L’America,
il
western,
il
cinema
di
Chloé
Zhao.
La
sua
è la
rilettura
di
un
genere,
è la
riscoperta
dell’elemento
fondativo
di
una
nazione.
Dalla
sua
macchina
da
presa
sgorga
l’eredità
di
John
Steinbeck,
di
Cormac
McCarthy.
In
The
Rider
– Il
sogno
di
un
cowboy
si
confrontava
con
Sam
Peckinpah
e
L’ultimo
buscadero.
In
Nomadland
ci
sono
le
pianure
di
John
Ford,
le
montagne
di
Anthony
Mann,
le
strade
di
Jack
Kerouac,
ma
anche
la
poesia
di
Bruce
Springsteen.
Furore,
le
carovane,
il
viaggio
che
caratterizza
da
sempre
la
cultura
degli
Stati
Uniti.
Il
movimento
non
è
dato
solo
dalle
ruote
sull’asfalto,
ma
dalla
fotografia
di
un
Paese
spezzato,
classista,
a
più
velocità.
Si
vive
come
nomadi,
al
posto
dei
cavalli
ci
sono
i
van,
e il
nome
del
“furgoncino”
sgangherato
della
protagonista
Fern
è “Vanguard”,
Avanguardia.
La
città
dove
abitava
si
chiama
“Empire”,
Impero,
ma è
stata
abbandonata.
Un’ironia
amara,
la
sconfitta
della
modernità.
Nomadland
è il
fantasma
del
capitalismo,
l’ombra
di
un
sogno
che
non
si è
mai
concretizzato,
l’immagine
di
una
terra
ricca
di
opportunità
che
si è
dissolta.
Zhao
restituisce
dignità
alla
provincia,
esalta
il
legame
tra
uomo
e
natura.
Con
sguardo
da
documentarista,
cattura
i
volti
di
chi
non
vuole
restare
indietro,
di
chi
sceglie
di
non
fermarsi.
Tanti
primi
piani,
i
racconti
di
solitudini
diverse,
che
provano
a
fare
comunità
in
mezzo
al
deserto.
La
musica
di
Ludovico
Einaudi,
il
viso
scavato
di
Frances
McDormand,
il
libro
Nomadland:
Surviving
America
in
the
Twenty-First
Century
di
Jessica
Bruder,
sono
i
tasselli
di
un
mosaico
che
cattura
la
quotidianità
di
chi
è
rigettato
dal
sistema.
È un
western
senza
pistole.
I
personaggi
hanno
la
pelle
bianca,
ma
potrebbero
essere
“indiani”.
La
loro
riserva
è
tutto
ciò
che
sta
al
di
fuori
dai
canoni,
dai
grattacieli
delle
metropoli.
Trovano
una
loro
quiete
la
sera
intorno
al
fuoco,
come
stanchi
cowboy
sempre
in
fuga
da
qualcosa.
Sono
inseguiti
dai
ricordi,
che
da
memoria
personale
diventano
coscienza
collettiva.
Fern
ha
perso
il
marito…
Non
è un
tema
nuovo
per
Zhao.
Nella
sua
opera
prima
Songs
My
Brother
Taught
Me
si
immergeva
tra
i
nativi
di
Pine
Ridge
per
riflettere
su
come
l’arrivo
del
contemporaneo
influisse
sui
Lakota.
In
The
Rider
– Il
sogno
di
un
cowboy,
il
protagonista
è
mezzo
Lakota.
Sono
punti
di
congiunzione
che
ritroviamo
nelle
vite
ai
margini
di
Nomadland,
un
potente
affresco
su
un’America
nascosta,
dove
la
desolazione
del
paesaggio
si
fonde
con
le
anime
lacerate
dei
viaggiatori.
È un
film
di
battaglie
spesso
perdute,
dove
gli
unici
datori
di
lavoro
disposti
a
pagare
appartengono
alla
cosiddetta
gig
economy,
e
l’esasperazione
del
consumismo
sembra
essere
la
sola
via
di
uscita.
Quindi
Zhao
mostra
chi
ha
meno,
chi
non
può
e
non
vuole
accumulare.
L’unico
dispositivo
tecnologico
di
Fern
è
uno
smartphone,
che
lei
usa
soltanto
due
volte
nella
storia.
