica. In MATTHIAS E MAXIME, il
nuovo film di Xavier Dolan, sul viso di Maxime c'è una grossa voglia
viola che pare una lacrima. E' l'opposto, un segno di diversità e
d'amore espresso. Nei due film, opposti, uno negativo uno positivo,
entrambi STUPENDI, Xavier oltre che autore è anche attore. Come TOM
era vittima quasi consenziente in un ingranaggio hitchockiano,come
MAXIME è invece uno degli artefici di una poesia amorosa che nasce
da bambini e si sviluppa da adulti. L'altro e MATTHIAS (Gabriel D'Almeida
che 'si perdera' nuotando e si sa l'acqua è simbolo dell inconscio)
amici d'infanzia capiranno d'amarsi. Ma come? Qui viene il tocco
magistrale dell'enfant prodige canadese, che fa confluire i tasselli
delle due vite, partire insieme poi diventate diversissime fra loro
nel fiume magico del destino. Max è povero ha una madre alcolizzata
a cui badare (la strepitosa Anne Dorval di MOMMY) decide di
andarsene da Montreal per due anni per fare il barista in Australia.
E' molto solo,lo guarda qualche ragazzo ma non accade nulla.
Matthias è ricco, avvocato figlio d'avvocato, con una professione
davanti e una fidanzata vicino. La magia si chiama Rivette come
Jacques Rivette il grande regista della Nouvelle Vague maestro nel
portare la fantasia nella realtà. Erika Rivette, amica dei due e
snob aspirante regista,li coinvolge in un corto in cui devono
baciarsi sulla bocca. Il bacio che vediamo si e no è pressoché a
inizio film. Non vedremo altro di apparentemente sentimentale tra i
due fin quasi alla fine. Tutto sarà non detto,ellittico,inteso o
sottinteso. Tante tracce disseminate spostamenti sguardi vibrazioni
battiti gelosie emozioni. L'esatto opposto dell'esposizione
televisiva tagliata col macete dei personaggi gay degli orrendi film
gay di Ozpetek. Dolan non fa film gay, parla di personaggi
psicologici ancor prima che omo/sessuali. Stavolta travolge da cima
a fondo con i frammenti di un discorso amoroso che vanno a formare
un tema esistenziale, forse il tema clou dell'esistenza quello
dell'identità psicologica Tout Court, quindi anche sessuale. E i
tanti splendidi centratissimi primi piani pieni di gioventù e
vitalità finiscono per allargarsi (un po' come in MOMMY) su un
quadro d'insieme assolutamente magistrale durante la scena del
temporale. Con i ragazzi che corrono a togliere i panni stesi,
mentre Max e Matthias si baciano stavolta per davvero. Un momento di
Cinema sublime di un'intensità quasi insostenibile. Si corre ai
ripari, ma la forza della natura dei sentimenti delle emozioni
prevale. Analoghe sensazioni le diedero la corsa in auto di
Trintignant in UN UOMO UNA DONNA di Lelouch o quella a piedi di
Woody Allen in MANHATTAN. Là erano maschi e femmine, qui due maschi.
Non cambia nulla. L'amore la vita il desiderio di cominciare sono
gli stessi. Travolgenti. Film meraviglioso fatto pensato girato
evidentemente (la fotografia strepitosa di Andre Turpin, il
montaggio folgorante dello stesso Dolan, la dimensione pazzesca
delle inquadrature e dei punti di vista).
(CARLO
CONFALONIERI)
LE
EREDITIERE -
Da IL
LUOGO SENZA CONFINI di Arturo Ripstein a IL BACIO DELLA DONNA RAGNO
da TI GUARDO di Lorenzo Vigas a UNA DONNA FANTASTICA di Sebastian
Lelio nel cinema latinoamericano, il tema dell'omosessualità spesso
è diventato metafora della condizione di un paese. Un argomento
sotterraneo in quei luoghi, specchio di un disagio sociale e
politico. Il notevole debutto del paraguayano Marcelo Martinessi,
scelto come rappresentante all’Oscar per il miglior film straniero,
segue questa via. Il ritratto di Chela e Chiquita due signorine agè
di buona famiglia che convivono da trent'anni nella bella casa ormai
usurata (come il loro rapporto) ereditata dalla prima, mascherando
ma solo fino a un certo punto la loro relazione,fotografa in
filigrana la stanchezza di una nazione logorata dalle dittature e
ancor di più da una trasformazione del tessuto economico e sociale.
