Quando a
firmare il documentario sulla vita di Ennio Morricone è
Giuseppe Tornatore, l’occasione di
realizzare un’opera maestosa è dietro l’angolo. La summa
della devozione e del rispetto del regista e di chiunque
abbia avuto il privilegio di arricchirsi delle
traiettorie del Maestro, è contenuto tutto nel poster
promozionale del film: Quentin Tarantino lo affranca dal
riduzionismo definendolo il suo compositore preferito di
tutti i tempi, le fessure azzurre di Clint Eastwood lo
pensano unico mentre per Wong Kar Wai Ennio arriva lì
dove altri non sono riusciti, non riescono e non
riusciranno mai.
Dopo venticinque anni di sodalizio, artistico e
fraterno, Tornatore apre al pubblico le pagine più
intime e delicate della vita del compositore, attraverso
interviste di repertorio e immagini sapientemente
incastrate per restituire all’occhio dello spettatore un
negativo contenente tutte le grandi opere del Maestro.
Opere che il più delle volte, Morricone nascondeva,
minimizzava dietro una misura e una timidezza mai
finzionali, ma funzionali al suo genio.
Il documentario, oltre che un omaggio, è un manuale di
istruzione per i posteri, un vocabolario di linguaggi e
intenzioni, perseveranza e amore per il proprio
mestiere. Giuseppe Tornatore costruisce un elogio al
Maestro, scomparso il 6 luglio 2020, attraverso la
confessione dello stesso compositore e il tributo degli
artisti, registi, sceneggiatori, musicisti, attori che
hanno assistito al suo “sforzo” creativo: Bertolucci,
Verdone, Argento, Zimmer, Tarantino, Stone, Piovani. Le
firme più importanti del panorama cinematografico e
musicale lo ricordano come la grande eccezione alle
regole, l’unico in grado di cambiare il destino della
musica. La personalità silenziosa, ma rigorosa e
puntuale del Maestro, gli ha consentito di tradurre in
note il suo genio visionario.
Così Tornatore disegna Ennio, partendo dalla testa:
l’infanzia, il padre trombettista, il conservatorio, i
primi ingaggi, i sacrifici, i lavori notturni, gli
incontri provvidenziali e quel suo modo particolare di
scrivere le partiture contemporaneamente per tutti gli
strumenti. Un’orchestra mentale, un personaggio con
il quale lavorare significava mettersi una medaglia al
collo, dice Argento. Per Morricone, emotivo più che
mai nel ritratto del regista, comporre musica voleva
dire difendersi dalla solitudine, rifuggire gli unisoni,
con la dignità di chi arrangiava il sublime
silenziosamente, riservando gli eccessi agli strumenti e
mai alla persona. Le mani del Maestro si muovono
avverando un’alternativa alla colpevolezza, parte del
tutto di quell’uomo di cui si vedeva solo la nuca,
sempre chino a scrivere la sua musica.
Ciò che è stato fatto, è stato grande grazie al suo
equilibrio: i volti degli attanti non son mai stati dei
registi, ma di quel genio particolare che sapeva rendere
in note il carattere dei personaggi, voluti, amati,
odiati, perfezionati. Conoscere la persona dietro al
genio significa godere di una possibilità rinnovata,
dimenticare una melodia e ascoltarla di nuovo per la
prima volta, predisposti, vergini, vuoti. Gli
abissi di Morricone sono stati la
linfa delle nostre vite, il suo rigore nella creazione
invece, ha plasmato una tensione estenuante, estatica,
così eloquente ed evocativa impossibile da indagare. Il
Maestro ha unito prosa e poesia, ha scritto la colonna
sonora delle nostre vite, ha pensato “ogni cosa,
prima di scrivere”. (Cinematographe
- Giulia Calvani)
Se esiste
il Paradiso, o un aldilà, ecco è lì che Morricone deve
stare.
In piedi, sotto le volte celesti, a dirigere gli angeli. |