La
cineasta
sottolinea
la
fermezza,
l’impossibilità
di
cambiare
dell’essere
umano
attaccato
ai
suoi
valori.
A
suo
modo
invoca
una
riconciliazione:
mette
a
tacere
le
trombe
di
un
mondo
frenetico,
e
cerca
il
silenzio,
cerca
un
po’
di
onestà
in
un
West
senza
più
miti
né
speranze.
(Da
Cinematografo
-
GianLuca
Pisacane)
La
RECENSIONE
di
CARLO
CONFALONIERI
NOMADLAND
di
Chloe'
Zhao
- Il
paesaggio
dell'anima,
il
paesaggio
della
natura.
Stessa
cosa
nella
cifra
visiva
di
Chloe'
Zaho,
che
al
terzo
film
dopo
SONGS
MY
BROTHERS
TAUGS
MY
(girato
in
una
riserva
Sioux)
e
THE
RIDER
(tra
i
rodei
in
Dakota
Sud
- di
cui
rimando
la
mia
recensione
del
2019),
raggiunge
la
fusione
totale
fra
cinepresa
e
interpreti
ovvero
Frances
Mcdormand
e i
luoghi
(come
Antonioni
in
ZABRISKIE
POINT
o
PROFESSIONE
REPORTER).
Luoghi
come
attori
alla
stregua
di
esseri
viventi
perché
loro
proiezioni
interiori,
ma
ancor
più
loro
sperimentazioni,
moltiplicazioni
geologiche
di
vissuti
sentimenti
memorie.
Guardare
attraverso
un
sasso
bucato
equivale
a
entrare
in
una
dimensione
tra
vita
e
morte
(come
avveniva
guardando
nel
buco
della
parete
ne
‘LE
SORELLE
MACALUSO’
di
Emma
Dante).
Perché
quel
sasso
è
appartenuto
a
una
persona
defunta,
che
non
si
abbandona
ma
si
ricerca
attraverso
il
viaggio.
In
NOMADLAND
tutti
si
sono
messi
in
viaggio
sui
Van
attraverso
l'America.
Non
tanto
perché
il
lavoro
manca
e lo
cercano
qua
e là
precariamente
passando
dai
contratti
flash
di
Amazon
a
quelli
stagionali
della
raccolta
di
barbabietole.
Perche'
devono,
vogliono
viaggiare.
NOMADLAND
attenzione
non
è
infatti
un
film
sulla
crisi
economica
Usa
che
ha
reso
molti
senza
casa.
Fran/Frances
Mcdormand
precisa
infatti
di
non
essere
una
senzatetto,
ma
di
non
aver
una
casa.
Perché
dopo
la
morte
del
marito
e la
chiusura
della
fabbrica
a
Empire,
piccolo
centro
che
verrà
cancellato
dalle
carte
geografiche,
Fran
lascia
tutto
e
parte.
Perché
la
vita,
la
sua
vita,
è un
viaggio
e
vuole
riprenderlo.
Quindi
non
è la
Mona/Sandrine
Bonnaire
nichilista
di
SENZA
TETTO
NÉ
LEGGE
di
Agnes
Varda,
né
la
Jiuliette
Binoche
de
GLI
AMANTI
DEL
PONT
NEUF
che
va a
fare
la
barbona
sotto
i
ponti.
A
Fran
- lo
dice
all'ufficio
di
collocamento
-
piace
lavorare
(frase
ripetuta
e
fatta
sua
dalla
Mcdormand
alla
consegna
dell'Oscar
come
migliore
attrice,
meritatissimo
per
l'ulteriore
perfezionamento
granitico
della
sua
arte
recitativa).
Fran
nel
viaggio
diventa
luce,
pietra
(le
sue
rughe
lo
mostrano
),
alba,
notte,
orizzonte.
E in
questo
film
meraviglioso
a
cui
non
si
può
resistere,
l'orizzonte
è
sempre
davanti,
dando
un
immenso
senso
di
pace
e
serenità
proprio
di
chi
ha
capito
che
la
vita
è
proiettata
verso
la
morte.
E
quindi
va
'abitata'
nei
luoghi
interiori
ed
esteriori
che
conducono
ad
essa
nella
libertà
e
nella
consapevolezza
spirituali.
Luminoso
e
rasserenante,
ora
più
che
mai
dopo
tanto
buio.
(Carlo
Confalonieri)
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