'Quelle due' a differenza del film di William Wyler tratto da
Lillian Hellman sono infatti accettate, pur frequentando un giro di
lesbiche locali, dalle signore della borghesia mogli o vedove di
professionisti e latifondisti. Alle quali, Chela - dopo che la più
intraprendente Chiquita va in carcere per truffa per salvare la
loro disastrosa situazione economica (la villa si spopola di quadri
e argenteria ma resta la domestica come facciata di un passato
benessere) - finisce un po' per caso un po' per bisogno a far da
taxista sulla vecchia Mercedes ritornata a guidare senza patente.
Inizia così un tardivo risveglio, sottratta agli psicofarmaci
somministratale da Chiquita, al letargo domestico e alla dipendenza
dalla compagna. Per le strade di Asuncion la donna ritrova
faticosamente se stessa, la voglia di vivere e persino il desiderio
nei confronti nella più giovane e disinibita Angy (Ana Ivanova quasi
una sosia dell’indimenticabile splendida Florinda Bolkan). Un paese
metaforizzato attraverso una storia privatissima, che sarebbe
piaciuta al Fassbinder di VERONIKA VOSS, ma che Martinessi allontana
dal melodramma. Prevalentemente in interni chiaroscurati, più di
sguardi che di parole, affidati alla straordinaria Ana Brun premiata
alla Berlinale come migliore attrice. (Carlo Confalonieri)
GIRL
- Ancora
come nel miracoloso film di Ildiko Enyedi che ha aperto un 2018,
cinematograficamente stupefacente. La componente psicologica e
quella fisica assolutamente compenetrate alla ricerca di un
equilibrio, come base per l'esistenza. E la loro disarmonia, causa
di immani fatiche e sofferenze. Si parte in adolescenza dove il
corpo muta e può prendere direzioni che la mente non contempla. Né
tanto meno le regole comportamentali indotte. Il maschile e il
femminile entrambi dentro di sé, devono essere l'uno o l'altro fuori
di sé. E se non c’è coincidenza è una battaglia contro se stessi. La
dittatura del corpo (pene o vagina)che predispone a dare o ricevere.
Ma non è così. Lo sa bene Victor che a 15 anni si prepara a
diventare Lara con una transizione sessuale e ormonale fortemente
voluta per trovare un'immagine nitida della propria identità (tanti
specchi nemici attorno, persino l’ultimo nel sottofinale drammatico
tenta di sdoppiarne l’immagine). La psiche di Lara sa bene chi è e
non solo. Non solo la rincorsa di un'immagine femminile senza pene
(scotchato fra le gambe in attesa di essere tolto), con un seno che
non spunta nonostante gli ormoni e bellissimi lineamenti e capelli
muliebri. Ma una sua precisa collocazione come Etoile di danza
classica, la più ardua delle discipline imposte al corpo femminile
per esaltarlo in tutta la sua grazia ed armonia. Victor disposto al
martirio per essere Lara e danzare. Nell impaziente attesa
dell’amputazione di quel pene subìto, i piedi troppo lunghi nelle
scarpette a punta subiscono le stimmate del sacrificio estremo per
essere donna ed esserlo al massimo (le unghie massacrate il sangue
fra le dita un dolore allucinante coperto dal sorriso per il
desiderio di essere se stessa). Non gli artifici del culturismo per
essere più macho o del botox per essere più giovane. Solo la
costruzione del sé: corpo e anima. Il film meraviglioso è opera
prima del giovane fiammingo Lukas Dhont, che incolla in ogni
fotogramma la cinepresa mobile su Lara. Danza soffre combatte.
L'impazienza dell’adolescenza di trovare se stessi (credi che sia
nato subito uomo le dice il padre amorevole comprensivo suo compagno
di battaglia). Lo scarto mente corpo che diventa sempre più forte,
l’una supera l’altro che diventa drammaticamente inaccettabile. Una
grandissima opera gender, uno dei 3 più grandi film sull’identità
psicosessuale (insieme a UN ANNO CON 13 LUNE di Fassbinder e
LAURENCE ANYWAYS di Xavier Dolan). Una sfida vinta in una narrazione
che esclude quasi del tutto il mondo esterno e punta su un match con
se stessi. Vinto da un grande occhio cinematografico e
dall’interpretazione magica totalmente convincente del giovane
Victor Polster, dolce sfingeo marziale. La Camera d’Or, il premio al
suo attore prodigioso e il premio Fipresci conferti a Cannes credo
siano solo l’inizio trionfale della carriera di un film importante
assolutamente privo di ambiguità, destinato a scolpire una nuova
pagina ferma sulla ricerca dell’identità. (Carlo Confalonieri)
DOPO
IL MATRIMONIO
- Da domani 30 Maggio in Prima assoluta in
streaming per l'Italia - Nel 2006 la grande regista e autrice danese
Susanne Bier girò un film che mi travolse DOPO IL MATRIMONIO.
La sua potenza e originalità erano nella perfetta fusione degli
stilemi del melo, con le regole estetiche del Dogma di Lars Von
Trier che vi partecipò con la sua Zoetropa. Gli attori erano tre
assi meravigliosi del Cinema Scandinavo: Mads Mikkelsen consacrato
con la Palma d'oro a Cannes per
IL SOSPETTO di Thomas Vinterberg; Sidse Babett Knudsen
bellissima e intensa poi approdata al Cinema d'Oltralpe con 150
MILLIGRAMMI della Bercot e LA CORTE con Luchini; Rolf
Lassgard grande svedese indimenticabile in MR. OVE. Questo
per dire che il remake Usa che ne ha fatto ora Bart Freundlich ha
dovuto vedersela con un pezzo da Novanta, sia filmico sia
interpretativo. L'idea molto bella è stata di ribaltare i due ruoli
maschili in femminili affidandoli alla moglie di Freundlich,
Julianne Moore e a Michelle Williams, splendide. Affiancate da Billy
Crudup come sempre super nel ruolo che era della Kundsen: amante nel
passato della Williams, coniuge nel presentre della Moore. Il gioco
complesso di agnizioni, volontà testamentarie, passaggi del
testimone affettivo assume cosi una connotazione tutta femminile,
rendendo il film più lieve arioso seppur metropolitano e
newyorchese. Rispetto al film della Bier, assolutamente magnifico e
tragico, più giocato sulla scacchiera del femminile che da un
iniziale possibile EVA CONTRO EVA, si trasforma a vista in
una sorta di commedia morale alla Paul Mazursky. Scegliendo toni
introspettivi pur calati nell'analisi di un milieu mondano più
accentuato. All'ombra più di un modello insuperabile come RICCHE
E FAMOSE di George Cukor, che degli evidenti richiami
bergmaniani della Bier. Quindi un film da vedere e magari
confrontare col suo prototipo, per studiare i diversi linguaggi con
cui può essere raccontata una stessa storia. Assolutamente da non
raccontare a parole, per non togliere le sorprese continue, previste
da un plot persino più intrigante di un thriller. (Carlo Confalonieri)
LES
MISERABLES - L'ariosa sequenza d'apertura, girata davanti
all'Arco Trionfo durante i festeggiamenti per la Coppa del Mondo
2018, mostra un popolo unito sotto le bandiere tricolori francesi.
Dura poco. Con uno scarto improvviso Ladj Ly ci catapulta nel
quartiere di Montfermeil oggi ,dove è cresciuto e girò un
cortometraggio che porta lo stesso titolo del romanzo di Victor Hugo,
non a caso proprio come questo suo primo lungometraggio che ne è lo
sviluppo e che l'anno scorso vinse al Festival di Cannes un
meritatissimo Premio della Giuria. Dai Miserabili ai Nuovi
Miserabili. Dall' illusoria libertè egalitè fraternitè, alla più
totale frammentazione della cittadina inferno-prigione, polverizzata
in clan, sette religiose, racket, polveriere islamiche, giri di
spaccio, prostituzione e compravendita di ogni refurtiva. Ci
introduce nei suoi gironi una squadra di polizia che la carismatica
Jeanne Balibar ha messo in piedi al commissariato. Tre agenti
psicologicamente diversi e complementari: Chris (Alexis Manenti)
detentore di ogni sopruso, Gwuada (Djebril Zonga) nero atletico
scattante e Stephane (Damien Bonnard) eclettico astro nascente del
Cinema d'Oltralpe), il nuovo arrivato introverso, trasferito per
star vicino al figlio, ignaro dell'incubo in cui verrà precipitato.
Il film parte classico come un ottimo polar nella prima parte. Via
via se ne discosta, prendendo un duplice andamento anomalo che
diventa la sua forza. Da un lato riuscendo perfettamente in quella
fusione documentaristica e di finzione che lo aggancia a una visione
potentissima del reale (cosa che sfuggì di mano a Mathieu Kassovitz
nel pur interessante L'ODIO). Dall'altro percorrendo la traccia di
quel meraviglioso film di Bertrand Tavernier che è L.627. Mostrando
cioè l'impossibilità di applicare una legge scritta in una realtà
che la travalica. Il film di Ladj Ly nella sua furia visiva procede
infatti per sfumature, arrivando in una terra di nessuno dove bene e
male non sono più distinguibili, concentrandosi su un elemento umano
in formazione fatto di bambini preadolescenti senza un'identità
etica ben precisa. Saranno loro l'obiettivo su cui dovrà
concentrarsi la squadra di polizia ,in un gioco al massacro
estenuante continuamente ribaltato,filmato (l'idea geniale del drone)
ricattato e ricattabile. Fino a uno spostamento identitario dei
ruoli guardia-ladro, scivoloso sotto l'aspetto etico e umano.
Splendido esempio di Cinema 'en plein air' con la macchina a mano
elettrizzante di Julien Poupard, che a parte i pochi interni in auto
nel Kebab e nel Commissariato, vola tra i vicoli, le strade e i
palazzoni tutti uguali come fosse anch'essa un drone. Il risultato
toglie il fiato, scava nella coscienza, scortica la visione. (Carlo Confalonieri)
ROSETTA (Palma d'Oro 1999 Festival di
Cannes)
- L'indomabile macchina da presa a mano di
Jean-Pierre e Luc Dardenne, freneticamente all'inizio inseguimento
di Rosetta nella sua via crucis di miseria e disoccupazione, è come
una lama. O meglio un bisturi, che nello squallido paesaggio di una
cittadina industriale (e più simbolicamente nel panorama della
civiltà industriale del profitto) isola il cancro della disumanità.
Non direttamente quella che causa sofferenza altrui, ma quella
generata dal dolore provocato dall'indifferenza, dal materialismo e
dalle spietate regole dell'interesse. Anche se la catena non
s'interrompe e chi soffre fino a disumanizzarsi farà a sua volta
patire qualcun’altro. Come accade alla giovane Rosetta, presa a
calci dalla vita, emarginata, con la madre alcolizzata in una
roulotte dell'hinterland di Liegi, continuamente licenziata causa i
contratti a termine e la lotta da giungla per avere un posto di
lavoro. Sempre vicina al baratro della catastrofe, da cui rifugge
con la furiosa volontà di integrarsi in una società che non la
vuole. Al punto limite - raramente rappresentato con altrettanta
brutalità da un'opera d'arte (da NEL FONDO di Massimo Gorkji in
avanti) sul mondo dei miserabili, - di vendere anche i sentimenti
propri e altrui per un pezzo di pane. Che è quanto avviene nei
confronti del suo unico amico, prima quasi lasciato morire e poi
tradito pur di rubargli il lavoro (da notare che il 'tradimento'
costituiva uno degli snodi anche de LA PROMESSE, precedente film dei
Dardenne). Con stile neorealista e controcorrente, i due registi
belgi piegano il loro passato di documentaristi a una fiction che
non sembra assolutamente tale. Sia per una ragione oggettiva, grazie
a una scelta espressiva estrema e rigorosa che concentra quasi
costantemente l'obiettivo su Rosetta e in particolare sul suo volto
indurito e straziante, isolandolo nella sua tragicità dalle immagini
circostanti (la performance di Emilie Duquenne è impressionante,
soprattutto sapendola un'attrice che in fondo sta recitando). Sia
per una ragione soggettiva -che è un po' conseguenza dell'altra- di
percezione dello spettatore, pressoché indotto a vedere le cose con
gli occhi di Rosetta. Con risultati sconvolgenti, brutali, talora
sgradevoli, che senza la mediazione di una presa di distanza
potrebbero persino falsare il giudizio nei confronti di un film
ostico e senza consolazioni, ma innegabilmente bello e
provocatoriamente coraggioso. PALMA d'ORO al FESTIVAL di CANNES. (Carlo Confalonieri)
SHOPLIFTERS - UN AFFARE DI FAMIGLIA (Palma d'Oro 2018 Festival di
Cannes) - Fin dal titolo internazionale, il nuovo film di
Hirokazu Kore-eda, Palma d’oro al Festival di Cannes mette il furto
al centro delle sue consuete tematiche famigliari. Rubare nei
supermercati, rubare persone, rubare affetti. Per ri/costruire un
concetto di famiglia non più affidato al caso ma ad una scelta, a un
libero arbitrio. Nell'interno orizzontalmente alla Ozu della
catapecchia in cui vivono tutti insieme gli Shibata, i ruoli di
padre madre figli nonna zia hanno un valore solo nominale, non
consanguineo come scopriremo in parte fin dall’inizio e poi strada
facendo in una serie di risvolti noir. L'affettività degli armoniosi
FATHER AND SON e LITTLE SISTER incrocia la crudelta'
di NESSUNO LO SA, le più verità del rashomoniano THE THIRD
MURDER e il tentativo di comporre un nuovo concetto di famiglia
di RITRATTO DI FAMIGLIA CON TEMPESTA. Ne esce una summa del
cinema del nuovo maestro del cinema giapponese, le sue famiglie
disfunzionali che diventano funzionali, le sue verità apparenti
svelate in un gioco estremo dove il male diventa bene in un
ribaltamento dell'ottica morale. Che giustifica il furto materiale
come accadeva in LADRI DI BICICLETTE e quello sentimentale
come correzione delle distorsioni umane. Kore-eda nel suo film più
complesso e labirintico decostruisce la costruzione apparente di una
famiglia, per arrivare all’essenza delle relazioni. Quella che
dovrebbe supportarne con amore e affetto consapevoli le dinamiche,
invece affidate alle regole alle leggi alle convenzioni. In un
capolavoro di scrittura filmica che assolve con gli sguardi e coi
silenzi (grazie e papà diranno senza voce prima una nonna - la
monumentale Kirin Kiki gia' SIGNORA TOKU per Naomi Kawase - e
poi un figlio che non sono tali, ma quelle due parole urleranno
dentro di noi) con le lacrime e coi sorrisi, i crimini commessi in
nome dell'amore. (Carlo Confalonieri)
LA VITA DI ADELE (Palma d'Oro 2013
Festival di Cannes)
- Grandiosa opera umanistica, nel più alto significato di
osservazione dell'animo umano. La cinepresa geniale di Abdellatif
Kechiche filma per 3 ore l'iniziazione sentimentale e sessuale della
giovane Adele, abbandonandosi ai più sottili dettagli psicosomatici.
Le ciglia esprimono in un battito lo stupore, la saliva sulle labbra
un'infantile impossibilità di restare bambini, un sorriso spezzato
l'incertezza dell'adolescenza. Un mondo chiuso nei primi piani e
campi ravvicinati. Adele esce, sale sull'autobus, va al liceo … ci
rivediamo tutti in quei percorsi di distacco, di iniziale libertà.
Poi all'improvviso arriva la ragazza dai capelli blu uscita dalla
Graphic Novel LE BLEU EST UNE COULER CHAUDE di Julie Maroh. E
per Adele il mondo si ferma. E' quella lesbica navigata ad aprirle
il sipario della vita, della vita vera. A farla uscire dalla scuola
e dall'apprendistato a vivere. Si arresta il cuore di Adele, poi
batte sempre più forte e la cinepresa ne incalza e segue il ritmo.
Sarà un viaggio straordinario ‘a bout de souffle’ nell’incarnazione
rappresentata dal sesso e dalla sessualità, motore primario.
Un'apertura alle gioie e alle ferite scandite nell'Odissea umana che
tutti abbiamo intrapreso (si spera) diretti a una meta di corpo che
diventa anima e viceversa. Kechiche, a meta' opera, filma un
lunghissimo amplesso fra le due donne come mai si è visto al cinema,
trasportando la carne, il pensiero, il desiderio, direttamente dallo
schermo al grembo dello spettatore. Fecondandolo con una
purificazione visiva dell'atto più nascosto della condotta umana.
Fare l'amore col corpo, coi corpi che si trasfigurano nel più totale
realismo. Senza parole per un tempo infinito e sublime che resta.
Dopo seguirà la logica, i tradimenti le incomprensioni, ma non
importa, Kechiche ha fissato una partenza che è anche un arrivo.
Senza fare un film a tematica puramente omosessuale, bensì
psicologica fino alle estreme conseguenze. Aperta dolorosamente e a
tratti felicemente in viaggio, come la vita vera. Il grande viaggio
nel desiderio, nella conoscenza di sé e degli altri. Adele
Exarchopoulos rivelazione assoluta attorno a cui ruota tutto il
film, che addirittura si ispira al suo nome, è sublime. Lea Seydoux
conferma un talento di intensità magnetica, che cattura
l'inquadratura.
La Palma d'Oro di Cannes fu all'unanimità e assolutamente
indiscutibile. (Carlo Confalonieri)
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